rivista anarchica
anno 41 n. 367
dicembre 2011 - gennaio 2012


Messico

Dallo zapatismo alla barbarie
Conversazione con Antonio Frillici
di Gaia Raimondi

Il Messico oggi, tra concrete esperienze di organizzazione sociale alternativa, e una realtà violentissima, corrotta, in balia del narcotraffico.

 

Quando penso al Messico ho sempre una duplice sensazione positiva e negativa al contempo che mi attanaglia lo stomaco. I ricordi si fondono con le poche e sommarie notizie che oltrepassano l'oceano offuscando l'idea complessiva che mi sono fatta di questo grande paese. Una duplice sensazione appunto; positiva per tutto quello che ho potuto conoscere, sperimentare, vedere e toccare con mano, esempi di realizzazione incredibile delle nostre utopie, che qui in Europa spesso restano su carta stampata e che lì invece prendono un abbozzo di forma reale, nonostante le mille difficoltà e le contraddizioni, le incompletezze e gli errori. Negativa perché mi sembra che il quadro generale espliciti una realtà violentissima, corrotta, in balia del narcotraffico e senza la minima giustizia, ma non solo per i popoli indigeni ma anche nelle piccole cose più banali, nella quotidianità di tutta la popolazione, stranieri compresi. Cerchiamo di fare un'analisi da più punti di vista per comprendere meglio quello che sporadicamente sentiamo a riguardo.

Gaia Raimondi


Sarebbe molto lungo un discorso sulla giustizia, che si può tranquillamente affermare non esista in nessun luogo al mondo. Quello che però impressiona in Messico è l’assoluto arbitrio.
Secondo le statistiche, l’80% dei detenuti sono innocenti e il 90% dei delitti rimangono impuniti. La corruzione dei giudici e della polizia è generalizzata.
Un discorso a parte meritano gli “judiciales”, un corpo di pubblica sicurezza che agisce in borghese, muovendosi a bordo di macchine senza targa, e che terrorizza la popolazione. All’occorrenza, sono quasi sempre loro a trovare il capro espiatorio necessario.
La gente, quando si sente in pericolo e può farlo, ricorre all’“amparo”, vale a dire una forma giuridica per cui non può essere perseguita legalmente, essendo appunto “amparata”. Si tratta di una specie di “arimortis”, che non mette però al riparo dagli “judiciales”, usi al sequestro e all’assassinio. Un caso emblematico di come funziona l’ingiustizia in Messico è quello di Florence Cassez. Questa poveretta è stata accusata di essere a capo di una banda di sequestratori. Riconosciuta colpevole di tre rapimenti, viene condannata dapprima a 90 anni. Poi, le autorità si accorgono che all’epoca di uno dei rapimenti era in Francia e la pena viene quindi ridotta a 60 anni. In un momento in cui i sequestri erano all’ordine del giorno, era importantissimo trovare un colpevole. Florence, giovane, bella e, soprattutto, francese, era il capro espiatorio perfetto, soddisfacendo i più squallidi sentimenti anti-stranieri (la Francia colonizzò il Messico all’epoca di Massimiliano e Carlotta). Il suo arresto e la spettacolare liberazione degli ostaggi furono trasmessi dalla televisione in diretta, ma era tutto una messinscena: Florence era infatti stata arrestata, altrove, il giorno precedente. Questo falso reality-show, condotto sotto la direzione di García Luna, il sinistro capo dell’AFI (Agenzia Federale d’Investigazione), e trasmesso di prima mattina, già di per sé inficerebbe la condanna inflitta a Florence. Da allora (dicembre 2005), la poveretta è in prigione, mentre Sarkozy ne fa un battage pubblicitario in vista della sua rielezione e, addirittura, arriva a dedicarle l’anno dell’amicizia franco-messicana, il 2011, col risultato che le celebrazioni sono cancellate e la situazione per Florence peggiora. Genaro García Luna è senz’altro uno dei principali artefici della politica d’insicurezza in Messico. In un Paese che in quattro anni ha visto 40.000 morti nella lotta “anti-narcos”, costui arriva a dichiarare che i primi risultati di questa guerra si vedranno solo nel 2015, promettendo quindi altri quattro anni di lutti.

G.R.: La storia contemporanea del Messico è ricca e costellata di tentativi di rivolte e liberazione da un sistema corrotto e marcescente, attraverso lotte popolari con esempi di pratiche che potremmo ascrivere come libertarie. Aldilà del fattore repressivo che indubbiamente è stato causa primaria del parziale fallimento di questi tentativi, pensi che ci sia stato qualche errore strategico nel portare avanti le lotte?

A.F.: Il 1º gennaio 1994, data dell’entrata in vigore dell’Accordo Nordamericano per il Libero Scambio (NAFTA), che significava la svendita del Messico al potente vicino settentrionale, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale si sollevò. Quel giorno una luce illuminò il mondo. Di colpo, il Chiapas, Stato con una forte componente indigena, venne conosciuto ovunque, così come il subcomandante Marcos, con il passamontagna e la pipa. È da riconoscere a Marcos il merito di avere attirato l’attenzione del mondo sulla condizione degli indios messicani e anche di avere inaugurato una stagione di lotte caratterizzate dalla non-violenza e dalla volontà di raggiungere degli obiettivi senza cercare la presa del potere, distinguendosi in ciò dalle numerose guerriglie latino-americane precedenti. Mentre si estendevano in tutto il Messico le lotte sociali, la figura di Marcos a poco a poco, però, si ingessava nel personaggio del subcomandante. Dopo i primi manifesti di eccezionale vigore, lo scrittore Marcos, ottimo scrittore indiscutibilmente, prendeva il sopravvento. Quando scoppiò la rivolta di Oaxaca, e poi quella che fu chiamata la Comune di Oaxaca, si formò un comitato, la APPO (Asamblea Popular de lo Pueblos de Oaxaca), che diresse le lotte, senza un leader carismatico e nel solco dell’autogestione. (Questa tradizione, particolarmente radicata in Messico, si ricollega da una parte all’esperienza indigena e dall’altra alle origini del movimento operaio di questo Paese, origini segnate da una forte influenza dell’anarchismo.)
Nonostante la durissima repressione operata da Ulysses Ruiz, governatore dello Stato di Oaxaca, l’autonomia della città durò per circa sei mesi, fino alla fine del 2006, quando fu insediato il nuovo presidente della repubblica. Fu allora che Marcos, rimasto abbastanza silenzioso nei mesi precedenti, riacquistò la prima pagina dei giornali organizzando, durante la campagna per l’elezione del nuovo presidente, “la otra campaña”. Muovendosi per tutto il Messico, scortato dalla polizia, sostenne che tutti i candidati erano corrotti e che la gente doveva prendere il suo destino nelle proprie mani, senza bisogno di caudillos. Un discorso tanto giusto quanto generico, che non teneva conto di chi erano i candidati in lizza. Uno era Madrazo (in messicano “cazzotto”), del Partito Rivoluzionario Istituzionale, che da una parte avrebbe duramente colpito gli attivisti sociali e dall’altra si sarebbe mosso in accordo con i cartelli della droga, secondo la tradizione del suo partito; un altro candidato era Felipe Calderón, detto Fecal, dalle prime sillabe di nome e cognome, rappresentante dell’ala destra del partito di destra Azione Nazionale, neoliberista; infine c’era Andrés Manuel López Obrador (AMLO, dalle iniziali), ex sindaco di Città del Messico, del Partito della Rivoluzione Democratica, osteggiato da tutti i potentati finanziari del Paese, tanto da essere definito “un peligro para México” dalle televisioni, in quanto fautore di una politica abbastanza simile a quella di Lula in Brasile (sviluppo del mercato interno, sostegno ai poveri, revisione del NAFTA). Considerando i tre candidati alla stessa stregua, Marcos, a mio avviso, fece un errore strategico.

La testa dura degli indios

G.R.: Altro fattore per cui spesso si sente tristemente parlare di Messico è l'inaudita e costante violenza diffusa, accompagnata da un atteggiamento machista e misogino e prevaricatore. Tutto ciò si ripercuote come ovvio anche a discapito delle resistenze, che vengono represse brutalmente, quasi dimenticando il senso della vita e dell'umano; il che fa pensare ad un silenzio assenso del governo e anzi ad un omertoso sostegno dello stesso nelle pratiche violente di repressione, morte e tortura. Esagero?

A.F.: Il Messico è un Paese tradizionalmente violento e dove la gente ride di tutto, “hasta de la muerte” (perfino della morte). Le culture preispaniche erano violente, basti pensare ai sacrifici umani praticati dai Mexicas (cioè gli Aztechi) e anche dai Maya dopo l’arrivo del mitico Kukulcan. I sacerdoti strappavano il cuore ai sacrificati e il sangue scorreva lungo le piramidi. Gli spagnoli, portatori del cristianesimo, erano peggio. È famosa la frase di Oviedo nella sua Storia delle Indie del 1555 in cui spiega che quando si taglia la testa a un indio bisogna fare attenzione perché, avendola molto dura, si può rompere la spada.

La violenza colpisce ovunque

Passando a tempi più recenti, vale la pena di ricordare una battuta che circolava dopo l’11 settembre: “Sapete perché un hamburger assomiglia alle Torri Gemelle? Perché dentro c’è carne trita”. Humour (nero), violenza e sangue. Quella messicana è una società machista, nel senso che molti valori dichiarati hanno a che vedere con il coraggio e il disprezzo per la paura della morte. “La vida no vale nada”. Questa esasperazione dell’idea di virilità ha, come spesso accade, il suo rovescio della medaglia. L’omosessualità, sia maschile che femminile, in Messico è molto diffusa. Però, mentre l’omosessualità femminile è tollerata e spesso accettata, al punto che il pueblo di Tepoztlán è soprannominato Lesboztlán, quella maschile non è ammessa ed è perciò quasi sempre nascosta dietro una famiglia.
Un’osservazione a proposito del linguaggio, da cui traspare questa esaltazione del ruolo maschile. Per dire che una cosa è bella: “que padre”; bellissima: “padrissimo” o “de poca madre”. Rimane però l’importanza del ruolo femminile nella struttura familiare testimoniata dall’appellativo “mi jefa” (la mia capa), usato di sovente dai figli nei confronti della madre. I rapporti tra marito e moglie o tra uomo e donna sono spesso violenti. Il Messico è uno dei Paesi al mondo dove è più diffusa la violenza carnale, a volte terminando tragicamente con l’uccisione della donna. Esiste un reato specifico denominato “feminicidio”. È tristemente famoso il caso di Ciudad Juárez, nello Stato di Chihuahua, dove in pochi anni centinaia di donne sono state violentate e uccise, ma l’Estado de México non è da meno. Secondo le organizzazioni di difesa dei diritti civili, con l’attuale amministrazione i casi di “feminicidio” sarebbero già 950. In molti casi gli autori riconosciuti di questi delitti sono poliziotti o militari e le ONG accusano il governo di essere spesso complice. Inoltre, la violenza carnale viene usata ormai sistematicamente contro le lotte sociali. In Atenco molte donne furono violentate dalla polizia dopo l’arresto e, in quel caso, ci fu parità di diritti: anche molti degli uomini arrestati subirono la stessa sorte.
Secondo Robert Mueller, direttore dell’FBI, la violenza in Messico è giunta a livelli “senza precedenti” e inizia a colpire anche i funzionari statunitensi che operano in quel Paese, come nel caso dell’uccisione a Ciudad Juárez di un’impiegata del consolato e di suo marito o nell’aggressione in cui è morto un agente USA dell’Immigrazione e Dogana. “Le statistiche relative agli omicidi parlano da sole. Gli ultimi due anni sono stati particolarmente funesti”. E perfino il deputato del PRI Caro Cabrera nota come la strategia della guerra al narcotraffico si sia pervertita, con poliziotti che vanno in giro incappucciati realizzando estorsioni a danno dei cittadini. In un caso di rapina e violenza sessuale conclusosi senza morti, a Monterrey, la connivenza della polizia fu ampiamente provata. Quando gli oltre cento clienti poterono uscire dal ristorante Altata, teatro della rapina, dopo essere stati derubati, con molte donne fatte spogliare e violentate, videro sorpresi che due automobili della polizia erano parcheggiate proprio lì davanti, con gli agenti a bordo. Che non sia solo guerra di narcos, con il suo macabro susseguirsi di episodi truculenti, lo dimostra il fatto che, quando amici e familiari delle vittime chiedono giustizia, spesso anche loro vengono uccisi. Il caso della famiglia Reyes Salazar è agghiacciante. Questa tragedia cominciò nel 2008 quando fu ucciso il figlio di Josefina Reyes Salazar, attivista dei diritti umani. L’appello della madre per avere giustizia fu messo a tacere quando lei stessa venne assassinata in un paesino vicino a Ciudad Juárez, il 3 gennaio 2010. Nell’agosto di quell’anno fu ucciso Ruben, fratello di Josefina. Il 7 febbraio di quest’anno furono rapiti Maria Magdalena, Elías Reyes Salazar e sua moglie Luisa. I tre componenti della famiglia furono ritrovati morti il 25 febbraio, con evidenti segni di tortura e un cartello con su scritto: “È questa la giustizia che volete?”.
Un altro caso impressionante è quello di Marisela Escobedo Ortiz. Nell’agosto del 2008 a Ciudad Juárez viene assassinata sua figlia. Il colpevole, reo confesso, viene liberato per vizi di procedura. Marisela inizia una campagna chiedendo giustizia, finché decide di piazzarsi davanti al palazzo del governo dello Stato di Chihuahua, con un cartello che non lascia spazio ad ambiguità: “Se mi uccidono, che lo facciano davanti al palazzo del governo, così le autorità si vergogneranno”. E lì un sicario scende da un’automobile e la fredda. Il giorno del funerale, la falegnameria del marito viene bruciata da un commando che rapisce anche il fratello del proprietario. Il Tribunale dello Stato, per parte sua, dichiara di non potere ancora mettere in relazione l’incendio e il rapimento con l’assassinio di Marisela. Il 30 settembre 2010, ad Acapulco, un gruppo armato rapisce 20 lavoratori che viaggiano a bordo di un autobus. Dopo un mese, si svolge una manifestazione di un migliaio di parenti e amici a Morelia, città da dove provengono i rapiti. Alcuni testimoni dicono che a sequestrarli è stata la polizia, però non si fidano a rilasciare dichiarazioni pubbliche o a sporgere denuncia, per paura di rappresaglie. Pochi giorni dopo questa manifestazione, in una fossa comune vengono ritrovati i corpi dei rapiti.
La violenza colpisce ovunque. Molti sono uccisi da proiettili vaganti. Altri a posti di blocco dei militari, che alterano poi la scena dei fatti. Perfino otto cacciatori, arrestati perché secondo il procuratore di Zacatecas stavano cacciando illegalmente, furono consegnati a dei narcotrafficanti, che li fucilarono. Ufficialmente, sono 400 i comuni controllati dai cartelli, ma questa è solo la punta dell’iceberg. Ciudad Juárez, nello Stato di Chihuahua, alla frontiera con gli Stati Uniti, è stata il laboratorio di quanto sarebbe poi successo nel resto del Messico. Già tristemente famosa alla fine degli anni Novanta per gli omicidi di donne, è anche la prima città dove sia stata applicata la “dottrina Calderón” nella guerra al narcotraffico con l’invio dell’esercito. I morti ammazzati sono aumentati in maniera impressionante, perfino le bambine vengono prese a fucilate, come il 23 febbraio 2011, quando due furono uccise e altre quattro ferite. Secondo Gustavo de la Rosa, rappresentante della Commissione Statale dei Diritti Umani, a Ciudad Juárez sono state segnalate dieci “zone di sterminio”, dove i gruppi criminali dal 2009 hanno eliminato 200 famiglie.

Guerra alla droga: 40 anni di fallimenti

G.R.: Le notizie che arrivano a noi e contribuiscono a creare un immaginario stereotipato e superficiale del Messico non fanno altro che sbattere in prima pagina la questione della droga e del narcotraffico, quasi voler inculcare nella mente delle persone questo binomio “Centro America = narcotraffico”, appiattendo tutte le analisi sui problemi che emergono, facendoli ricadere in regolamenti di conti fra bande, passaggi di illeciti, clandestinità violate. Purtroppo ho la sensazione che la situazione sia ben più complessa di quello che si vorrebbe far credere. E che di nuovo si ritrovi un forte coinvolgimento dell'apparato statale e parastatale nell'infernale scenario del narcotraffico e delle sue mortifere orribili conseguenze.

A.F.: Il Messico è sempre stato produttore di marijuana, talmente diffusa che persino la canzone della Cucaracha vi fa riferimento (La cucaracha, la cucaracha, ja no puede caminar porque no tiene, porque le falta marijuana que fumar…). In tempi più recenti è diventato anche produttore di oppio. Tutto cambia quando, con il successo della cocaina, grandi quantitativi di questa droga attraversano il Messico per essere consumati negli Stati Uniti. È una situazione paragonabile a quando la mafia siciliana iniziò il commercio dell’eroina. I trafficanti muovono grandi somme di denaro. Dapprima la strada è quella più breve: dalla Colombia, via Caraibi, la coca arriva in Yucatán e da lì in Florida. Però, presto, le rotte si diversificano e si formano così, a seconda delle regioni, vari cartelli di narcotrafficanti. Il Messico stesso inizia a consumare cocaina anche se, certo, in misura non paragonabile agli Stati Uniti, che restano il miglior mercato al mondo. I narcos, ovviamente, non si limitano al solo traffico di stupefacenti e presto la loro attività abbraccia tutto quello che c’è di illegale, dalla prostituzione al gioco d’azzardo e, soprattutto, l’acquisto di armi dagli USA e il passaggio dei clandestini dal Messico al potente vicino del Nord. Il valico del confine è rischioso e ogni anno sono centinaia i disgraziati che muoiono sia di sete e di stenti, nel deserto che separa i due Stati, sia uccisi direttamente dalla polizia di frontiera statunitense.
In questa situazione, l’arrivo al potere di Felipe Calderón marca un cambio deciso. Come già nel 1988 nel caso di Carlos Salinas de Gortari, la vittoria di Felipe Calderón puzza di brogli elettorali. Però, a differenza dello sconfitto di allora, López Obrador non accetta la truffa e si proclama presidente legittimo del Messico. Mentre a Oaxaca continua la rivolta contro il governatore Ulysses Ruiz, a Città del Messico le manifestazioni di ripudio all’usurpatore si susseguono portando in piazza decine di migliaia di persone. Tra l’estate, quando si svolgono le votazioni, e l’anno nuovo, quando Calderón assume la presidenza, il potere cerca di guadagnare tempo, confidando nella stanchezza dei manifestanti e in una repressione selettiva.
A Oaxaca viene assassinato Brad Will, un collaboratore statunitense di Indymedia, e dell’omicidio vengono falsamente accusati i rivoltosi. L’uccisione di un giornalista straniero è un fatto eccezionale, perché abitualmente sono quelli messicani a morire ammazzati e in gran numero (basti pensare che dopo la Russia il Messico detiene il record di giornalisti uccisi). La provocazione dà il via a una repressione tremenda, con violentissimi scontri di piazza, rapimenti di attivisti sociali (molti della APPO), che scompaiono nel nulla, e sistematiche violenze sessuali su uomini e donne arrestati. Con l’anno nuovo, Fecal assume la presidenza della repubblica dichiarando “la guerra al narcotraffico”.
Dopo quarant’anni di fallimenti nella della “guerra alla droga”, lanciata per primo da Nixon nel giugno 1971, è ormai evidente che la maniera più efficace per ridurre drasticamente il potere dei narcotrafficanti consiste nella fine del proibizionismo. Ostinandosi a prescindere da questa sensata prospettiva, per combattere i cartelli della droga ci vorrebbero comunque una polizia e un esercito integri o almeno non troppo corrotti. Invece in un Paese come il Messico in cui si dà una continua osmosi tra criminalità e servizi di sicurezza, ristabilire la legalità diventa molto difficile. Inoltre anche l’apparato giudiziario è fortemente inquinato, e lo stesso dicasi per gli avvocati, tra i quali la corruzione è diffusissima. Infine c’è da sottolineare che queste organizzazioni, oltre a essere infiltrate negli apparati di sicurezza dello Stato, sono assai radicate nel territorio, dispongono di ingenti mezzi finanziari e possono mettere in campo una grande potenza di fuoco. Perciò la guerra di Calderón inizia nelle peggiori condizioni.
C’è una storiella che indica come questa strategia fosse destinata al fallimento. Al momento del suo insediamento, il nuovo zar antidroga chiede ai suoi collaboratori: di quanti soldi disponiamo? Gli viene risposto: di 500 milioni di dollari. Bene! E il narco di quanto dispone? Nessuno risponde. Dietro sua insistenza, si sente infine una vocina: infinito… Al di là dell’aneddoto, il traffico di stupefacenti è calcolato in circa 60 miliardi di dollari all’anno. A dichiararlo è García Luna, diventato nel frattempo responsabile della Sicurezza Pubblica Federale dopo lo scioglimento dell’AFI. (Lo stesso García Luna, peraltro, è sotto osservazione da parte della DEA statunitense per presunti legami con il narcotraffico.) Una delle prime misure di Calderón è stata quella di concedere aumenti salariali all’esercito, per assicurarsene la fedeltà; successivamente una nuova legge avrebbe permesso alla polizia di perquisire le case anche senza mandato. Nel giro di poco tempo, le uccisioni tra i narcos aumentano, come anche quelle di sindaci, funzionari e poliziotti. È una escalation impressionante nel numero e nelle modalità, perché i corpi senza vita delle vittime di faide tra le varie organizzazioni mafiose, sempre più spesso, vengono ritrovati mutilati. Corpi senza testa, che non vanno però sui network televisivi mondiali, a differenza di quelli decapitati in Iraq.

Nessuno vuol fare più il poliziotto

Le uccisioni e i funerali si susseguono a ritmo incalzante. Alla fine di ottobre del 2010, quando le bare dei 14 ragazzi rapiti a Ciudad Juárez erano ancora aperte, un commando fece irruzione in un centro di disintossicazione a Tijuana: mise in fila 13 ragazzi e li fucilò. Passarono un paio di giorni e 15 giovani addetti a un autolavaggio furono assassinati. Di questi, 11 lavoravano lì nel contesto di un programma di reinserimento sociale, essendo ex tossicomani. Il messaggio era chiaro: non dovete smettere di drogarvi, continuate perché tanto morirete lo stesso. La barbarie era ormai diventata un fatto quotidiano. L’ineffabile Calderón dichiarò che tra questi giovani molti erano legati al narcotraffico, ma fu rapidamente zittito dal clamore suscitato da questa dichiarazione sconsiderata.
Tra i massacri avvenuti di recente, ricordiamo ancora quello di Cuernavaca, all’inizio di aprile. Cinque giovani e due adulti vengono ritrovati morti all’interno di un’automobile. Tra di loro il figlio del noto poeta Javier Sicilia, che inizia subito a promuovere manifestazioni con lo slogan “Ni un muerto mas” (nemmeno un altro morto). Dopo una settimana i militari, sospettati di essere implicati negli omicidi, presentano il “colpevole”: il volto tumefatto, le unghie bruciate, costui rilascia delle dichiarazioni, presto smentite dai fatti. L’ennesimo capro espiatorio. Purtroppo è vero che il Messico ha un sistema educativo tra i peggiori di tutta l’America Latina e che molti giovani hanno per prospettiva o quella di emigrare negli Stati Uniti come clandestini o quella di lavorare in Messico per una salario letteralmente da fame. L’unico futuro pare perciò essere quello di diventare un narcotrafficante, con macchine, belle ragazze, armi, potere e, se non si è uccisi, la possibilità di arricchirsi. Perciò il narcotraffico non ha problemi a reclutare giovani e adolescenti. Emblematico il caso di El Ponchis, un quattordicenne la cui occupazione era quella di tagliagola, dietro ordine dei boss. Quando fu arrestato a Cuernavaca, gli chiesero che cosa provasse quando ammazzava qualcuno. Rispose: “Siento feo” (è brutto). Se il narcotraffico non ha problemi di reclutamento, non altrettanto si può dire per la polizia, tanto che in molti Stati del Nord, come Tamaulipas, Sinaloa o Nuevo Leon, non c’è più nessuno che voglia fare il poliziotto.

G.R.: All'interno di questo panorama agghiacciante ci sono leadership di narcotraffico, personaggi noti e conosciuti al popolo per le loro nefandezze e gesta inenarrabili?

A.F.: Ci sono due cartelli di narcotrafficanti che meritano un’attenzione particolare. Uno è quello della Familia Michoacana, attivo, come dice il nome, nello Stato di Michoacan. Si tratta di un’organizzazione che ricorda la Mafia ai suoi albori, perché, oltre a richiedere il pizzo, amministra la giustizia in modo efficace ancorché sbrigativo. Dai tassisti agli artigiani, fino ai grandi produttori agricoli o ai padroni dei locali notturni, tutti pagano per la protezione. Però quando qualcuno ha un credito che non riesce a riscuotere o una donna viene picchiata ferocemente dal marito, La Familia interviene. Nel dicembre 2010, questo cartello ricevette un duro colpo con l’uccisione da parte della polizia del suo capo indiscusso, Nazario Moreno, detto El Más Loco, El Doctor, El Pastor, El Chayo ecc. Dopo questo scontro a fuoco, durato fino all’alba, in cui morirono cinque poliziotti, tre malavitosi e tre civili, i sostenitori di Nazario Moreno scesero in piazza portando striscioni con su scritto: “Vogliamo la pace”, “Vogliamo lavoro, non poliziotti”. L’altro cartello molto particolare è quello degli Zetas.
Questa organizzazione paramilitare è sempre implicata nelle azioni più efferate e nei rapimenti più strani. Secondo una dichiarazione rilasciata dal viceministro degli Interni guatemalteco Mario Castañeda il 6 aprile 2011, membri dei corpi speciali dell’esercito guatemalteco, conosciuti come Kaibiles, ricevono 5.000 dollari al mese per addestrare uomini degli Zetas e anche per partecipare allo spaccio. Castañeda afferma inoltre che il cartello ha rubato, in almeno tre occasioni, armi dalle caserme. Secondo altre fonti, questo cartello sarebbe formato da ex (?) membri delle forze speciali messicane del Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales, addestrato in counterinsurgency a Fort Benning (Georgia), e da ex (?) poliziotti statali e federali. Il 17 dicembre 2010 un’autobomba esplose davanti alla sede della polizia del comune di General Zuazua, in Nuevo Leon, provocando tre feriti.
I cartelli del Golfo e di Sinaloa rivendicarono l’attentato dichiarando che era rivolto contro i sequestri: “Tutti sappiamo che i rapimenti sono commessi dagli stessi poliziotti di Nuevo Leon, conosciuti come poli-zetas. Lo Stato di Nuevo Leon non garantisce la sicurezza dei suoi cittadini; i rapimenti che non sono stati denunciati per paura delle stesse autorità sono oltre mille“. La rivendicazione concludeva avvertendo che “sono pronte altre undici autobombe per rendere giustizia ai desaparecidos, perciò i poli-zetas e i funzionari corrotti sono avvisati”. In Michoacan i continui scontri tra La Familia e gli Zetas hanno provocato un massiccio esodo dalle zone più violente. Infine , uno dei clandestini sopravvissuti al massacro di Tamaulipas già ricordato, dichiarò che gli assassini erano Zetas, che avevano ucciso le vittime perché si erano rifiutate di arruolarsi nella loro organizzazione.

Ma perché tanta violenza?

Qual è il ruolo di influenza degli Stati Uniti in rapporto alla nazione che si estende proprio ai loro piedi, in tutto questo scenario di corruzione e morte?

Ovviamente, gli Stati Uniti non stanno a guardare. Ora si sa, grazie a un dispaccio rivelato da Wikileaks, che parte del traffico illegale di armi fu approvato dal governo di Washington, nel quadro dell’azione segreta conosciuta come Rapido y furioso. In questa sola occasione i narcos furono riforniti di duemila fucili d’assalto. Con la Chuck Wagon, un’operazione condotta sotto la guida del consigliere militare degli USA in Messico, la SEDENA (Secretaría de Defensa Nacional) doveva invece essere aiutata a scoprire traffici di armi da guerra (missili, lanciamissili, esplosivi e quant’altro). Nonostante potessero richiedere alle autorità messicane competenti tutte le informazioni necessarie, gli Stati Uniti non riuscirono mai a identificare un solo trafficante di armi, a bloccare un solo invio o a individuare una sola destinazione finale. Da parte messicana nessun reclamo per quest’assoluta mancanza di risultati.
Un altro aspetto che sicuramente interessa il governo degli Stati Uniti è il traffico degli immigrati centroamericani con destino finale Gringolandia. Qui non si parla delle centinaia di messicani e centroamericani presi letteralmente a fucilate dalle guardie di frontiera statunitensi, né dei “polleros” che, in cambio di lauti compensi, organizzano il passaggio dei clandestini, talvolta abbandonandoli poi al loro destino. Si parla dei guatemaltechi, degli honduregni, dei salvadoregni che scompaiono nell’attraversare il Messico, senza mai arrivare alla frontiera nordamericana, risolvendo così le autorità statunitensi il problema alla radice. I dati forniti dalle fonti ufficiali messicane sono molto inferiori alla realtà: secondo l’INM (Instituto Nacional de Migración) nei primi dieci mesi del 2010 ci sono stati 222 casi di rapimenti a danno di immigrati clandestini. Invece, secondo la Associazione Rete dei Comitati dei Migranti e Familiari dell’Honduras, “gli scomparsi aumentano giorno dopo giorno. Solo per quanto riguarda l’Honduras, abbiamo una lista di 860 casi”. Se prima venivano usati per essere sfruttati sessualmente o come schiavi, oggi vengono anche obbligati a delinquere, sicari che ammazzano prima di essere a loro volta ammazzati. Il massacro di Tamaulipas, in cui nell’estate del 2010 furono uccisi 72 immigrati, in maggioranza dell’Honduras, fu un chiaro avvertimento. Chi vuole emigrare come clandestino ha più probabilità di morire che di farcela. Quando il 24 agosto furono trovati i loro corpi, Roberto Suarez, l’agente che seguiva il caso, fu ucciso nello stesso luogo. Altro esempio emblematico è quello denunciato dal sacerdote Solalinde Guerra, coordinatore della pastorale sull’immigrazione: il 16 dicembre 2010, soldati, poliziotti e agenti dell’INM assaltarono un treno su cui viaggiavano 190 migranti centroamericani, che scomparvero nell’istmo di Tehuantepec, tra Arriaga, in Chiapas, e Ciudad Ixtepec, in Oaxaca.
Sarà per tutto questo che Hillary Clinton, durante la sua visita ufficiale in Messico del gennaio 2011, affermò che “siamo sulla buona strada nella lotta contro il narcotraffico”, dichiarandosi “impressionata dalla leadership di Calderón”. Il quale per parte sua, all’inizio dell’aprile 2011, annunciava: “Le cose andranno molto bene. Me lo ha detto un uccellino…”.

G.R.: Abbiamo cercato di spiegare come si sia potuti giungere a questa drammatica situazione e quali siano le radici di tanta violenza. Ma perché viene da chiedersi?

A.F..: Il Messico, a partire dal 1994 e per oltre un decennio, è stato all’avanguardia delle lotte nel mondo e forse l’unico Paese in cui fosse all’ordine del giorno la questione della rivoluzione sociale. Da Tepoztlán al Chiapas, da Oaxaca ad Atenco, dalla lotta dei Mazahua per l’acqua a quella delle popolazioni che si opponevano alla costruzione dell’autostrada Siglo XXI, era un susseguirsi di proteste, istanze di trasformazione e tentativi pratici di cambiamento. Per la cupola che sta al potere in Messico, ma anche negli Stati Uniti e nel resto del mondo, era imperativo fermare questo variegato e ricchissimo movimento sociale. A tutti i costi.
Oggi, questa stessa cupola internazionale copre con un autentico black-out informativo quanto accade in questo straordinario Paese. Conoscendo l’eccezionale coraggio dei messicani, un attacco frontale da parte del potere sarebbe sfociato nella guerra civile. Meglio quindi favorire una massiccia diffusione della droga e alimentare un feroce conflitto fra i vari cartelli. E allora, ecco la militarizzazione del Paese, ufficialmente necessaria per combattere la violenza dei narcos, ma che in realtà la alimenta e la gestisce per consolidare il potere.

Gaia Raimondi