rivista anarchica
anno 41 n. 361
aprile 2011


società

Prospettive di cambiamento
di Andrea Papi

L’occidente, che ha inventato la democrazia rappresentativa, in poco più di due secoli l’ha deprivata di senso, riducendola a un regime oligarchico sostenuto dal consenso elettorale.

 

Stiamo vivendo un periodo denso di cambiamenti, ma non è facile comprendere a fondo il senso di quello che sta succedendo né intuire, seppur in modo lato, verso che cosa ci stiamo incamminando. L’unica cosa che appare certa è che gli assetti di potere vigenti non sembrano più stabili né inamovibili. Al contempo si presenta il buio nello sfondo che si sta prospettando allforizzonte. Per questo ho la netta sensazione di percepire un vuoto grandissimo: la mancanza di una prospettiva capace di dare luce e senso a un cambiamento in atto e che, soprattutto, mi appare nell’ordine naturale delle cose.
Che cosa intendo per prospettiva? La propensione a progettare a vasto raggio per la realizzazione delle esigenze collettive e individuali in una dimensione sociale e culturale di ampio respiro. Cioè cercare di avere presente, fino a riuscire a definirlo, quale e come sarà il mondo in cui vorremmo vivere. Non mi sembra che questa propensione ci sia. Più che altro ho l’impressione che ci si lasci trasportare dalla corrente del divenire, subendola, addirittura assecondandola, indipendentemente che ci soddisfi o non. O si aderisce allo squallore di ciò che avviene, accettandolo, riconoscendosene parte, incuranti di modi di essere più umani e più giusti, contribuendo perciò a rafforzarlo culturalmente, o lo si rifiuta sentendosi però impotenti, per cui facilmente si tende a reagire con rabbia in termini meramente oppositivi. In entrambi i casi, completamente al di fuori di ogni prospettiva, l’adesione allo stato di cose presente e ai mutamenti per come si presentano è o voluta o inevitabile.

Situazioni sgradevoli

A pensarci bene non potrebbe che essere così, dal momento che per muoversi in funzione di un cambiamento radicale bisogna volerlo. A sua volta per riuscire a volerlo bisogna avere un’idea un minimo consapevole del che cosa si vorrebbe, cioè un immaginario capace di prefigurare, perlomeno per sommi capi, quale tipo di società e di relazioni sociali si vorrebbero in alternativa e proporre e lottare per realizzarli. Nella fase attuale la diffusione di una simile propensione sembra alquanto difficile, soprattutto perché il senso dell’esperienza storica delle alternative finora vissute ha purtroppo dimostrato quanto poco desiderabili possano essere. Il che induce con gran facilità a supporre che ogni alternativa radicale in quanto tale non possa che essere portatrice di situazioni sgradevoli, o comunque non accettabili e non desiderabili.
Una tale diffusa situazione di propensione d’animo porta come conseguenza verso qualcosa cui, per chi come noi è invece propenso a cercare l’alternativa e ad agire per essa, non siamo avvezzi. La società nostra ci dimostra continuamente insoddisfazione per lo stato di cose cui è costretta a vivere, al contempo è pure indisponibile ad entrare nell’ordine d’idee d’un cambiamento alle radici, capace di coinvolgere direttamente ogni individuo, di reimpostare i rapporti sociali e il metodo politico di gestione della società, come di ridefinire totalmente la qualità delle relazioni economiche. L’idea del nuovo non attrae, anzi fa paura, primo perché non c’è l’abitudine a una giusta ginnastica collettiva capace di immaginarla, secondo, non di minore importanza, perché storicamente ogni volta che gli eventi hanno travolto ciò che c’era, riuscendo ad instaurare situazioni totalmente nuove, si sono quasi sempre vissuti oscurantismi nella massima parte dei casi terrificanti.
Le società dell’occidente sono sempre di più troppo vecchie d’età per coltivare gli slanci necessari ad esprimere tensioni desideranti, in grado d’innestare processi sociali di innovamento autentico. Stiamo andando verso una situazione progressivamente sempre più gerontocratica, non tanto e non solo perché i vecchi aumentano sistematicamente di numero fino a travalicare i non vecchi, quanto perché i giovani contano sempre meno, mentre sono sempre più emarginati e resi precari, sia sul piano lavorativo che su quello esistenziale. La qualità dell’impronta culturale che investe il modo di pensare più diffuso e più capace di influenzare promana da vecchi che hanno tensioni, pensano e agiscono in modo vecchio, con tutte le caratteristiche conseguenze che questa spinta pulsionale può comportare: tendenza all’adeguamento e all’adagiarsi, stanchezza sia psicologica sia fisica, disillusione e disincanto che sfociano facilmente in cinismo. E via di questo passo.
Ritengo infatti che non sia un caso se oggi assistiamo a vere rivolte e veri bisogni di cambiamento nelle società magrebine del nord Africa come in quelle del medio oriente, dove generalmente oltre il 50% della popolazione è composto da giovani sotto i 25 anni d’età. Certo, la spinta alla rivolta non deriva né dipende dall’età dei rivoltosi. Molto è dovuto al fatto che la miseria aumenta costantemente mentre le classi dirigenti, molto vecchie e inamovibili da decenni, si arricchiscono sfacciatamente sulla pelle dei loro sudditi. Ma anche al fatto che da troppo tempo sono al potere strutture dittatoriali spietate, che con gran disinvoltura da sempre calpestano sistematicamente i più elementari diritti umani. Però mi sembra evidente che le nuove istanze, veri e propri bisogni di libertà, abbiano potuto affiorare con quella forza irresistibile con cui sono affiorante e continuano ad affiorare perché dietro c’è una spinta di una società giovane, con una gran voglia di mettersi in gioco, che non è stanca e che coltiva e propaganda il desiderio di costruirsi il proprio futuro, al di là e contro chi continua a soverchiarla e a volerla sottomettere.
Tutta la fascia arabo-musulmana, dal nord Africa all’Iran fino all’Afghanistan, è in gran subbuglio. Al momento, prima in Tunisia ed Egitto ora in Libia, tre rais, veri e propri gerontocrati che da alcuni decenni sottomettevano i loro popoli con uno spietato schiacciante potere, sono stati letteralmente detronizzati a furor di popolo. Quando c’è stata violenza, in particolare molto efferata in Libia, dove il “Berlusconi friend” Gheddafi ha ordinato ai suoi caccia di bombardare la folla di chi gli si opponeva semplicemente manifestando, è stata sostanzialmente usata dai poteri reazionari delle dittature inossidabili nel tentativo cruento di reprimere. Al contrario le folle della rivolta non si son presentate all’insegna della violenza aggressiva, ma con la forza e la convinzione di protestare in modo deciso e determinato. Quando i rivoltosi hanno usato la violenza è stato per difendersi dagli attacchi squadristici dei mercenari al soldo dei dittatori.
La rivolta non sembra voler terminare e molto probabilmente assisteremo ad un suo ulteriore espandersi in altri stati ed altre nazioni con esiti al momento non prevedibili. Del resto non è stata nemmeno prevista la rivolta stessa, scoppiata praticamente improvvisa. Una rivolta le cui motivazioni profonde sono il rifiuto collettivo di continuare a subire dittature assolutiste efferate e prive di scrupoli, accompagnate da un costante stato di miseria della maggioranza delle popolazioni. A un certo punto la misura è stata colma e spontaneamente gli individui finora sottomessi in massa hanno detto no, spinti dalla forza della disperazione e dal desiderio di vivere in altro modo.

Colonizzazione culturale e politica

Probabilmente hanno fatto da detonatore le varie voci delle testimonianze delle numerosissime migrazioni che da qualche decennio sono entrate in contatto con i paesi occidentali, dove il tenore di vita e la forma democratica hanno mostrato un modo di vivere che a quelle genti è apparso più accettabile e dignitoso. Ma pure la tecnologia informatica, internet e cellulari in primis, che hanno permesso di vedere in tempo reale un’altra qualità della vita, stimolando immaginazione e desiderio. Nel giro di qualche decennio tutti questi fattori sono diventati un mix micidiale, capace d’innestare processi immaginativi e richieste di bisogni prima per loro impensabili.
Siccome fra l’altro questa rivolta è scoppiata sostanzialmente al di fuori del temutissimo fondamentalismo islamico, che in quell’area del mondo era ritenuto il vero probabile possibile detonatore, gli osservatori occidentali, sempre alla ricerca di finalismi che soddisfino le loro capacità di spiegazione, hanno in coro attribuito lo scopo della lotta alla volontà di democrazia. Fallita miseramente la teoria dell’esportazione della democrazia, che a suo tempo Bush aveva tanto decantato per giustificare le sue manie guerresche, ora si può dire con gran tranquillità che la democrazia non va esportata, bensì che bisogna indurre le popolazioni a lottare per pretenderla. La colonizzazione da bellica diventa prettamente culturale e politica.
Purtroppo quando in occidente si parla di democrazia si hanno presenti i modelli che noi stessi viviamo direttamente, supponendo che le nostre siano le uniche vere forme di democrazia possibile: l’occidente come faro di luce. Bisognerebbe essere un po’ più cauti nel tentativo di comprendere cosa sta succedendo. Personalmente credo che se è indubitabile che dietro le rivolte ci sia una chiara richiesta di libertà, non è affatto scontato che nell’immaginario e nella propensione culturale di quell’area del mondo l’idea di libertà s’identifichi con le forme dell’attuale democrazia occidentale. Dietro questa visione, che considera veri solo i propri criteri di riferimento, si maschera una grande arroganza intellettuale. Una delle conseguenze che ne derivano è di non riuscire a comprendere bene i movimenti delle cose.
Da un punto di vista della libertà e della rappresentanza, per esempio, lo stato attuale della democrazia in occidente fa acqua da molte parti e sarebbe un grave errore tentare di imitarlo in una situazione rivoluzionaria che ha un serio desiderio d’innovarsi. Il livello della rappresentanza democratica è stato ridotto a una finzione: col voto si delega il potere decisionale a una oligarchia controllata dalle dirigenze partitiche, mentre gli elettori, una volta votato, non hanno più possibilità d’intervenire nei giochi di potere del palazzo. Il controllo dal basso nell’esercizio ordinario dei vari poteri costituiti, che era uno dei fondamenti della liberaldemocrazia, è di fatto inesistente, mentre sono stati messi in atto una serie di ordinamenti e regolamenti che garantiscono alle gerarchie dirigenti delle diverse strutture di comando la non permeabilità popolare. Di fatto, come aveva predetto Schumpeter, abbiamo una democrazia dei leader in perenne concorrenza tra loro, non una democrazia rappresentativa come avevano pensato i fondatori liberaldemocratici. L’occidente, che ha inventato la democrazia rappresentativa, in poco più di due secoli l’ha deprivata di senso riducendola a un regime oligarchico sostenuto dal consenso elettorale.

Una rivoluzione che sovverta

Al momento credo che sia impossibile riuscire a capire come si evolveranno le situazioni nei paesi della rivolta nordafricana e mediorientale, sia dal punto di vista politico che da quelli istituzionale e sociale. Spinti come sono,o crediamo che siano, da un autentico desiderio di vivere una condizione in cui sentirsi liberi, se veramente pensassero che da noi si gode della libertà che immaginano potrebbero effettivamente riprodurre situazioni istituzionali e politiche che sarebbero una brutta copia della nostra finzione democratica. Oppure, spinti dall’entusiasmo, potrebbero inventare strutture di autentica democrazia diretta, come furono i primi comitati popolari e i consigli delle origini, come pure sono state le collettivizzazioni libertarie durante la rivoluzione spagnola del 1936. Oppure potrebbero richiedere semplicemente nuovi leader, come spera tutta la nomenclatura della finta democrazia occidentale, cui dare fiducia e delegare il compito di restituire loro l’agognata libertà, cadendo un’altra volta in una trappola mortale.
Al di là del procedere degli eventi, di cui sarà dato sapere solo di fronte ai fatti per come si svolgeranno, personalmente sono convinto che il mondo nel suo complesso avrebbe veramente bisogno di una nuova rivoluzione, la cui qualità e caratteristica dovrebbero essere diverse da tutte quelle che l’hanno preceduta. Parlo di una rivoluzione che sovverta il paradigma politico del comando e dell’ordine gerarchico dall’alto, che istituisca forme autogestionarie di decisione politica e che ridefinisca le relazioni economiche all’insegna di una sostanziale solidarietà che elimini il privilegio e lo scandalo della ricchezza in mano a pochissimi, a detrimento di tutti gli altri ridotti in povertà e schiavitù.

Andrea Papi