rivista anarchica
anno 41 n. 361
aprile 2011


 

Condannato
perché nacque

Condannato perché nacque. I graffiti del carcere di Vicopisano tra Otto e Novecento (a cura di Lorenzo Carletti. Edizioni Ets, Pisa 12 euro) è un libro che mostra le figure dell’umanità reclusa: le figure della sua reclusione e della sua necessità di abbattere quelle mura.
Nel capitolo introduttivo Lorenzo Carletti, il curatore del libro, sollecita gli storici dell’arte a mettere in funzione i propri strumenti conoscitivi per esaminare materiali ritenuti “bassi” e non artistici come possono essere appunto dei graffiti pittati sulle mura delle carceri dai sovversivi dell’epoca. Scrive Carletti: “Negli occhi di questi prigionieri desiderosi di riscatto – che inneggiano a Caserio, Malatesta e Pietro Gori – ci sono le illustrazioni degli attentati a Carnot e a Umberto I. […] le avanguardie europee da lì a pochi anni avrebbero guardato a questo tipo di testimonianze ‘anti-graziose’ e ‘primitive’. Una definizione, quest’ultima in particolare, che male si addice a disegni sgrammaticati ma tutt’altro che ingenui, visto il sostrato di immagini che portano con sé. E questo doppio rimando tra cultura ‘alta’ e cultura ‘bassa’, questa reciproca contaminazione interessa, o almeno dovrebbe, la storia dell’arte”. Recuperare quelle immagini però significa anche procedere a ritroso, recuperando storie e percorsi narrativi “straordinari”, mettendo insieme una singolare microstoria italiana.
Così Carletti si sofferma sulle vite dei sovversivi, anarchici, repubblicani, socialisti e comunisti, dall’ottocento all’era fascista. Gallerie di nuclei familiari ricostruite a partire dai casellari politici, vite accomunate da nomadismo ed emigrazione, da una terra all’altra, da un lavoro all’altro; da “misere condizioni”; e da una cultura che si voleva fieramente smarcare dalla subalternità alla cultura dominante. Questi percorsi, come quelli di Filippo Mori e Francesca Polacci, sono, come scrive nella prefazione Massimo Carlotto, “saggi così importanti che ci impediscono di non fare i conti con la memoria e con il presente”.

Marco Rovelli

 

Anche in Italia la dittatura
del petrolierato

L’editore si chiama Coniglio ma decisamente dovrebbe cambiare il nome in Leone. Questo è un libro coraggioso. Se non ne parlano le riviste davvero antagoniste e libere dalla pubblicità... chi se la sentirà di dispiacere l’Eni? Controprova: sinora i giornalisti hanno tenuto un silenzio quasi totale sul libro di una collega che pure, si ammette sottovoce, nel suo lavoro è inattaccabile.
Cosa rivela di così sconvolgente Sabina Morandi nel suo «C’è un problema con l’Eni» (208 pagine per 14,50 euri) ovvero «Il cane nero si è pappato i rossi – come insabbiare un’inchiesta e liberarsi del giornalista» da giustificare quel doppio, allarmante sotto-titolo? È subito evidente dalla copertina chi è il “cane nero” (a 6 zampe) ma chi sono “i rossi”?
Occorre sottolineare due questioni generali. La prima – scrive nella introduzione Morandi – è che «nell’arco di 5 anni quello che scrivevi tranquillamente per Donna Moderna o Le scienze potevi … vederlo soltanto su Il manifesto o Liberazione. I veti incrociati hanno stretto le maglie fino all’inverosimile e sono pochissime le storie che possono passare […] Niente guerra, poco petrolio, esteri contingentati e sottoposti alla supervisione delle alte sfere». La libertà di informare resiste soltanto in teoria o se preferite è un viziaccio praticato da pochi maniaci mentre i (presunti) grandi giornalisti italiani fanno «ooooooh» quando Wikileas “rivela” quello che quasi tutti sanno... solo leggendo la migliore stampa estera.
Il secondo passaggio-chiave è a circa metà del libro: «Senza rendermene conto, seguendo anzi un percorso legato alla mia formazione – approccio scientifico, dati e crudi numeri – avevo varcato il confine invisibile che separa quello che si può da quel che non si può scrivere». E i “rossi” – cioè il quotidiano «Liberazione» (citato prima come eccezione al coro dei “silenziati”) – emarginano e poi fanno fuori la giornalista non gradita all’Eni.
Il primo articolo che il libro ripropone è del 2 ottobre 2003: sul quasi ignoto progetto del mega-oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyan, che «fa comodo a Bush» e viene costruito «con i nostri soldi». Poi la giornalista torna sui pericolosi «giochi caucasici» in cui l’Eni è impantanata. Nel 2004 uno degli obiettivi di Bush è «Attaccare l’Iraq per colpire l’Europa», come titola la Morandi che sostiene la sua tesi col rigore dei numeri ma anche intervistando Benito Li Vigni, stretto collaboratore di Enrico Mattei e dirigente Agip. A questo punto chi, anche dentro l’Eni, apprezza il lavoro della Morandi inizia ad aiutarla – sotto banco – fornendo «statistiche secretate, copie di documenti interni, contratti» cioè informazioni che in democrazia dovrebbero essere disponibili.
Anche sulla politica dell’Eni in Nigeria la giornalista incalza; ricordando fra l’altro «la jeep con il noto cane a 6 zampe sulla fiancata e la mitragliatrice sul tetto», prestata all’esercito per sparare sulle proteste popolari.
Seguendo per «Liberazione» (ora diretta da Piero Sansonetti) le vicende energetiche, Morandi racconta le truppe italiane che a Nassirya difendono i pozzi dell’Eni e non la democrazia, le proteste in Italia di gruppi ecologisti, la «finta crisi del gas» del 2006. A questo punto l’azienda la contatta: prima amichevolmente, poi meno. Lei prosegue il suo lavoro e anzi indaga sui cittadini (a Rovigo e Livorno per esempio) «trasformati in cavie». È qui forse il confine invisibile: «strilla quanto ti pare su quello che succede all’estero ma non rompere le scatole in casa».
Mi fermo perchè lo spazio d’una recensione è minimo e comunque le analisi e i retroscena di «C’è un problema con l’Eni» vanno letti per intero non sintetizzati in poche righe. Sabina Morandi intreccia le sue vicende personali con la politica energetica italiana non per narcisismo ma per mostrare, passo passo, come una giornalista che fa bene il suo mestiere venga censurata, strumentalizzata (per procacciare pubblicità in cambio della “museruola”) e poi cacciata dal giornale di un partito che si dice d’estrema sinistra.
Ben spiega l’autrice nella introduzione che è meglio evitare ogni «auto-commiserazione» pensando a cosa pagano persone come Anna Politkoskaia per fare giornalismo vero.
Un libro importante oltre che coraggioso. Forse le domande vanno oltre la stessa Eni e la sua politica. Ha circolato, nel secolo scorso, l’idea che una «dittatura del proletariato» fosse buona cosa ma furono disastri intanto a livello mondiale continuava imperterrita la silenziosa «dittatura del petrolierato». Della prima non si parla più pur se il proletariato c’è sempre, dell’altra dittatura paghiamo invece i costi ogni giorno.... anche se paradossalmente il petrolio sta finendo.

Daniele Barbieri

 

Deleuze, Derrida, Foucault:
una lettura anarchica

Pubblichiamo una parte dell’introduzione del curatore Salvo Vaccaro a uno degli ultimi volumi di Eleuthera, da poco uscito in libreria: Pensare altrimenti. Anarchismo e filosofia radicale del novecento (a cura di Salvo Vaccaro, Eleuthera, Milano 2011, pagg. 208, € 16,00) .

Il libro che il coraggioso lettore tiene in mano non è una semplice antologia, né una mera miscellanea di testi filosofici, raccolti per l’occasione e cuciti insieme da un fil rouge qualsiasi. Attraverso l’esposizione di diversi saggi e articoli, provenienti da autori e contesti culturali differenti, ma accomunati da uno stile di ricerca filosofica e politica insieme, aventi per tema l’apporto che la filosofia radicale del XX secolo può apportare alla matrice teorica dell’anarchismo, questo libro nasce da un progetto culturale di cui occorre, per correttezza e trasparenza di intenti, esplicitare motivazioni, ragioni e orientamenti propri del curatore.
La prima molla è un disagio, una inquietudine mediata da una auto-riflessione filosofica sui destini politici dell’anarchismo quale è stato tramandato dai Lumi sino ai giorni nostri. Da Godwin in poi, l’anarchismo nelle sue innumerevoli declinazioni si è tipicizzato come una teoria politica che trova nella prassi, piuttosto che nelle categorie etiche e filosofiche, lasciate implicitamente sullo sfondo, il banco di prova, l’enjeu della sfida lanciata alle differenti forme-di-vita che organizzano il mondo ed il nostro stare-al-mondo. È possibile interpretare l’anarchismo in senso contestuale, ossia legato ad uno specifico itinerario epocale dell’umanità, quello originato per convenzione dall’Illuminismo, secondo un gioco agonistico tra altre teorie politiche analoghe per intenti ma concorrenti negli obiettivi differenziati quanto ad esiti organizzativi della società ed a metodologie tattico-strategiche funzionali a conseguire l’ideale critico dell’emancipazione dal dominio. Ma è altrettanto possibile interpretare genericamente l’anarchismo come quel “nome proprio” che la cultura tardo-occidentale si è dato (grosso modo da Proudhon in poi) per significare una ricerca insopprimibile di libertà, cognitiva e corporea, singolare e plurale al contempo, non disgiunta da un vincolo di eguaglianza tra i singoli individui nelle loro relazioni reciproche e tra i corpi sociali nelle loro articolazioni interne e esterne. Se la prima definizione sintetica delimita il campo di una teoria politica che si nutre di una particolare atmosfera filosofica, la seconda, peraltro non in contraddizione con quella, configura una dimensione etico-filosofica che trascende la porzione ristretta di spazio epocale e temporale per proiettarla lungo un asse dell’antropologia dell’umanità che non conosce limiti, né confini territoriali, né barriere linguistiche o specificatamente culturali.
Non è questa la sede per approfondire in lungo e in largo le due schematizzazioni avanzate a mo’ di pretesto, ma qualunque sia la direzione verso cui propendiamo in base alle nostre sensibilità, essa ci presenta numerose occasioni di disagio e di inquietudine rispetto alle aspettative originarie, rispetto ad un sia pure sommario bilancio storico, rispetto alla attualità o inattualità dell’anarchismo nelle società del XXI secolo.
In rapporto alle aspettative originarie, possiamo dire che la teoria politica dell’anarchismo aspira, come detto, a orientarsi nettamente non tanto verso una riflessione filosofica, quanto verso una progettualità politica e sociale tesa a offrire il miglior ambiente ideale e possibile a quella ricerca spasmodica di libertà nella eguaglianza tra differenti che non si limita a rintanarsi nella mente di ciascuno, bensì che trova negli assetti sociali da perseguire e conseguire l’obiettivo inverato della propria riflessione teorica, mossa peraltro dalle condizioni di assoggettamento, di schiavitù, di illibertà, per dirla con una parola, che alimenta la teoria stessa come compendio alle pratiche libertarie. Detto altrimenti, e in senso filosofico, l’anarchismo occidentale tende verso la conciliazione di pensiero e realtà, di desiderio e reale, colmando uno scarto che altri modelli teorici professano incolmabile, così giustificando la necessità di un ordine del dominio sulle cose e sugli esseri viventi, umani e non. Tuttavia questa conciliazione, tanto sul piano teorico quanto nella dimensione concreta, non si è (ancora?) data, purtroppo...
In rapporto al bilancio storico, la riflessione critica e autocritica sulle altalenanti sorti dei movimenti che genuinamente si sono richiamati all’anarchismo è copiosa, tale da misurare le sconfitte, gli insuccessi, i deficit, le defaillances tanto nei momenti di bonaccia, per così dire, quanto e soprattutto nei momenti alti della storia nei quali l’anarchismo reale si è ritrovato più che protagonista, addirittura vicino al suo compimento: ossia alla conciliazione rivoluzionaria tra pensiero e società, tra teoria e prassi. Oggi, più modestamente, ma ancor più amaramente, sembrerebbe che coloro che animano una pratica ideale, che valorizzano con passione e fermezza una condotta etica individuale e collettiva o che professano un pensiero teorico e analitico libertario e anarchico si ritrovano ai margini dei contesti sociali, resi insignificanti per gli equilibri ed i rapporti di forza (anche culturali), come se pratiche e modelli e valori non fossero più in grado di incidere significativamente sulle menti e sui corpi dei segmenti societari, incapaci ad orientare una dinamica sociale peraltro estremamente mobile, per un verso, ma incancrenita in una inamovibile permanenza (non solo logica) del feticcio dell’autorità dominante, per l’altro.
In rapporto all’attualità o meno dell’anarchismo nel XXI secolo, infine, sembra affermarsi una anomala frattura schizofrenica: da un lato, le dinamiche sociali espandono dappertutto, nei limiti beninteso delle opportunità di partenza, fra l’altro diseguali nei diversi angoli della terra, potenzialità di libertà che tuttavia non trovano sintesi in nessun progetto politico compiutamente anarchico o libertario, anzi tutt’altro; dall’altro, maggiormente il pianeta sembra avvitarsi in spirali autodistruttive, maggiormente l’ipotesi anarchica e libertaria dovrebbe offrirsi in linea prioritaria come una delle residue chances di salvezza; ma già il condizionale del predicato usato indica una deduzione logica che asseconda più una aspirazione disincantata, che una risorsa realmente disponibile ai più.
Si potrebbe obiettare che anche il disagio e l’inquietudine di fronte alla desolazione del panorama odierno andrebbero contestualizzati; se l’anarchismo è una pratica che si fa teoria, e non viceversa, muovendo da condizioni materiali seriamente compromesse quanto a standard di vita e di benessere qualitativo e quantitativo, probabilmente non è certo da un occidente ricco, opulente e potente che potrà provenire la riscossa libertaria sul piano mondiale, bensì da quegli angoli del pianeta realmente avviluppati in una condizione da cui emanciparsi quanto prima, secondo una traiettoria che, auspicabilmente, non segua pedissequamente il medesimo percorso adottato nel mondo occidentale. E tuttavia, tale obiezione non infondata sembra andare incontro anch’essa ad una profonda delusione, laddove al di fuori dell’occidente la pratica e la teoria anarchica non sembrano (ancora?) prodursi per intrinseca incapacità di fertilizzare quei segmenti planetari condividenti una diversa visione del mondo, facenti parte di una civiltà diversa, al cui interno la tenace ricerca della libertà assume volti e denominazioni disparate.
Se non vogliamo attribuire a semplici idiosincrasie di natura psicologica il disagio e l’inquietudine che non si manifestano solo a livello personale, occorre scandagliare nel merito se i fattori responsabili risiedano solo o esclusivamente nel campo della pratica, dato che i movimenti reali possono andare incontro a sconfitte e fallimenti che sovrastano eventuali deficit e insufficienze pure esistenti, oppure se è necessario investigare alla radice il nucleo teorico del pensiero e del pensare anarchico per come esso si è genealogicamente strutturato nell’era moderna. In altri termini, se l’anarchia è lungi dall’approssimarsi secondo il modello teorico ereditato, è ben possibile, ma poco plausibile anticipo io, che l’anarchismo goda di ottima salute, a dispetto, oserei dire, degli anarchici e delle anarchiche in carne e ossa il cui agire frustrato appare poco incisivo, se non addirittura irrilevante, rispetto alla vita quotidiana, alle poste in palio delle dinamiche sociali, agli equilibri politici entro e fuori le istituzioni.
Ovviamente, chi propendesse per questa ultima diagnosi, oltremodo scandalizzandosi per aver osato pensare e addirittura affermare un deficit dell’anarchismo, se non proprio dell’anarchia come movimento reale teso al suo compimento, troverebbe superfluo una riflessione (auto)critica sul piano teorico quale è la scommessa di questa proposta intellettuale e culturale. I fallimenti, gli insuccessi o le sconfitte dei movimenti che si sono richiamati e si richiamano tutt’oggi più o meno esplicitamente all’anarchismo e al libertarismo (di sinistra, per non confonderlo con il libertarismo anglosassone tipico di una destra antistatalista ma pro-mercato capitalista regolato dalla mera forza di imposizione) non sono pertanto riconducibili ad una qualche insufficienza teorica, la quale si erge sul modello di Minerva dalla testa di Zeus tutta intera in una determinata era storica ed in una particolare area geo-culturale del pianeta per perpetuarsi nei secoli indenne da ogni traversia storica e da ogni traversata epocale, sempre fedele a se stessa in quanto auto-sufficiente sin dall’origine. Certo, sfioro consapevolmente la caricatura, ma l’autoreferenzialità del pensiero anarchico è, a mio avviso, uno di quei fattori di insufficienza da cui nasce il disagio odierno. Infatti, come è noto, la modalità di auto-riproduzione del corpus teorico anarchico è, mutuando un termine per analogia scientifica, endogamica, ossia riconducibile a innovazioni teoriche e ad autori riconosciuti allineati in una ideale formazione del pensiero anarchico che si sono selezionati nel tempo e quindi riconosciuti universalmente (almeno entro il perimetro dei facenti parte di diritto della cerchia anarchica) in quanto appartenenti al movimento, nella condivisione di pratiche e condotte etiche via via affermatesi come discriminanti verso tutto ciò che è esterno ad esso.
Se ciò ha preservato, in linea teorica, una certa autenticità del pensare (purezza può essere un termine alternativo), rafforzata dal modello etico sottostante alle vite degli autori cui ricondurre un apporto teorico nato e promosso attraverso un agire pratico, militante in quanto appartenente, tuttavia a mio modo di vedere tale chiusura autoreferenziale ha a lungo andare nuociuto sia in chiave interna, poiché ha sclerotizzato una riproduzione pedissequa delle idee, delle tesi teoriche, delle ipotesi analitiche a fronte di una realtà storico-materiale che si è venuta terremotando nel corso dei secoli, con un preoccupante riflesso sulle forme storiche delle forme e dei modelli organizzativi dei movimenti reali; sia in chiave esterna, sotto forma di minore potenziale di attrazione verso nuove generazioni sempre più permeabili da novità più o meno radicalmente discontinue rispetto al passato, nonché sotto forma di inesistenti apporti più o meno radicalmente innovativi potenzialmente integrabili nel corpus teorico dell’anarchismo e dell’anarchia come movimento reale.
È evidente che il curatore del volume tenuto in mano dal coraggioso lettore propende decisamente verso questa lettura pre-testuale quale uno dei motivi del disagio e dell’inquietudine che anima la proposta emergente dagli autori e dai saggi raccolti qui di seguito. Del resto, appartenenza, autenticità, purezza, rappresentano grumi concettuali che denotano una istituzionalizzazione persistente di un qualsiasi corpus teorico, sino a rasentare il dogma enunciato da una autorità a ciò preposta: quanto di più lontano da un pensiero e da una pratica che riconoscono solamente un diagramma concettuale ed etico al cui interno avanzare in via sempre mobile letture analitiche, tesi teoriche, ipotesi di intervento sociale, strategie e tattiche politiche, ecc. che rendono l’anarchismo, sì, inattuale, estraneo e ostile nei confronti di un assetto statico del dominio, ma sempre attuale, rispondente e utilizzabile rispetto a ogni dinamica di liberazione e di affermazione di egual-libertà, da incitare, scatenare e promuovere secondo una mossa di eccedenza tangenziale del circuito conflittuale esistente.
Quindi, se l’impasse diffusa dell’anarchia rinvia anche, sebbene non totalmente, ad una insufficienza teorica di un anarchismo la cui forma di pensiero si è formata in una data(ta) epoca storica non più presente né recuperabile, se l’autosufficienza teorica dell’anarchismo mina la credibilità presente di una forma di pensiero che si traduce, pur con numerose mediazioni, in zoppicanti modelli organizzativi sia progettuali, per l’utopia da realizzare, sia politici, idonei alla conflittualità del e nel presente, allora diventa necessario uno scavo all’interno del corpus teorico a fini rigenerativi, integrando al proprio interno, con le doverose modificazioni e gli opportuni aggiustamenti, prestiti extra-territoriali che siano funzionali a rilanciare il progetto anarchico sia lungo l’asse della capacità critica all’altezza del presente, ossia l’analisi del presente colto nei suoi punti di frattura muovendo da categorie e modelli utilizzabili a mo’ di arnesi per leggere correttamente un tempo storico, sia lungo l’asse delle potenzialità edificatrici, ossia la progettualità teorica indispensabile per alimentare le esperienze e gli esperimenti sul piano sociale di una anarchia in atto che si offre quale diagramma esteso di società libera e eguale nelle differenze.

Salvo Vaccaro

 

Dio,
no grazie!

Molti libri sull’ateismo presentano le sane ragioni oggettive per non credere, magari accettando il gioco di prestigio dei preti di tutte le religioni che ribalta l’onere della prova (“Se neghi l’esistenza di dio, devi provare questa tua affermazione”), prendendolo sul serio come non merita e dimostrando che sì, le prove dell’inesistenza di dio esistono e sono alla portata di chiunque sia disposto a concedere un minimo di credito alle più elementari nozioni scientifiche apprese sui banchi di scuola. È questo, per esempio, il caso del lavoro di Vic Stenger, God. The Failed Hypotesis: How Science Shows That God Does Not Exist (Prometheus Books, 2007) nel quale l’autore sottopone a verifica le affermazioni che le principali religioni monoteiste compiono sulla natura del loro dio. Proprio come si fa con qualsiasi ipotesi scientifica e come, che è cosa ancora più importante, tutti facciamo con le ipotesi che formuliamo di continuo nella vita quotidiana. Va da sé, queste ipotesi finiscono tutte per essere falsificate. Alcune mediante la semplice pratica dell’argomentare rigoroso, altre da leggi della fisica altrettanto inconfutabili.
Lo scopo di opere di quel genere è mostrare che credere negli dèi – non importa quali – è una scelta che può essere compiuta solo a partire da una condizione di elementare ignoranza, e che può essere tenuta ferma solo a patto di mantenersi ignoranti. Una scelta, quindi, rispettabile in astratto (“Rispetto il tuo diritto di credere in ciò che vuoi”) ma non rispettabile in concreto (“Non rispetto una credenza palesemente falsa”): il tuo diritto di credere in ciò che vuoi merita rispetto, ma il rispetto per il contenuto della tua credenza non è dovuto a priori.
Accanto a questo genere di studi esiste un altro notevole filone di opere che potremmo definire studi di “ateismo politico”, che si concentrano, più che sulla questione della falsità delle credenze religiose, sul loro essere fattori che generano sottomissione. Del resto, la stessa parola “religione” si porta dietro la radice comune con “relegare” “legare“; e chi proverà a scrivere la parola “obbedienza” su un qualsiasi motore di ricerca, scoprirà che la maggior parte dei risultati rimandano a siti dal contenuto religioso. I discepoli, del resto, sono coloro che fanno pratica di disciplina.
Il libro di Giulio Giorello (Senza dio. Del buon uso dell’ateismo, Longanesi, Milano, 2010, pp. 229, € 15,00), in un certo senso, si colloca in un punto intermedio tra questi due filoni di studio. Infatti, pur non evitando di confrontarsi con la questione della plausibilità delle credenze (e mostrando come le cosiddette “prove” dell’esistenza di dio siano destinate a fallire non appena il ragionamento si fa appena un po’ più rigoroso), questo libro sembra privilegiare lo studio dell’aspetto politico delle fedi e del loro effetto sugli atteggiamenti individuali, più che volerle sottoporre a un giudizio di verità (o di falsità). Ma le fedi e le religioni, in realtà, non sono l’oggetto principale di questo lavoro. Esso, infatti, è un libro sull’ateismo, così che l’analisi del fenomeno religioso costituisce il punto di partenza per parlare del suo opposto.
Non si tratta, però, dell’accettazione del paradigma – in parte esaurito, in parte già frusto in origine – in base al quale l’ateismo, “negazione-di-dio” , sarebbe di per sé una dottrina in grado solo, appunto, di negare, di dire di no. Giorello, che non condivide affatto questa lettura squalificante, si sforza con successo di mostrare la complessa ricchezza di un pensiero ateo, che consiste nella formulazione di un “ateismo metodologico” che restituisce pieno significato alla più nobile accezione dell’individualismo e che si traduce nell’imperativo “niente abbassamento”.
Conscio del fatto che nessuna “prova” potesse essere data dell’esistenza di dio, Pascal propone la sua famosa “scommessa” con l’obiettivo di mostrare che credere in dio è una scelta più vantaggiosa rispetto a quella di non credere: non posso provarti che dio c’è, ma se scommetti di crederci non sbagli, perché se dio c’è la tua scelta sarà stata giusta, e se dio non c’è non avrai perso niente. Discutibile (e discussa), la scommessa di Pascal. Sia da parte atea – ché dire “a credere, male che vada, non ci perdi niente” – non è un’affermazione accettabile; sia da parte religiosa, perché chi “crede” scommettendo sui vantaggi non ha davvero fede, non è un credente. E certo la respinge Giorello, perché la scommessa, se l’accetti, significa che avrai accettato di sottometterti “per prova”, accettando così di abdicare alla tua individualità, contribuendo a quella soppressione dell’individualità “su larga scala” i cui confini coincidono a quelli della diffusione delle religioni nel mondo. Che sia “per prova” o no, la sottomissione è sempre sottomissione. Sottomissione politica, ma anche sottomissione intellettuale, cioè rifiuto di quel relativismo tanto condannato dai papi e dai loro sodali, in quanto foriero (e lì vedono bene) di disgregazione, di mancanza di unità; in breve: di abbandono del pensiero unico.
La scommessa di dio, se la perdiamo, non sarà senza perdere null’altro, perché accettarla ci avrà fatto perdere comunque l’esercizio del pensiero critico. Il relativismo è certo meno rassicurante del pensiero assoluto. Il pensiero critico non ha, davvero, un approdo definitivo, così che il relativista si trova, come i pirati della ballata, “tra il diavolo e il profondo mare blu”. I preti di tutte le fedi temono il relativismo, perché è l’acido universale che ne indebolisce il potere. Ma forse anche noi, che preti non siamo, abbiamo motivo di avere paura del relativismo, perché non da esso non possiamo aspettarci che pochi punti fermi, tra i quali il più importante è quello, ed è un paradosso, che di punti fermi, di cose da non mettere mai più in dubbio o in discussione, non ce ne sono. Ma come scriveva Martin Heidegger – e come Giorello ci ricorda – “La paura del relativismo è la paura di esistere”.

Persio Tincani

 

Ma per qualcuno il 25 aprile
non fu la fine

Tra le molte rimozioni della memoria nazionale a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, un oblìo particolare è stato riservato, per alcuni versi, agli anni che vanno dal ’45 al ’47, anche se in un buon manuale di storia vi verrà certamente segnalato per la fondamentale scelta referendaria il 2 giugno del 1946, quando gli italiani vollero la repubblica nonostante lo scarto di voti a favore decisamente relativo, e lo straordinario lavoro di stesura e approvazione della Costituzione del 1947, frutto quest’ultima, troverete anche questo in quei manuali, di più di un compromesso tra le forze politiche di allora.
Marco Rossi, tuttavia, non è disponibile, e chi ha già dimestichezza con le sue puntuali ricostruzioni storiche lo sa bene, al “ricordo selettivo”, diciamo così. Per questo ci propone nel suo saggio, appena ristampato, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione 1945-1947 (Zero in Condotta, Milano, prima edizione 2009, seconda edizione riveduta, corretta e ampliata 2011, pagg. 96, euro 7,00) un angolo prospettico “eterodosso” relativamente a quel periodo.
Tutt’altro che riconciliata, quella memoria nazionale si divide in maniera piuttosto netta, ancor oggi, tra due schieramenti che non trovano pacificazione alcuna e fu precisamente in quel fatidico biennio (in realtà a ben guardare sono più di due anni) che molti decisero di denunciare con forza questa cesura insanabile, pensando persino di rimettere mano alle armi. Sia stato o meno il principio della “Resistenza tradita”, o la semplice constatazione che c’era un preciso limite a quel compromesso di cui dicevo, resta il fatto che in quei mesi convulsi i nodi venuti al pettine sembrarono, non a pochi, da tagliare piuttosto che da sciogliere.
Riportare l’attenzione su quelle vicende, o meglio quell’insieme di vicende, piuttosto interessanti, di contrapposizione ideologica e marcatamente culturale “senza se e senza ma”, proprio in questi anni, i nostri per l’appunto, nei quali da più parti ci si è affannati e ci si affanna a dichiarare scomparsa la politica dei blocchi contrapposti preferendo un deciso orientamento verso la rimozione ad ogni costo della stessa ideologia in favore di una definitiva riconciliazione tra gli opposti, ci insegna almeno una cosa, e cioè che l’abbandono della storia, come elemento fondativo ed indispensabile per una miglior comprensione del passato, lo schiacciamento sul presente, la rinuncia all’analisi critica e per quanto possibile all’obiettività nel ricostruire i fatti, diventano il mezzo più semplice ed efficace per cancellare avvenimenti che, per quanto complessi e contraddittori, stanno alla base della nostra contemporaneità e ne hanno determinato l’evoluzione.
L’agile libro di Marco Rossi fruga in cassetti del passato chiusi troppo in fretta, proponendo una riflessione, storiograficamente matura e dal convincente stile narrativo, intorno ad un biennio che va invece considerato come costitutivo della nostra storia repubblicana ma a partire da un diverso punto di vista. Insomma, il 25 aprile del 1945 non si era in realtà concluso, come la stessa data celebrativa nel tempo a venire in qualche maniera avrebbe voluto sancire, lo scontro tra partigiani e fascisti, destinato a protrarsi ben oltre. In quel breve volgere di mesi si assistette, infatti, in aperta contestazione alla linea strategica promossa dal Partito comunista di Togliatti per una rapida ricomposizione delle fratture e di inconciliabili pratiche sociali e politiche, “visioni del mondo” verrebbe quasi da dire, ad un diffuso rigurgito di quello che Rossi chiama il “ribellismo” che “seppur minoritario, coinvolse in modo spontaneo migliaia di volontari”, delusi nei propositi di riscossa sociale per la quale avevano creduto in origine di dover combattere. Tanti accorsero al richiamo della rivolta permanente in nome di una liberazione sociale che era apparsa, sin dai primi giorni, ampiamente disattesa quando non addirittura vanificata.
Ricordare il passato per meglio vivere il presente, al contrario, è esercizio paziente e qualche volta sfibrante. Ma soltanto così, discutendo criticamente su ciò che è stato, potremo gettare uno sguardo sul futuro, apprestandoci a viverlo nel miglior modo possibile, costruendolo, in una parola, a partire da una continua interrogazione su quanto ci ha preceduto.
Ci fu, in una parola, chi decise di lottare per un destino diverso da quello stabilito dalla politica dei partiti. In molti casi si trattò di un destino di dolore e di una sconfitta dell’anima che si stemperò nel clima afono di una nazione che non è mai riuscita, spesso per il cinismo e l’ipocrisia di apologeti in cattiva fede e storici disattenti, a fare davvero i conti con il fascismo.

Mario Coglitore


poesia

Senza congedo

Resistenza non fu soltanto
vent’anni e un fucile:
i compagni di scuola appesi
ai pali della via,
e le troppe croci
senza sudario di bandiere.

Resistenza è rimanere
negli anni con il cuore
di allora: è gettare
un ponte sull’abisso
del livore, credere nell’uomo
libero, con atto d’amore.

È dare, senza nulla chiedere:
anche la vita,
perché un bimbo non abbia fame.

Dante Strona
poeta partigiano biellese