rivista anarchica
anno 41 n. 361
aprile 2011


Messico

Tra guerre civili e resistenze
di Claudio Albertani

A duecento anni dall’indipendenza e a cento dalla rivoluzione.

Il Messico è il mondo, o il giardino dell’Eden o entrambe le cose al contempo.
Il Messico è paradisiaco e, senza dubbio, infernale.

(Malcolm Lowry, 1946)

Alle prime ore dell’alba del 16 settembre 1810, Miguel Hidalgo y Costilla, parroco del villaggio di Dolores, chiamò alla rivolta che diede inizio al movimento per l’indipendenza del Messico. Duecento anni dopo, la questione è ancora sul tappeto. Le fastose cerimonie di commemorazione – un dispendioso miscuglio privo di contenuto storico e di caratteristiche popolari – non sono riuscite a nascondere la realtà di un paese prigioniero di molteplici dipendenze, straziato dalla violenza e immerso da decenni in una spaventosa crisi economica. Un paese in cui un gruppo di potere, particolarmente predatorio e irresponsabile, impone un modello di spoliazione sociale che ha precedenti soltanto nell’epoca di Porfirio Díaz.

Vlady, Tepeyacm, disegno (1947). Vlady è lo pseudonimo
di Vladimir Kibalchich (Petrogrado 1920, Cuernavaca,
Messico, 2005), figlio di Victor Serge.
È il pittore della rivoluzione che ha dipinto in tutte le
espressioni possibili: sociali, politiche, spirituali, estetiche,
psicoanalitiche, scientifiche, filosofiche e perfino musicali.
La sua opera principale è La revolución y los elementos,
un murale di circa 2000 metri quadrati che dipinse,
quasi da solo, in parte con la tecnica dell’affresco ed in parte
ad olio (su tela), tra il 1973 e il 1982
(Biblioteca Lerdo de Tejada, Città del Messico)

Ordine e progresso

Nel corso del 1910, poco prima che si celebrasse il primo centenario dell’Indipendenza, il giornalista statunitense John Kenneth Turner pubblicò una serie ci articoli che alla fine dello stesso anno raccolse in un libro, Barbarous Mexico (Messico barbaro), inizialmente in Inghilterra e poco dopo negli Stati Uniti. Turner non era un giornalista come tanti, bensì uno stretto collaboratore dei fratelli Flores Magón, i quali, dagli Stati Uniti dove si trovavano in esilio, cercavano di dare vita a una rivoluzione socialista e libertaria. Facendosi passare per un rispettabile uomo d’affari, Turner era riuscito a documentare la spaventosa situazione in cui si trovavano i lavoratori sotto il regime di Porfirio Díaz. Il risultato fu una delle opere più devastanti mai scritte su di un paese e, benché in Messico fosse stato pubblicato soltanto molto tempo dopo, lo scandalo che provocò fu colossale. (1)
Díaz, come i governanti attuali, era molto sensibile all’immagine che si aveva di lui all’estero. Il 1° luglio era appena stato eletto presidente per l’ottava volta grazie a brogli elettorali e pretendeva di convincere gli investitori che, grazie al suo motto Ordine e progresso – non molto diverso da quello di Felipe Calderón, Ordine e legalità –, il Messico si era trasformato in un paese prospero, dove regnavano la pace e la stabilità sociale.
Il tiranno aveva dilapidato una vera e propria fortuna nei festeggiamenti per il centenario dell’Indipendenza, che erano culminati il 16 settembre con sfilate militari e cerimonie patriottiche. Díaz intendeva ostentare i suoi progressi in fatto di modernizzazione: più di ventimila chilometri di ferrovie, un’ampia rete telegrafica, linee telefoniche, illuminazione elettriche e grandiose opere pubbliche come i nuovissimi porti di Veracruz, Coatzacoalcos e Salina Cruz. Analogamente, i cittadini ricchi potevano acquistare merci costose importate dall’Europa e dagli Stati Uniti nelle aziende commerciali El Palacio de Hierro e El Puerto de Liverpool.
In quello stesso momento Turner rivelava l’esistenza di un altro Messico, un Messico feroce dove imperava una brutale disuguaglianza; un paese privo di libertà politica, di libertà di parola, in cui mancava una stampa libera e libere elezioni, senza un sistema giuridico degno di questo nome, senza garanzie individuali e senza la libertà di raggiungere la felicità; un paese in cui il potere esecutivo governava per mezzo della corruzione e di un esercito onnipresente; un paese in cui le cariche politiche avevano un prezzo e i giudici si vendevano al miglior offerente.
Gran parte ella popolazione viveva in condizioni deplorevoli. Le tenute agricole si erano trasformate in un modello di sfruttamento in campagna. Gli schiavi maya dello Yucatán morivano più rapidamente di quanti ne nascessero, e i due terzi degli schiavi yaqui importati da Sonora morivano nel corso del primo anno successivo al loro arrivo nella regione. Nel Valle Nacional (Oaxaca) la situazione era persino peggiore: tutti gli schiavi, a eccezione di un numero molto esiguo – forse il cinque per cento – venivano sepolti in un lasso di tempo di sette o otto mesi. La situazione non era migliore nelle miniere e nelle fabbriche, dove gli operai sopportavano giornate di più di dodici ore, senza libertà di sciopero e senza alcuna altra libertà.
Turner non si limitava a redigere un inventario delle disgrazie nazionali; riteneva che la schiavitù, la manovalanza, la povertà, l’ignoranza e l’abbattimento generale del popolo avessero nome e cognome: ne era responsabile l’organizzazione economica e politica del paese, una forma di capitalismo particolarmente perversa e nociva.
Il libro terminava con una profezia: il Messico era una polveriera sul punto di scoppiare. Quando la profezia si avverò, molto velocemente, la rivoluzione irruppe nella storia messicana con una violenza senza precedenti. Nel 1910 nel paese vi erano 15,2 milioni di abitanti, nell’arco dei successivi dieci anni vi fu almeno un milioni di morti (alcune fonti parlano di due milioni) e un milioni di emigrati negli Stati Uniti.
Sono dati terrificanti, anche per un secolo esplosivo come il ventesimo. Con quali risultati? “Una vittoria di carta” come ebbe a dire James Cockroft. (2) L’articolo 1 della Costituzione promulgata nel 1917 proibiva la schiavitù; l’articolo 3 istituiva l’istruzione elementare pubblica, laica e gratuita; il 27 sanciva il diritto alla terra e permetteva gli espropri “in ragione della pubblica utilità”, aprendo in tal modo la possibilità legale della ricostituzione delle comunità indigene; il 123 istituiva la giornata lavorativa di otto ore, il diritto di associazione, il diritto di sciopero e il divieto a far lavorare i bambini.
I costituenti sancivano così la eliminazione del porfiriato e, temendo un’altra sollevazione, facevano importanti concessioni ai movimenti popolari. Tuttavia il sogno di Flores Magón di collegare le lotte comunitarie dei contadini indigeni – di quegli uomini e di quelle donne che “non volevano cambiare e che proprio per questo fecero la rivoluzione” (3) – con le lotte degli operai delle industrie ed entrambe con il movimento libertario internazionale, rimase lettera morta. Ben presto la rivoluzione messicana si trasformò nella dittatura di un partito – la dittatura più lunga del ventesimo secolo – andando a ingrossare il già voluminoso elenco delle rivoluzioni fallite.
Il popolo non dimenticò mai del tutto i suoi sogni di emancipazione e da qui ebbero origine le rivolte armate che insanguinarono il Messico dopo la rivoluzione: il movimento dei cristeros, l’insurrezione di Jaramillo, il Movimento 23 settembre, il Partido de los pobres, la Unión popular, il Frente cívico guerrerense, solo per citare le più note. (4) Le ultime espressioni di questa che si potrebbe chiamare la storia del Messico sotterraneo – l’Ejército zapatista de liberación nacional (Ezln), in Chiapas; l’Ejército popular revolucionario (Epr) e l’Ejército revolucionario del pueblo insurgente (Erpi), in quattro o cinque Stati della Repubblica – costituiscono un esempio della persistenza di quadri guerriglieri che furono attivi per varie generazioni e che si collegano con le lotte attuali.

Vlady, Emiliano Zapata, olio su tela (1988)

Montagne di denaro

Come spiegare questa situazione in un paese che dal 1994 fa parte dell’Ocse, l’esclusivo club delle nazioni ricche? La risposta è semplice: il Messico feroce descritto da Turner con tanta durezza non ha mai smesso di esistere. La differenza è che ora, insieme ai poveri di sempre, troviamo individui straordinariamente potenti e ricchi.
In un’epoca caratterizzata da disuguaglianze laceranti, sono poche le economie così polarizzate come quella messicana. Secondo i dati della Banca mondiale, il dieci per cento dei messicani che stanno al vertice della piramide monopolizza 439.597,2 milioni di dollari, ossia il 41,3 per cento delle entrate totali a livello nazionale, mentre la popolazione più povera riceve l’1,2 per cento. Il Messico è la tredicesima economia del mondo, ma è situato al settantacinquesimo posto su 186 paesi rispetto al potere di acquisto dei suoi abitanti. (5)
Se immaginiamo il paesaggio sociale come una ripida catena montuosa, sulla sua cima più elevata troviamo il magnate delle telecomunicazioni Carlos Slim, che la rivista “Forbes” definisce il più ricco del mondo. (6) Ha un valore di 53 milioni di dollari e vende il servizio di Internet più lento del pianeta al prezzo più costoso. Molte migliaia di milioni più in giù, ma anche loro presenti nell’elenco, troviamo, tra gli altri, i re del duopolio televisivo, Emilio Azcárraga, di televisa, e Ricardo Salinas Pliego, di tv Azteca, i quali si contendono il dubbio onore di addormentare il popolo e avvelenare il dibattito politico.
La donna più ricca è María Asunción Aramburuzabala, proprietaria della Cervecería Modelo, che fabbrica la birra Corona, nota a livello mondiale (e transgenica). Lorenzo Zambrano, re del cemento (Cemex), ha incrementato il suo capitale vendendo a caro prezzo sul mercato messicano, dove gode di un quasi monopolio, e a prezzo vantaggioso all’estero, dove deve lottare con la concorrenza. Jerónimo Arango, re dei supermercati, è socio di Wal-Mart, il più grande dettagliante del mondo e leader mondiale nel taglio dei salari. Fu lui a inventare un ingegnoso sistema per pagare gli stipendi tramite buoni del supermercato, che ripristina gli spacci aziendali aboliti dalla rivoluzione.
Il milionario più ricercato è un narcotrafficante, Joaquín Guzmán Loera, capo del tristemente famoso cartello di Sinaloa, il quale, con un patrimonio calcolato in 1000 milioni di dollari, occupa un modesto 937° posto nell’elenco dei ricchi, ma un vistoso 38° in quello dei potenti. (7)
È evaso da un carcere di massima sicurezza nel 2001 ed è indicato come il narcotrafficante preferito del Partido de acción nacional (Pan), attualmente al potere. Originario della sierra de Badiraguato, Sinaloa, Guzmán Loera, 54 anni, non ha terminato le scuole elementari, ma è il protagonista di un mito nazionale, vale a dire le canzoni scritte in suo onore, note come narcocorridos. (8)
Le banche sono quasi tutte consorzi transnazionali. Incassano interessi inimmaginabili, pagano assi poco il risparmio e vendono a carissimo prezzo i loro servizi, ottenendo utili impensabili in altri paesi. Anche l’industria agraria (Monsanto), l’acqua (vivendi) e l’energia (Fenosa, Iberdrola e Repsol, quest’ultima concessionaria della Cuenca di Burgos, uno dei più importanti giacimenti di gas naturale dell’America Latina) si trovano in mano straniere. Il bottino più agognato è l’industria petrolifera (Pemex), legalmente di proprietà della nazione, ma da un paio di decenni parzialmente data in concessione all’iniziativa privata, grazie a stratagemmi legali. C’è una novità: mentre in passato l’investimento estero proveniva da un unico paese, gli Stati Uniti, attualmente è rilevante la presenza – non meno vorace – di capitale europeo, in particolare spagnolo, che conferisce un tono grottesco alla retorica bicentenaria del governo e spiega il motivo per cui il “socialista” Rodríguez Zapatero sia stato uno dei primi a complimentarsi con il “liberale” Felipe Calderón quando costui si impadronì della presidenza nel 2006, per mezzo di brogli elettorali.

Il controllo della forza-lavoro

L’industria mineraria merita un discorso a parte. Per lo più è accaparrata da aziende canadesi come la Minera San Xavier a San Luís Potosí, la Black Fire a Chicomuselo, Chiapas, e la Continuum, a San José del Progreso, Oaxaca. Tutte sono caratterizzate da un percorso fosco riguardo la repressione sul posto di lavoro e l’inquinamento ambientale, ma la situazione non è migliore nel Grupo México, terzo produttore mondiale di rame, il cui presidente e azionista di maggioranza è il messicano Germán Larrea. E ciò è talmente vero che nel febbraio 2006 sessantacinque lavoratori morirono a seguito di un’esplosione provocata dalla negligenza dell’impresa nella miniera Pasta de Concho, Coahuila. Il tragico incidente ha dato adito a una lotta senza successo per il recupero dei corpi e il miglioramento delle condizioni di lavoro. Nel giugno 2010, si è dato vita a un movimento di sciopero, sfociato in uno scontro aperto, risoltosi nei giorni 6 e 7 con lo sgombero dei lavoratori da parte della polizia dal Pasta de Concho e anche da Cananea, Sonora; la violenza è stata tale da far tornare alla mente i fatti sanguinosi del 1906, anche quelli svoltisi in Cananea, considerati uno dei precedenti dalla rivoluzione messicana. (9)
Naturalmente, lo scenario attuale è diverso, e alcuni ritengono che l’industria mineraria stia tentando un esperimento di ingegneria sociale. Gli apparati di potere costruiscono conflitti per favorire le aziende minerarie e mantenere il controllo sulla forza lavoro. “Il sistema è noto: far sì che le autorità prendano le parti della corporation; fomentare la divisione nella comunità; cercare il momento migliore per montare una provocazione ed essere pronti ad assassinare persino i propri correligionari per indebolire la comunità che oppone resistenza, e fare in modo che sia oggetto di innumerevoli accuse, arrivando persino a incarcerarne i membri”. (10)
Continuando nella nostra altimetria sociale, molto più in basso, troviamo una classe media spremuta, esaurita e in uno stato di prostrazione permanente, ma sempre incline al servitù volontaria. In fondo all’abisso, relegati ai margini delle metropoli, sui pendii delle montagne o nelle lande desertiche si trovano i messicani che se la passano male o molto male. Sono la maggioranza. Secondo i dati ufficiali, soltanto il 18 per cento della popolazione totale (105 milioni di abitanti circa) può disporre di entrate sufficienti per far fronte ai diritti sociali di base (alimentazione, abitazione, istruzione e salute). In cambio, 47,2 milioni di messicani vivono nella estrema povertà e altri 35 milioni sono esposti al rischio di essere vittime di carenze. Alcune di queste possono risultare letali, come nel caso dell’incendio dell’Asilo ABC, accaduto il 9 giugno 2009 a Hermosillo, Sonora, conclusosi con la morte di 49 bambini e il ferimento di 76. La ragione? Per mancanza di fondi, l’Instituto mexicano del seguro social affida ad aziende private l’amministrazione degli asili pubblici e queste, conniventi con le autorità, non assolvono alle condizioni minime di sicurezza. Chi ne risulta colpito? Non certo i figli dei ricchi. La Comisión económica para América Latina y el Caribe (cepal) segnala che il Messico concentra il 18 per cento di tutta la popolazione infantile dell’America Latina, vale a dire, 15,8 milioni di individui, quattro dei quali in condizioni di povertà estrema. (11)
La gerarchia cattolica, eterna alleata del potere, benedice l’ingiustizia. Parimenti, inasprisce le sue vecchie battaglie contro gli esseri umani, coprendo le infamie abominevoli dei suoi parroci pederasti, denigrando gli omosessuali e conducendo una accesa crociata contro la depenalizzazione dell’aborto. Recentemente, il governo clericale di Guanajuato ha condannato a 35 anni di carcere sette donne per “delitto di omicidio in ragione di parentela”, vale a dire aborto. Fortunatamente, tutte sono state scarcerate lo scorso 7 settembre, grazie a una lunga lotta per la riforma del Codice penale statale che ora prevede pene da tre a otto anni “soltanto” per lo stesso reato. Una delle donne liberate, Yolanda Martínez Montoya, ha scontato sette anni dietro le sbarre. “Non ci daremo per vinte. C’è molto ancora da fare e da cambiare” ha detto uscendo dal carcere con il pugno alzato. (12) È bene buttare in faccia alla Chiesa e ai suoi ruffiani le giuste parole del parroco Hidalgo: “Aprite gli occhi, americani, non lasciatevi sedurre dai nostri nemici: loro non sono cattolici; il loro dio è il denaro, e le loro intimazioni hanno per oggetto soltanto l’oppressione”. (13)

Danni collaterali

Il presidente Felipe Calderón (del Pan), privo di legittimità, eletto nel 2006 grazie a uno sporco gioco mediatico e a una sfacciata manipolazione dei voti, ha inventato una rozza guerra contro il crimine organizzato, consapevole del fatto che “la sicurezza del potere si basa sulla insicurezza dei cittadini” (Leonardo Sciascia). Questa guerra, che sta monopolizzando l’attenzione mondiale, è ingaggiata tra cartelli della droga che si contendono il controllo del territorio e tra alcuni di loro e lo Stato. (14) Secondo i dati ufficiali, pur mancando di ideologie e di eroi, ha provocato circa 28.000 morti tra il dicembre 2006 e oggi. (15) Quanti di loro sono innocenti, senza alcun collegamento con il narcotraffico? Non esistono dati al riguardo, anche se sappiamo che l’esercito ha ucciso “per caso” un bambino vivace, una famiglia sventurata, un automobilista imprudente.
Dal 2000 a oggi sessanta giornalisti sono stati uccisi, undici dei quali nel anno corrente; mentre altri undici continuano a risultare scomparsi. L’ultimo, tragico episodio è la morte di Luis Carlos Santiago, un fotografo di soli 21 anni, ucciso da sicari il 19 settembre a Ciudad Juárez, Chihuahua. Lavorava a “El Diario de Juárez” che nel 2008 aveva già subito l’assassinio di un dipendente, Armando Rodríguez Carrión, mentre un suo collega, Jorge Luis Aguirre, ha chiesto e ottenuto asilo politico negli Stati Uniti a seguito delle minacce ricevute. (16) Secondo l’Istituto internazionale della stampa, con sede in Austria, se si esercita la professione di giornalista, il Messico è il paese più pericoloso del mondo. Servendosi del linguaggio orwelliano utilizzato da Bush in Iraq e che Obama continua a usare in Afghanistan, Calderón parla di “danni collaterali”.
Attualmente, 96.000 militari pattugliano le strade del Messico sostenendo di combattere i cartelli della droga. Servono a qualcosa? Assolutamente no. La guerra di Calderón non è credibile perché i cartelli della droga fanno affidamento sulla complicità di poliziotti, ufficiali dell’esercito, appartenenti ai corpi speciali, in pensione o in attività. Alcuni rapporti dei servizi segreti rivelano che circa il 62 per cento degli agenti di polizia è controllato dal narcotraffico e che le somme che ricevono mensilmente raggiungono i 70.000 pesos (3500 euro circa). (17) La rivista “Contralínea” segnala che, tra il dicembre 2006 e il febbraio 2010, i tribunali hanno emesso soltanto 735 sentenze definitive per il reato di criminalità organizzata. Ciò rappresenta unicamente lo 0,6 per cento delle 121.199 persone detenute nello stesso periodo per presunti legami con la criminalità organizzata. (18) E gli altri? Sono innocenti o fanno affidamento sulla complicità di qualche autorità che finirà per scarcerarli.
Il reato più grave è quello di essere poveri e la pena comminata comprende il carcere, la tortura, la sparizione e l’assassinio. Dietro la guerra contro il narcotraffico si cela un’altra guerra, la guerra dello Stato contro la società, che risale agli anni settanta quando cento messicani furono fatti sparire dall’esercito e dai corpi di polizia. Una recente indagine giornalistica indica che tra il dicembre 2006 e oggi si sono verificate tremila sparizioni per motivi politici, tratta di esseri umani e lotta contro il narcotraffico. (19) La data che segna il malaugurato ritorno della guerra sporca è il 25 maggio 2007, quando due dirigenti dell’epr, Raymundo Rivera Bravo e Edmundo Reyes Amaya, furono incarcerati a Oaxaca e da allora risultano scomparsi. (20)
Qual è la base sociale della criminalità organizzata? In Messico ci sono sette milioni e mezzo di giovani che non lavorano e non studiano. (21) Hanno un sogno: uscire dalla miseria. Alcuni ripongono le loro speranze in entità soprannaturali come la Santa Muerte, uno scheletro con una lunga veste e la falce, che dispensa miracoli a Tepito, il quartiere ribelle di Città del Messico. D’altra parte, il narcotraffico produce, annualmente, introiti equivalenti a quarantamila milioni di dollari (70 per cento dei quali viene reinvestito nell’economia formale), qualcosa come l’equivalente di quanto fruttano le rimesse dei migranti, più il totale delle esportazioni petrolifere. (22) È l’unico settore in cui il lavoro abbonda, perché il Messico non è soltanto un paese di passaggio, ma anche un importante centro di consumo (cocaina in primo luogo, ma anche oppiacei, amfetamine, ecstasi e le nuove droghe sintetiche).
Il film Infierno, appena uscito sugli schermi, coglie benissimo il fascino sciagurato che il mondo del narcotraffico esercita sulla gioventù. Un migrante, Benjamín García, torna nel suo villaggio dopo essere stato espulso dagli Stati Uniti. Arriva con molte illusioni, ma di fronte a un panorama desolante entra a far parte di una banda di narcotrafficanti, raggiungendo in un primo momento una grande, quanto effimera, prosperità. Il finale è tragico e il messaggio chiarissimo: la criminalità organizzata è sempre esistita, ma ora si sovrappone a una classe politica particolarmente ingorda e a una crisi economia devastante, creando un ambiente apocalittico.
L’alternativa è emigrare. Quanti sventurati muoiono nel tentativo di attraversare il confine settentrionale? Le fonti sono discordanti; quel che è certo è che ammontano a migliaia ogni anno. Ciò nonostante, le politiche migratorie degli Stati Uniti – la famigerata legge SB1070 dell’Arizona che criminalizza i migranti privi di documenti, il sistema operativo Guardian e la costruzione del muro della vergogna lungo il confine – non riescono ad arginare il flusso migratorio, perché la pressione è enorme. L’unica cosa che ottengono è la ricerca da parte dei migranti di forme sempre più rischiose per attraversare il confine, cadendo in mano a mafie sempre più assassine. Negli ultimi anni si è assistito al moltiplicarsi degli omicidi di migranti, principalmente donne, non soltanto negli Stati Uniti, ma anche all’interno del paese. Molti non sono messicani, ma giovani dell’America centrale e meridionale a caccia dello stesso sogno. A Ciudad Juárez, luogo di passaggio in direzione degli Stati Uniti, si sono registrati 7649 omicidi di donne dal 1993. (23) A chi appartengono le mani assassine che hanno falciato le loro vite? Nessuno lo sa con certezza, anche se la complicità delle autorità locali, statali e federali è un segreto di pulcinella.
Il più recente e vergognoso delitto contro i migranti è stato perpetrato il 24 agosto scorso, quando 72 persone (58 uomini e 14 donne; il peggior massacro verificatosi in Messico dal 1968), che erano dirette negli Stati Uniti, sono state brutalmente assassinate a San Fernando, Tamaulipas, da sicari appartenenti agli Zetas, un cartello particolarmente feroce, che integra i proventi derivanti dal narcotraffico con la tratta di esseri umani. (24) Il motivo? Non hanno pagato per il loro riscatto. Il sequestro – è utile ricordarlo – è un affare redditizio nel Messico del bicentenario. Secondo il presidente della Comisión nacional de los derechos humanos (Cndh), Raúl Plascencia Villanueva, nel primo semestre 2010 si sono verificati diecimila casi soltanto nel settore dei migranti. (25)
Mentre accade tutto questo, è strano constatare come l’agenzia internazionale di investimenti Morgan Stanley innalzi la propria raccomandazione per il Messico da “ponderazione di mercato” a “forte ponderazione”. (26) Vale a dire, il paese è in rovina, ma gli affari vanno bene.

Vlady, Zacapu. Rappresenta un
campesino di Michoacán
(Zacapu è un villaggio in quello stato)

Le altre guerre del Messico

Negli anni scorsi – da quel memorabile 1° gennaio 1994, giorno della ribellione indigena del Chiapas, fino alla non meno gloriosa insurrezione guidata dalla Asamblea popular del los pueblos de Oaxaca, Appo (2006) – il Messico non è stato soltanto un paese di laceranti ingiustizie, ma anche un laboratorio sociale e politico di importanza internazionale. Oggi i movimenti sociali sono battuti e feriti, ma non sottomessi. Di fronte al fallimento della Otra campaña – che nel 2006 aveva cercato, senza grande successo, una alternativa non elettorale ai grandi problemi nazionali –, le comunità riunite dell’ezln si sono ritirate nei loro territori sulle montagne sudorientali e lì restano, nonostante la guerra sotterranea che il governo non ha mai smesso di ingaggiare contro di loro. Organizzate nei cosiddetti Caracoles o Juntas de buen gobierno, rafforzano la loro autonomia, mettono in atto progetti produttivi e perfezionano sistemi alternativi di istruzione e sanità. Il prolungato silenzio del subcomandante Marcos non deve trarre in inganno; evidentemente si è esaurita la sua funzione di portavoce dell’ezln e le comunità ribelli hanno stabilito di assumere un controllo più diretto dei propri affari interni. È una decisione saggia, nella situazione attuale. È vero che ora la loro presenza nazionale e internazionale è meno significativa, ma è altrettanto vero che continuano a offrire un esempio di lotta libertaria, principalmente ai quindici milioni di indigeni che, in luoghi differenti, permangono esposti al pericolo di etnocidio silenzioso, se non direttamente allo sterminio fisico.
San Juan Copala, una comunità triqui di Oaxaca, si è trasformata nella succursale latino-americana della striscia di Gaza. Perché? Perché i suoi abitanti hanno commesso il duplice reato di lottare contro i cacicchi affiliati alla Unión de bienestar social de la región Triqui (Ubisort) – emanazione locale del Partido revolucionario institucional, il partito che ha monopolizzato il potere federale fino al 2000 e che ha finito per perdere le elezioni statali – e di proclamarsi autonomi.
La reazione del governatore Ulises Ruiz, tristemente noto per aver represso il movimento del 2006, è stata decisa: organizzare e coprire gruppi paramilitari armati fino ai denti che accerchino il villaggio, taglino la corrente elettrica, chiudano le scuole e sopprimano il servizio sanitario in totale impunità. Non soddisfatti, hanno assassinato vigliaccamente quindici persone fino a questo momento (tra le quali due attivisti umanitari, Beatriz Cariño e Jyri Jaakkola) e violentato un numero imprecisato di donne. Anche adesso impediscono la consegna di cibo e acqua e controllano l’entrata e l’uscita delle persone. Il 13 settembre, mentre i riflettori mediatici si concentravano sulla festa nazionale, si sono impadroniti del palazzo municipale minacciando di massacrare tutti gli autonomi se non avessero abbandonato la regione in breve tempo. Il 18 hanno mantenuto la promessa uccidendo due esponenti della comunità, Paulino Ramírez e David García Ramírez e facendo scomparire Eugenio Martínez López. (27)
Questa situazione non è esclusiva di Oaxaca. Scenari simili si ritrovano in Chiapas, Veracruz, Puebla, Nayarit, Jalisco e anche in Guerrero e Michoacán, Stati governati dal Partido de la revolución democrática che si definisce di sinistra. A Xochistlahuaca, Guerrero, il popolo amuzgo lotta contro cacicchi protetti dal governatore Zeferino Torreblanca, membro del Partido de la revolución democrática, e Radio Ñomndaa (la parola dell’acqua), un’emittente che dà voce ai popoli indigeni, meticci e neri della regione, vive in un perenne stato di assedio.
A Santa María Ostula, villaggio nahua della costa del Michoacán, nel giugno 2009, gli abitanti della comunità hanno pubblicato un manifesto di portata storica che rivendicava il diritto dei popoli nativi a difendere la vita, la libertà, la cultura e la terra. Subito dopo, hanno recuperato più di 700 ettari di proprietà comunale, occupata illegalmente da cacicchi meticci. Da allora, vivono assillati dall’esercito, dalla polizia e da formazioni paramilitari. Il risultato è deplorevole: otto membri della comunità assassinati e altre tre scomparsi.

Spoliazione sociale, catastrofe ambientale

A Città del Messico, governata dalla sinistra dal 1997, la repressione è rivolta principalmente contro giovani appartenenti ai collettivi libertari e anarcopunk, che negli ultimi anni si sono moltiplicati e vengono percepiti come un pericolo per l’attuale capo dei governo, Marcelo Ebrard. Quest’ultimo, con la consulenza dell’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, sta mettendo in atto il piano “Tolleranza zero”, in ragione del quale ora i giovani sono considerati colpevoli finché non dimostrino la loro innocenza. L’irresponsabilità politica è significativa. Nel giugno 2008 un’operazione di polizia organizzata nella discoteca News Divine si è conclusa con tre poliziotti e nove ragazzi morti, tre dei quali minorenni.
Molti attivisti che esercitano il loro diritto alla protesta finiscono per essere arrestati a causa del solo reato di trovarsi nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato e di non avere soldi per comperare la giustizia. Attualmente ci sono cinque giovani anarchici detenuti nelle carceri del Distretto Federale. (28) I loro nomi sono: Abraham López Martínez, Fermín Gómez Trejo e Carlos de Silva Orozco, incarcerati il 15 dicembre 2009 con l’accusa di aver lanciato bottiglie molotov contro alcune automobili; Adrián Magdaleno, accusato di aver tentato di far scoppiare bombe fatte in casa all’interno di un vagone della metropolitana; Víctor Herrera Govea, studente incarcerato per aver esercitato il diritto di protestare contro la repressione nel corso della manifestazione del 2 ottobre 2009. (29)
La spoliazione sociale va di pari passo con la catastrofe ambientale. Da tempo la deforestazione provoca stragi nel mondo intero, ma soprattutto in Messico, dove alimenta un ciclo infernale di calamità “naturali”, nelle quali i periodi di siccità si alternano a quelli di inondazioni. Da un lato la desertificazione avanza e dall’altro, ogni volta che piove più del normale, le colline franano, i fiume straripano e intere città vengono sommerse. (Nell’ultimo periodo c’è stato un milione di sinistrati soltanto nello Stato di Veracruz.) Per di più, il governo federale promuove un Programa de reducción de emisiones por deforestación y degradación de los bosques (Redd), in ragione del quale aziende altamente nocive comprano e vendono legalmente il diritto a inquinare con la scusa di piantare alberi in un’altra parte del mondo. (30)
Questi gravissimi problemi ambientali si aggravano per colpa di megaprogetti turistici che divorano risorse naturali e rimettono in auge la schiavitù dell’era profiriana: privatizzazioni dei servizi idrici in intere bioregioni; costruzione di dighe di sbarramento e deviazioni di fiumi che distruggono microclimi (La Parota, Guerrero; Paso de la Reyna, Oaxaca; El Zapotillo e Arcediano, Jalisco; El Cajón, Nayarit); parchi eolici che distruggono la fauna e divorano terre comunali (La Ventosa, Oaxaca); discariche a cielo aperto che contaminano le colture e le falde freatiche (Tlaquiltenango, Morelos; Tulum, Quintana Roo; Guadalcazar, San Luis Potosí e Tlaxcala, tra i numerosi altri); colture transgeniche che avvelenano la madre terra. Sono tutti affari lucrosi, ma possono trasformarsi in fattori di rivolta, come si può constatare dal moltiplicarsi di movimenti in difesa dell’acqua, della terra, dell’aria, della biodiversità, dei cibi e della salute. Alcuni si riunisco nella Asamblea nacional de afectados ambientales (anaa) che coordina e conferisce visibilità alle loro lotte. La risposta del governo è quella di sempre: incarcerare o assassinare chi lotta in difesa dell’ambiente e, con la scusa di combattere la criminalità organizzata, militarizzare regioni intere.
Neppure le fabbriche sono in pace. L’offensiva contro gli operai del governo del Partido de acción nacional è terribile: tutti i giorni ci accorgiamo della scomparsa di un luogo di lavoro, di un sindacato o di un contratto collettivo. Spicca la lotta eroica – e in gran parte solitaria – dei lavoratori del Sindicato mexicano de electricistas – una delle organizzazione più antiche del paese – che intendono mantenere il loro posto di lavoro nella Luz y Fuerza del Centro, industria pubblica, illegalmente chiusa dal governo federale.
Oggi il Messico è un precipitato di tutte le sventure che minacciano il pianeta: totalitarismo economico, devastazione ambientale, polarizzazione sociale oscena, partiti “canaglia” che si contendono il potere allo scopo di arricchirsi, emittenti televisive che eleggono o fanno cadere governanti, mafie sanguinarie che corrompono il tessuto sociale. Sarebbe arrischiato concludere riprendendo la profezia di John Kenneth Turner sull’imminenza di una rivoluzione redentrice o scommettendo sul centenario rinnovamento del metabolismo politico: 1810, 1910, 2010. (31)
Ma la nostra storia non finisce così. “Lo stadio supremo della produzione mercantile e il progetto della sua negazione totale, ugualmente ricchi di contraddizioni al loro interno, stanno crescendo insieme” ha scritto Guy Debord. (32)
Il Messico ha un fondo tenace e una dialettica complessa e per molti incomprensibile, proprio perché si trova nell’occhio del ciclone. Ricordiamo le parole di B. Traven: “Siamo il domani. Nel nostro continente si deciderà il destino del prossimo millennio; si prepara la culla di una nuova cultura. E nascerà in Messico, perché è qui che si sperimentano i dolori del parto”. (33) Questo domani non finisce di nascere. Resta poco tempo.

(settembre 2010)

Claudio Albertani

Note

  1. 1 John Kenneth Turner, México bárbaro, Costa Amic, México 1965. Esiste anche un’edizione virtuale: http://www.antorcha.net/biblioteca_virtual/historia/turner/indice.html.
  2. James Cockroft, Precursores intelectuales de la revolución mexicana. 1900-1913, Siglo XXI Editores, México 2004, p. 4 (prima edizione inglese: 1971).
  3. John Womack, Zapata y la revolución mexicana, Siglo XXI Editores, México 1969, p. XI.
  4. Carlos Montemayor, La guerra rural, in “Revista Proceso”, n. 1136 e 1137, 9 e 16 agosto 1998; Laura Castellanos, México Armado. 1943-1981, Editorial Era, México 2007. Per aver scritto questo libro, l’autrice è stata oggetto di ripetute minacce.
  5. Cfr. “La Jornada”, 21 aprile 2010.
  6. The World’s Billionaires, in “Forbes”, 3 marzo 2010, http://www.forbes.com/2010/03/10/worlds-richest-people-slim-gates-buffett-billionaires-2010_land.html.
  7. No.937 Joaquin Guzman Loera, in “Forbes”, http://www.forbes.com/lists/2010/10/billionaires-2010_Joaquin-Guzman-Loera_FS0Y.html.
  8. Corrido: genere musicale epico-lirico o storico-narrativo. [N.d.T.]
  9. Cfr. “El Universal”, 9 settembre 2010.
  10. Ramón Vera, San José del Progreso, Ocotlán, Oaxaca. Modelo de ingeniería de conflictos, in “La Ojarasca”, n. 159, supplemento mensile di “La Jornada”, luglio 2010.
  11. Cfr. “La Jornada”, 24 giugno 2010.
  12. Cfr. “La Jornada”, 8 settembre 2010.
  13. Manifiesto de Miguel Hidalgo en que contesta cargos de la Inquisición, 15 dicembre 1810, http://www.biblioteca.tv/artman2/publish/ 1810_115/Manifiesto_de_Miguel_Hidalgo_en_ que_contesta_cargos_de_la_Inquisici_n.shtml.
  14. Cfr., per esempio, “Le Monde”, 11 agosto 2010, Le Mexique miné par les barons de la drogue, e il “New York Times”, 22 settembre, Mexico Paper, a Drug War Victim, Calls for a Voice.
  15. Cfr. “El Universal”, 3 agosto 2010.
  16. Si veda al riguardo Qué quieren de nosotros?, editoriale di “El diario de Juárez”, 19 settembre 2010.
  17. Cfr. “La Jornada”, 1° febbraio 2009.
  18. Nancy Flores, Una farsa, la “guerra” contra el narcotráfico, in “Contralínea”, 23 maggio 2010.
  19. Sanjuana Martínez, Van tres mil desaparecidos en el sexenio de Calderón, in “La Jornada”, 30 e 31 agosto 2010.
  20. Al riguardo si veda il mio libro: El espejo de México. Crónicas de barbarie y resistencia, Alter Costa Amic.
  21. Cfr. “La Jornada”, 24 agosto 2010.
  22. “El Universal”, 13 febbraio 2010; George Friedman, Mexico and the Failed State Revisited, in “Stratfor, Global Intelligence”, 6 aprile 2010; http://www.stratfor.com/weekly/20100405_mexico_and_failed_state_revisited.
  23. Cfr. http://es.wikipedia.org/wiki/Feminicidios_ en_Ciudad_Juárez.
  24. “La Jornada”, 25 agosto 2010.
  25. “La Jornada”, 27 agosto 2010.
  26. “El Financiero en línea”, 21 settembre 2010.
  27. Municipio Autónomo de San Juan Copala, comunicato del 25 settembre 2010, http://municipioautonomodesanjuancopala.wordpress.com.
  28. “Intervista a Cruz Negra Anarquista (Cna) del DF”. La Cruz Negra è un’organizzazione libertaria sorta precisamente per tener testa alla situazione di repressione che i giovani devono affrontare. http://www.cgtchiapas.org/entrevistas/entrevista-cruz-negra-anarquista-cna-df
  29. Sul caso di Víctor vedi: Carolina S. Romero, La gente exige y Marcelo reprime. Mitin por la libertad de Victor Herrera encapsulado por granaderos del DF, 9 settembre 2010, http://www.kaosenlared.net/noticia/mexico-df-libertad-victor-herrera-govea-gente-exige-marcelo-reprime.
  30. Silvia Ribeiro, Vendiendo aire, in “La Jornada”, 11 settembre 2010 e Ana de Ita, REDD++ y pueblos indígenas, in “La Jornada”, 18 settembre 2010.
  31. John Ross, 1810! 1910! 2010! The Timeline for a New Mexican Revolution Comes Due, http://www.counterpunch.org/ross11272009.html.
  32. Guy Debord, La planète malade, Gallimard, Paris 1971; tr. it. Il pianeta malato, Nautilus, Torino 2005. Esiste anche una versione digitale: http://elcresta.blogspot.com/2008/01/guy-debord-el-planeta-enfermo-i-la.html.
  33. B. Traven, Tierra de Primavera, Conaculta, México 1996, p. 25. (Edizione originale Land des Fruhlings, Buchergilde Gutenberg, Berlin 1930).

Se n’è andato Samuel Ruiz, il vescovo degli indios

Lo scorso 24 gennaio è deceduto a Città del Messico, Samuel Ruiz, vescovo emerito di San Cristobal de Las Casas, Chiapas.
Don Sam, come lo chiamavano affettuosamente i suoi collaboratori, il tatic (padre, in lingua tzeltal), com’era conosciuto tra gli indios, o il caminante, come si autodefiniva, non era un vescovo qualsiasi. Fu arbitro, interlocutore e accompagnatore del movimento zapatista soffrendo per questo calunnie e persecuzione.
“Poche persone hanno influito tanto sulla formazione del moderno movimento indigeno in Messico come Samuel Ruiz”, ha scritto il giornalista Luis Hernández Navarro. “Poche persone hanno cambiato tanto la propria visione del mondo e della vita sotto l’influsso dei popoli indigeni come il responsabile della diocesi di San Cristobal. I popoli indigeni l’hanno convertito in un prelato differente; lui in cambio li ha aiutati a costituirsi in soggetti storici”.

Il vescovo Samuele Ruiz nel 1998

Io ateo furibondo, lui vescovo

Era nato nel 1924, a Irapuato, Guanajuato, una delle regioni più retrograde del Messico, roccaforte del tradizionalismo e dei cristeros, i temibili integralisti cattolici. Ordinato sacerdote nel 1949, fu designato vescovo di San Cristobal dieci anni dopo. La Chiesa e lo Stato praticavano allora un indigenismo paternalista e ipocrita facendo a gara per circuire le popolazioni maya che soffrivano di una miseria atavica. Samuel Ruiz sembrava l’uomo adatto. Studioso brillante, ligio al Vaticano, aveva conseguito un dottorato in teologia a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, ed era il prelato più giovane del Messico. Nulla faceva immaginare il suo straordinario destino.
Lo conobbi negli anni 80 per un’intervista sulla situazione dei rifugiati guatemaltechi – anch’essi indigeni, anch’essi maya – che fuggivano la dittatura militare e che lui sosteneva coraggiosamente. Tra le centinaia di persone che contribuì a salvare vi era anche Rigoberta Menchú, futuro premio Nobel per la pace. Bussai timidamente alla porta della diocesi di San Cristobal e, cosa strana per un vescovo, mi aprì proprio lui, don Samuel. Vestiva abiti civili e l’unico indizio della sua condizione di religioso era un crocefisso sulla giacca grigia. Ero – sono – un ateo furibondo e mi sentivo assai scomodo alla presenza di un principe della chiesa, però il ghiaccio si ruppe alla svelta. Ricordo di aver sperimentato la stessa sensazione, quando intervistai monsignor Juan Gerardi, il coraggioso vescovo del Quiché barbaramente assassinato nel 1998. Don Samuel mi colpì per i modi gioviali e uno spiccato senso dell’umorismo. Terminata l’intervista, non resistetti alla tentazione di fargli alcune domande personali.
– Quando cambiò la sua posizione nei confronti degli indios?
Al mio arrivo nel 1960, decisi di incominciare visitando la diocesi. Fu un trauma. Il Chiapas era un baluardo del latifondismo. Vi erano molta miseria e un razzismo crudele. Non potevo rimanere indifferente. A poco a poco, compresi che la povertà non era una condizione naturale, ma il prodotto di una struttura di dominazione feroce. Invece di convertire, venni convertito.
Giusto per curiosità, gli domandai se aveva lavorato anche con i lacandoni, un’etnia maya che vive nelle regioni più remote e allora inaccessibili della giungla. La risposta illustra il personaggio:
No. Loro hanno una religione molto bella, sono decisi a preservarla e noi li rispettiamo.

Contro i Cacicchi

Non era una dichiarazione retorica. Piuttosto conservatore rispetto alla questione dell’aborto o dell’omosessualità (non era il suo terreno), Samuel Ruiz difese vigorosamente la libertà religiosa e non esitò a combattere i cacicchi anche quando si dicevano cattolici. Uomo d’azione ancor più che d’idee, mantenne una posizione polemica nei confronti della gerarchia cattolica e della classe dominante. Mentre i suoi predecessori avevano brindato con i coletos – la razza padrona di San Cristobal – lui percorse il Chiapas in lungo e in largo, a dorso di mulo, a cavallo, in jeep e anche a piedi. Imparò tre lingue maya (tzeltal, tzotzil e tojolabal), dormì sulla nuda terra e si nutrì della saggezza comunitaria.
Nel 1974 (12-15 ottobre), aiutò a organizzare il Congresso Indigeno, importante antecedente del movimento neozapatista e pietra miliare nel lungo processo di emancipazione delle comunità autoctone. Quel Congresso fu, per usare la definizione dello storico Antonio García de León, una specie catarsi collettiva che sfociò in rivendicazioni storiche (terra, libertà, cultura, salute, alloggio…) e numerose organizzazioni contadine alcune delle quali esistono tuttora.
Fra i suoi meriti vi è quello di aver accolto molti dissidenti della chiesa messicana ed anche alcuni stranieri, come l’indimenticabile André Aubry. (...)
Nel 1989, fondò il Centro de Derechos humanos Fray Bartolomé de las Casas – Frayba per gli amici – che ancora oggi accompagna le lotte degli indios ed è oggetto di continue campagne diffamatorie. Girolamo Prigione, il tenebroso nunzio apostolico, amico dei narcos e del presidente Carlos Salinas (1994-2000), fece di tutto per rimuoverlo, senza però riuscirci. Don Samuel sapeva difendersi.
Lo rividi in ottobre del ‘93 a un Congresso celebrato a Oaxtepec, nel Morelos. Ecco le sue parole:
La situazione è delicata. Finora i popoli indigeni hanno mostrato una grande moderazione, però è necessario dare risposta alle loro richieste prima che sia troppo tardi.
Aveva notizia dell’imminente ribellione? È difficile pensare di no, anche perché era un segreto di Pulcinella. L’anno prima, si erano moltiplicate le manifestazioni di malcontento in occasione delle contro-celebrazioni per il Quinto Centenario e in maggio la rivista messicana Proceso aveva pubblicato un lungo reportage su uno scontro avvenuto nella Serra Lacandona tra un gruppo guerrigliero e l’esercito.
È chiaro che don Samuel, convinto pacifista, non condivideva la via armata, però il primo gennaio 1994 non dubitò a schierarsi dalla parte degli indigeni ribelli.

“Nonostante le differenze”

Il governo Zedillo (1994-2000) minacciò di arrestarlo e subì un attentato dal quale uscì miracolosamente illeso. Il resto è storia recente. Nel 1999, al compiere settantacinque anni, rinunciò alla diocesi con grande soddisfazione dei vescovi conservatori. Prima di andarsene “convertì” alla causa degli indios, monsignor Raúl Vera, il prelato che la curia gli aveva accollato per controllarlo. Ritornò allora a Guanajuato, però conservò la presidenza onoraria del Frayba continuando la lotta da altre trincee. Lo preoccupava la crescente presenza dell’esercito nella vita del Messico e il ritorno alla sporca guerra. Nel 2008, dopo l’arresto e la successiva scomparsa di alcuni militanti dell’Ejército Popular Revolucionario, EPR – un’organizzazione armata attiva a Oaxaca e in altre regioni –, creò su richiesta dello stesso EPR, una nuova commissione di mediazione. Don Samuel era instancabile.
Il 25 gennaio, il cadavere del vescovo arrivò a San Cristobal per l’estrema sepoltura. Rimase esposto trentotto ore nella Cattedrale di San Cristobal; trentotto ore che rimarranno come simbolo di speranza e di lotta. Migliaia di indios giunsero a rendergli l’ultimo omaggio dai quattro angoli del Chiapas ed anche dal Guatemala. Un rappresentante de Las Abejas, un gruppo pro-zapatista vicino alla diocesi che nel 1997 fu oggetto di un terribile massacro, disse:
Tatic, non sei più tra noi. Hai fatto quello che dovevi. Ci hai insegnato a lottare. A non vivere come schiavi ciechi, subordinati al mal gobierno. Dì al Padre Nostro che il massacro di Acteal rimane impune.
Il 27 gennaio, l’EZLN ruppe un lungo silenzio: “Per quanto non siano state poche, né secondarie le differenze, i disaccordi e le distanze, vogliamo rimarcare un impegno e una traiettoria (…). Don Samuel Ruiz Garcia e i cristiani come lui hanno avuto, hanno e avranno un posto speciale nel cuore scuro delle comunità indigene zapatiste. (...) Dal 1994, per il suo lavoro nella CONAI, in compagnia di donne e uomini che crearono quella istanza di pace, don Samuel ricevette pressioni, persecuzioni e minacce, compresi attentati contro la sua vita (…). Oggi quegli attacchi non sono finiti. (…) Se ne va don Samuel, ma rimangono molti altri che (…) lottano per un mondo terreno più giusto, più libero, più democratico, ossia, per un mondo migliore”.
Il 28 gennaio il Consiglio direttivo del Frayba ha deciso di conferire la presidenza a tatic Raúl Vera il quale, nel frattempo, è diventato più radicale di don Samuel.
La storia continua.

C. A.