rivista anarchica
anno 41 n. 361
aprile 2011


cinema

 

Il problema dei luoghi comuni

La domanda è come ci salviamo da tutti questi brutti film che assediano le nostre sale? Cosa porterà tutta questa somma di banalità che ci infligge questo cinema che sa raccontare solo quell’Italia in cui non ci riconosciamo?
La risposta è semplice. I più curiosi, documentandoci su film che escono nelle sale, andando a vedere certi film piuttosto che altri, farsi prendere da altre storie, da altri sogni. Un cinema che sia specchio della realtà in cui viviamo, che sappia portarci in luoghi sconosciuti, a contatto con persone che hanno qualcosa da dire e qualcosa da raccontare. Non siamo per principio contro il cinema di intrattenimento. Anzi. Va bene anche quello, ma non può essere l’unico, il solo che troviamo nelle sale. Ciò che combattiamo è la banalizzazione del reale, la generalizzazione, la volgarità, infarcire ogni inquadratura di luoghi comuni.
Il problema dei luoghi comuni non è il fatto che contengono idee false, ma piuttosto che sono articolazioni superficiali di buone idee. I luoghi comuni sono dannosi in quanto ci fanno credere di descrivere in modo soddisfacente una situazione, mentre invece ne scalfiscono solo la superficie. E se questo ha importanza (e ne ha), è perché il nostro modo di parlare è fondamentalmente legato al nostro modo di sentire, perché il modo in cui descriviamo il mondo deve in qualche misura riflettere il mondo in cui prima lo viviamo.
La stagione cinematografica in corso è un bagno di sangue per distributori ed esercenti. Il pubblico va poco al cinema e premia solo certe commedie (Zalone 40 milioni di euro di incasso solo al cinema). Cinema a basso tasso di intelligenza, buono solo per trangugiare pop corn e bere gassato (che per altro fa male alla salute…). E così, per citare un esempio, anche un film di grande impatto e spessore come “In un mondo migliore” di Susan Bier (vincitore dell’Ultimo Festival di Roma) non trova accoglienza adeguata, ha vita dura e poco dopo la sua uscita scompare. Come accade a molto di questo cinema, diciamo così, intelligente e colto. Nella trama del film, Christian un adolescente come tanti nostri figli, non sorride mai e non perdona mai. Christian si trasferisce in Danimarca con il padre, e nella sua nuova scuola incontra Elias un ragazzino timido che viene sempre pestato dai bulli. Così Christian ed Elias iniziano insieme un percorso intriso di violenza sotto gli occhi impotenti dei genitori. Come vedete, si parla di cose a noi molto vicine, attuali, sovente condivisibili.

Charlie Chaplin. Regista e attore de “Il grande dittatore” (1940)

Dato per scontato che il cinema è cultura, percezione del circostante, interpretazione di un fatto, reale o di fantasia, espressione artistica dovremmo difenderlo sempre. E difenderlo significa andare al cinema, parlarne con gli amici, consigliarne la visione.
Le immagini che producono solo stupidità non sono intrattenimento ma sono insulto. E da questo bisogna difendersi. C’è un cinema di divertimento che non è mai stato volgare o insultante. Ricordiamo Chaplin o Buster Keaton e per non parlare del muto, pensiamo a Jerry Lewis, Jaques Tatì, Louis De Funes, Benigni solo per citarne alcuni. Tutto il cinema veramente popolare è di grande valore. Mai volgare, mai banale ma pur sempre alla portata di tutti, grandi e piccini, intellettuali e ignoranti.

Bruno Bigoni