rivista anarchica
anno 40 n. 356
ottobre 2010


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Il suono del mondo

Storia di Paolo Ciarchi, tuttofonista

Paolo Ciarchi

Quell’uomo sul palco sembra la vita. Un uomo che non è mai solitario, circondato di oggetti che prendono anima.
Oggetti nati per altri scopi, ma che prendono voce attraverso la musica, che diventano suono, parola e racconto.
Io ora racconto la storia di quest’uomo, tenete però conto che mentre tento di fissarlo a dei punti, alla marea di cose fatte in campo teatrale, musicale, culturale, politico, lui sarà già un po’ più in là, altrove.
Paolo Ciarchi – meneghino convinto, abitatore dell’antico quartiere Brera – comincia come fantasista e chitarrista virtuoso: tecnica jazz, calore blues, passione popolare, fantasia dadaista, allegria iconoclasta, rigore libertario. Come chitarrista (e fantasista) si fa conoscere assai presto, neanche ventenne esordisce nel ’60, all’epoca più mitica del cabaret milanese (Franco Nebbia Club e Club ’64), condividendo con Cochi e Renato, Bruno Lauzi, Felice Andreasi, ecc. la creatività scatenata di quelle notti, prima che la televisione tritasse tale creatività e la consumasse fino all’ultimo granello di polvere, nella polvere. Quando la polvere rese roche le risate, Paolo era già altrove.
Suona la chitarra nel primo recital di Jannacci (diretto da Fo) e negli spettacoli di Milly, artista oggi un po’ dimenticata, interprete di respiro europeo. Sono gli anni in cui sta prendendo il volo la canzone d’autore italiana, in cui le canzoni cominciano ad approdare nei salotti bene, nei teatri, prendendosi – a volte un po’ pomposamente – per poesie. Ma Paolo è già altrove.
Dal ’64 collabora col Nuovo Canzoniere Italiano, diventando uno dei pilastri musicali su cui poggia il canto sociale, politico e la riproposizione del canto popolare in Italia. Prende parte a tutto (qualche volta in compagnia del fratello Alberto, anche lui chitarrista): gli spettacoli Bella ciao, Pietà l’è morta, Ci ragiono e canto, gli spettacoli collettivi e individuali di Ivan della Mea, Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli, Alberto d’Amico, Rudi Assuntino e suona in tutte (o quasi) le produzioni dell’etichetta Dischi del Sole. Di qualcuno di questi dischi disegna persino le copertine, perché – dimenticavo di dirlo – Paolo è anche grafico e pittore con quarti di nobiltà nel DNA: suo nonno è Luigi Conconi, nome importante della scapigliatura milanese. Paolo, quando non imbracciava la chitarra, studiava a Brera o al Politecnico (dove conosce Demetrio Stratos e con lui s’appassiona alle tecniche vocali dei pastori mediorientali) e disegnava copertine per Mondadori. Ma si stufa presto dei grandi nomi dell’architettura milanese e dei galleristi che decidono vita morte e miracoli dell’arte e va altrove.

Paolo Ciarchi agli esordi

Con Dario Fo

Intanto è arrivato il ’68. È arrivato anche perché tante delle provocazioni libertarie, portate da Paolo e dai suoi amici negli ambienti culturali, sono scese in strada come un contagio sociale e hanno rinnovato la pratica politica. Paolo Ciarchi fonda con Dario Fo il Collettivo teatrale Nuova Scena (poi trasformatosi ne La comune), partecipando e scrivendo le musiche di tutti gli spettacoli. (Lo diciamo così en passant queste musiche non sono mai state depositate in SIAE. Chi ha orecchie per intendere e chi ha cuore per capire sappia che non tutto si fa per i soldi!). Sono anni intensissimi, centinaia di rappresentazioni, canzoni sull’attualità: Saverio Saltarelli colpito da un candelotto fumogeno si accascia in via Larga a Milano. La sera stessa Fo e Ciarchi raccontano la sua storia in musica. Vi è un tentativo di occupazione dei senzatetto di un caseggiato in via Tibaldi (sempre Milano) che si conclude in tragedia. Il silenzio farebbe comodo al potere, ma Fo e Ciarchi fanno controinformazione con la chitarra. Sono canzoni di rivolta, canzoni rabbiose (quella sulla GAP di Giovanni Pesce oggi potrebbe passare per un inno estremista), non sono canzoni cupe. Sono canzoni vitali, tenute sul filo di una feroce ironia.

Paolo Ciarchi con Dario Fo

Poi il movimento si sfalda, gli anni diventano fangosi, tutti cominciano a ridere per nascondere una realtà cattiva. La rivoluzione forse non si può fare con la fantasia e le canzoni, ma certamente nemmeno con i killer sotto casa. Non è più il movimento in cui si può riconoscere un angelo come il Ciarchi, che infatti va altrove.
Nella seconda metà degli anni ’70 col Collettivo di musica improvvisata partecipa alla tourné teatrale di Re Nudo assieme agli Area. Ha trovato nuovi e straordinari complici musicali: Paolino dalla Porta, Riccardo Luppi, Federico Sanesi – oggi fra i migliori musicisti in attività – che gli consentono di affrancarsi dalla chitarra e cominciare un’inesausta ricerca sui suoni degli oggetti.
Tale ricerca trova la sua massima definizione nello spettacolo capolavoro di Paolo: la Microconferenza di musicologia applicata.

[scheda tecnica dello spettacolo]
– una lavatrice vecchio tipo funzionante il più rumorosa possibile
– cinquanta (50) mattoni (pieni, non forati)
– tre (o più, ma non meno di tre) taniche metalliche da olio vuote (100 cm per 50 diametro)
– un paio di pinne (per nuotare)
(per una persone con 40 di piede)
– una vasca o bacinella ovale
– un secchio in metallo o plastica
– una calcolatrice (vecchio tipo, funzionante, elettrica
non elettronica, più rumorosa possibile)
– due fornelli elettrici (2 kw) (20 cm diametro)
– due pentole a pressione (con valvola per lo sfogo
di tipo fischiante)
– molte pentole metalliche, padelle, lattine di birra vuote,
scatole di metallo di varie dimensioni)
– molti tubi metallici di differenti materiali
(plastica, ferro, cartone alluminio, ecc) lunghi da un metro a cinque metri di vari diametri da due a cinque centimetri
– da cinque a dieci barili di birra vuoti (tipo: “bier von fass”)
– un lastra di plastica trasparente 4 m per 4 m
– una tanica d’acqua da campeggio con rubinetto
[e infine… ultima cosa, proprio per non lasciarsi del tutto alle spalle il passato]
– una chitarra acustica (non elettrica) (tipo folk con corde di metallo)

Un uomo sul palco, solo e mai solitario, circondato di oggetti che prendono anima, in un delirio di saggezza e passione. Il piccolo uomo sul palco ha una complessione da fantino, cavalca gli oggetti che sono l’unica scenografia, l’unica macchina teatrale, l’unico fondale. C’è appena un fascio di luce e, per ogni dove, indistinguibili mucchi, una sorta di discarica. Lo spettacolo cui si assiste, di lì in avanti, è l’elegia per ciò che mani senza poesia butterebbero in spazzatura e che le mani di Paolo Ciarchi trasformano in musica.
Il piccolo uomo si fa avanti battendo a terra due pali della pioggia e salmodiando una sorta di nenia, un canto di lavoro che risale alle ricerche sui battipali veneziani. Il piccolo uomo arriva al centro della scena e affabula, va alla deriva, altrove, passeggia sulle parole e sui concetti: il suo parlare è già musica, ipnosi. La magia comincia dalla parola e dalla risata, in questo spettacolo si ride molto, chi ha mai detto che lo sciamano debba essere triste? Paolo Ciarchi è uno sciamano allegro che ha un talento ben più grande di quello del Re Mida: il poveretto trasformava ogni cosa in oro, Paolo Ciarchi trasforma ogni cosa in suono. Suona il mondo, rende dignità ai rottami inservibili, una padella sfondata nelle sue mani è meglio di uno Stradivari. Lo vedi suonare e capisci che sono le cose dimenticate, quelle destinate alla spazzatura, ad essere quelle che comporranno la musica di domani. Questa è musica per le mie orecchie. Questa è musica rivoluzionaria.
Il gioco non è il giocattolo e la musica non è lo strumento.
Non avendo i soldi per comprare bellissime chitarre, sassofoni dorati e trombe da miliardari mi son dovuto guardare attorno.

Queste sono le sue massime, le parole guida. Poi voce, fiato, dita, piedi, corpo, carezza, percussione rendono a ogni povero utensile, manufatto, oggetto inanimato, pianta, sedia, barattolo, rocchetto di nastro adesivo, canna, tubo, un’anima musicale. Quest’anima è come un prisma attraverso cui si vede la musica. Qui e non altrove. Si vede, perché il Ciarchi fa musica per gli occhi oltre che per le orecchie (non dimentichiamo che è anche un attore e un pittore). Ballerino scatenato, il suo corpo intero è la mano di un pianista gettata sulla grande tastiera del palco.
Altrove, quando accompagna i cantanti con i medesimi non-strumenti, sul disco o sulla scena, riesce a rendere perfettamente permeabile il suo linguaggio. Guastatore e architetto, Paolo Ciarchi è orchestra e direttore assieme. Dissonanti, demistificanti i suoi arrangiamenti si sovrappongono alla granitica fragilità della voce & chitarra del cantautore, asciugando ogni sbavatura retorica, ogni comodo e inessenziale giro dei soliti accordi, per ristabilire, con la musica perentoria degli oggetti d’ogni giorno, il trionfo della vita sull’arte, della verità sulla falsificazione, del senso sulla forma.Chi abbia mai assistito a un concerto di Paolo Pietrangeli, di Ivan della Mea, o più recentemente di Andrea Labanca, non può dimenticarselo.
Apparentemente esplosive e sconcertanti le esuberanze sonore del Ciarchi eseguono una partitura non scritta, improvvisata, ma tutt’altro che incoerente. Le parole del cantante che ha la ventura di essere accompagnato da lui, sono trasportate dalla grazia di quest’invasato che sa cosa sta facendo – caratteristica che appartiene a pochi musicisti – ma che soprattutto sa perché lo sta facendo – caratteristica che appartiene quasi solo a lui.

Paolo Ciarchi con Dario Fo

Altrove, un po’ più avanti

Cabaret, dischi, concerti… manca qualcosa? Ah, già: dagli anni ’80, per merito di Isabella Cagnardi, sua compagna di vita e avventure e valente cineasta, e di Claudio Cormio (montatore e cantante), Paolo Ciarchi affianca la collaborazione con la cinematografia indipendente a quella col teatro. È collaboratore fisso del Pier Lombardo e firma le musiche degli spettacoli di Andrée Ruth Shammah e del compianto Franco Parenti.
Rovistando negli archivi abbiamo trovato questo bel ritratto preso dal vivo, nella recensione che Tommaso Chiaretti scrisse per Repubblica, sul Barone di Munchausen portato in scena da Giancarlo Sbragia nell’84.

Il motivo di sporpresa accattivante dello spettacolo è un altro. È l’attore (lo debbo dire attore? o Arlecchino, o guitto, o maschera partenopea? O tuttofonista, come dice il programma?) Paolo Ciarchi. Il quale nella quasi dolorante e sofferente figura bastonata, compie il prodigio di essere un valletto perfidamente dedito a rendere in evocazioni e immagini consumabili il racconto del barone. Anche lui è sempre in scena o in controscena, a commentare sonoramente, ad agire: a suonare curiosi strumenti fantastici che tutti si rifanno alla sega metallica che il girovago suona in strada come un violino, o al tubo di plastica che ruota, a una divertente idea di acque ribollenti. (…) Corre qua e là il Ciarchi a costruire e suonare strumenti musicali astratti, corre come un devoto servitore incapace di non strafare, corre a gonfia camere d’aria, a sdraiarsi nelle casse del prestigiatore che sega l’uomo in due, corre a fingere il mare nella tinozza. (…) Ciarchi si assume, con garbo e con voluttà, la parte del “delirio”: che è un delirio fatto di cose tutte usuali e riconoscibili, tutte cose del nostro vivere d’ogni giorno, che non possono e non debbono assumere un valore surreale, ma semmai iperreale.
E con tutto questo vi chiederete perché a un tale monumento nazionale non sono dedicate monografie, esposizioni e prime pagine?
In realtà ha avuto il Ciarchi anche un periodo televisivo, fortunatamente breve (dico fortunatamente per me, che sono un noioso assolutista! Non per il grande pubblico che non ha potuto goderne di più).
Poi lo hanno mandato altrove: troppo ingovernabile, troppo libero, troppo politico…
E così la passione – impegni permettendo – lo porta tutt’oggi a partecipare a ogni movimento culturale e politico, a ogni nuova occupazione di spazio che viene aperto e liberato alla fantasia, ad ogni agire dell’intelligenza in questo disgraziato paese, in questa livida città di Milano. Trascinato un po’ da noi, allievi di tale maestro d’arte e di vita, e un po’ da Isabella, cineasta e moglie, anima concreta di pasionaria, straordinario archivio vivente del movimento milanese, presente nelle manifestazioni, negli spazi sociali, nei cortei da lei filmati.
Meno male che il Ciarchi non l’ha rapito la televisione o non ce lo hanno preso gli americani, perché se no lo avrebbero già messo in un museo, per la sua storia, per la sua genialità, per la sua unicità. È invece Ciarchi in un museo non ci può stare, lui sta sempre altrove, un po’ più avanti. Attaccati al muro per la paura di cadere ci stiamo noi che lo guardiamo, trattenendo il riso e il pianto, come tanti quadri della Gioconda, mentre lui corre, di sala in sala, a farci i baffi.

Alessio Lega
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