rivista anarchica
anno 40 n. 355
estate 2010


La mia anarchia
di Pietro Gori

Lo stato, il capitalismo, la religione, la guerra, gli anarchici, l’emancipazione della donna, libertà ed eguaglianza, la società futura. Su questi temi così la pensava oltre un secolo fa “il poeta dell’anarchia”.

 

Lo Stato

Lo Stato, il potere esecutivo, quello giudiziario, l’amministrativo, e tutte le ruote grandi e piccole di questo mastodontico meccanismo autoritario, che le anime deboli credono indispensabile, non fanno che comprimere, soffocare, schiacciare ogni libera iniziativa, ogni spontaneo aggruppamento di forze e volontà, impedire insomma l’ordine naturale che risulterebbe dal libero giuoco delle energie sociali, per mantenere l’ordine artificiale – disordine in sostanza – della gerarchia autoritaria assoggettata al loro continuo e vigile controllo. Ben definisce lo Stato Giovanni Bovio: «...oppressura dentro e guerra fuori. Sotto specie di essere l’organo della sicurezza pubblica è, per necessità, spogliatore e violento; e col pretesto di custodire la pace tra’ cittadini e tra le parti, è provocatore di guerre vicine e lontane. Chiama bontà l’obbedienza, ordine il silenzio, espansione l’eccidio, civiltà la simulazione. Esso è, come le Chiese, figlio della comune ignoranza e della debolezza de’ più. Agli uomini adulti si manifesta qual’è: il nemico maggiore dell’uomo dalla nascita alla morte. Qualunque danno possa agli uomini derivare dall’anarchia, sarà sempre minore del peso dello Stato sul collo ».

P. Gori, Ricordi,
Milano, Casa editrice sociale, 1910
(Archivio fotogr. Biblioteca F. Serantini – Pisa)

I governanti fanno credere, e il pregiudizio è antico, che il governo sia strumento di civiltà e di progresso per un popolo. Ma, per chi bene osservi, la verità invece è che tutto il movimento in avanti dell’umanità è dovuto allo sforzo dei singoli individui, della iniziativa anonima delle folle, dell’azione diretta del popolo. Il mondo ha camminato sempre fin qui non con l’aiuto dei governi, ma loro malgrado, e trovando in essi l’ostacolo continuo diretto ed indiretto al suo fatale andare. Quante volte i più gloriosi rinnovatori nella scienza, nell’arte, nella politica non si trovarono sbarrato il cammino, oltre che dai pregiudizi e dall’ignoranza delle masse, anche e soprattutto dai bavagli e dalle persecuzioni governative?
Quando il potere legislativo ed il governo accettano e soddisfano sotto forma di legge o di decreto qualche nuova domanda sorta dalla coscienza pubblica, – ciò è sempre in seguito a reclami innumerevoli, ad agitazioni straordinarie, a sacrifici non indifferenti del popolo. E quando i governanti si sono decisi a dire di sì, a riconoscere un diritto nei loro sudditi, e, mutilato ed irriconoscibile, lo promulgano nelle carte, nei codici, quasi sempre quel diritto è già sorpassato, l’idea è già vecchia, il bisogno pubblico di quella tal cosa non è più sentito; e la nuova legge serve allora a reprimere altri bisogni più urgenti che si affacciano, che devono attendere di essere sterilizzati, ipertrofici, prima di essere riconosciuti da una legge successiva.
Chi ha studiato e osservato con passione i parti curiosi e bizzarri del genio legislativo, le leggi passate e le presenti, resta sorpreso dalla frode sottile che riesce a gabellare per diritto il privilegio, per ordine il brigantaggio collettivo, per eroismo il fratricidio della guerra, per ragione di stato la conculcazione dei diritti e degli interessi popolari, per protezione degli onesti la vendetta giudiziaria contro i delinquenti, che, come dice Quételet, non sono che gli strumenti e le vittime nel tempo stesso delle mostruosità sociali.
Ora, noi, che tutti questi mali, causa ed effetto insieme di tanta infamia e di tanti dolori, vogliamo combattere per abbattere tutto ciò che ostacola il trionfo della giustizia, noi siamo chiamati fautori del disordine.
Certo, proprietà, stato, famiglia, religione sono istituzioni di cui alcune meritano il piccone demolitore, altre aspettano il soffio purificatore che le faccia rivivere sotto altra forma più logica ed umana. Ma ciò potrà dirsi sul serio passaggio dell’ordine al disordine? E chi non desidererebbe allora, se si desse un così contrario significato alle parole, il trionfo del disordine?
Ma se le parole conservano il loro significato, non gli anarchici possono essere chiamati amici del disordine, e ciò neppure se lo si vuol considerare dal solo punto di vista di rivoluzionari. In questo periodo storico di sfacimento e di transizione, fra una società che muore ed una che nasce, gli odierni rivoluzionari sono veri elementi di ordine. Essi hanno negli occhi fosforescenti la visione delle idealità sublimi che fanno palpitare il cuore dell’umanità, che l’avviano sull’infinito ascendente cammino della storia.
Dopo il rombo del tuono, torna sul capo degli uomini il bel cielo luminoso e sereno; dopo la vasta tempesta che purifichi l’aere, pestifero, questi militi dell’avvenire sognano le primavere fulgenti della famiglia umana, soddisfatta nella uguaglianza, e ingentilita dalla solidarietà e dalla pace dei cuori.

(Estratto da: Il vostro ordine e il nostro disordine, conferenza tenuta il 15 marzo 1896 alla “Bersaglieri Hall” di S. Francisco California – USA –, 2. ed., Roma-Firenze, F. Serantoni, 1905)

P. Gori, Ensayos y conferencias,
México D.F., Vertice, 1947
(Archivio fotografico
Biblioteca F. Serantini – Pisa)

Il capitalismo

E come adunque il proprietario ha cominciato a diventare ricco? Ha avuto forse questa ricchezza in eredità da suo padre, dal suo nonno, seppure non l’ha ricevuta per mezzo di qualche intrigo vergognoso o di qualche inganno; ma in ogni modo quelli che a lui trasmisero questa eredità, come è che divennero ricchi? Voi sapete già che col lavoro continuo, accasciante di generazione in generazione, le vostre famiglie non furono mai ricche. Dunque questi proprietari non accumularono per avventura la ricchezza col lavoro proprio; ma bensì sfruttando il lavoro degli altri.
Ed ecco come forse, cominciando dai pochi operai che ebbero da principio, tolsero a ciascuno di essi sul salario una parte e non la più piccola; ciascuno operaio producendo 5, 4 andarono nella tasca del padrone e all’operaio restò solamente 1; è questa la proporzione più o meno esatta fra il salario ed il costo dell’intera produzione. Così anche avendo sotto di sé due soli operai, il padrone togliendo a ciascheduno d’essi 4, ebbe in totale 8, cioè quanto avrebbero di salario 8 operai insieme; così cominciò la ricchezza del proprietario a innalzarsi sulla miseria dell’operaio; con questa progressione fatale, che più quello arricchiva, più questo diveniva miserabile, per leggi inevitabili della concorrenza vedendosi continuamente scemato il salario.
Così la ricchezza dell’uno e la miseria dell’altro andarono mano a mano aumentando; e il proprietario divenne ricco, sfruttando giornalmente l’operaio, con un furto continuo e progressivo sul salario di lui.
Dunque solamente coll’inganno, colla frode e col furto mascherato, cominciò la ricchezza dei proprietari. E pel furto quotidiano degli sfruttatori sul lavoro degli operai sfruttati, ebbe origine la cosiddetta proprietà individuale.
Per questa proprietà individuale la terra, che la natura, questa gran madre di tutte le cose, aveva dato a tutti gli uomini indistintamente, venne divisa solo fra pochi, i ricchi, i quali costrinsero l’operaio a lavorare anche per loro che non facevano nulla, se pure volevano vivere: e l’operaio piegò il collo e lavorò, ed accettò vilmente, quasi come un dono, quanto ai ricchi piacque dargli per non lasciarlo morire di fame. Dico per non lasciarlo morire di fame, perché i ricchi considerano i poveri come una macchina e nulla più; e solo perché questa macchina era loro utile e affinché essa non si distruggesse, e terminasse così la vita beatamente oziosa, che essi menavano, i proprietari, i borghesi, i ricchi lasciarono che il popolo, stentando e spegnendosi di fame a poco a poco, divenisse più sottomesso; perché se la terra avesse prodotto da sé la mésse ed i frutti, e le macchine avessero potuto lavorare senza bisogno del braccio dell’operaio, i ricchi forse lo avrebbero fatto morire di fame acuta, per restare meglio padroni del mondo.

(Estratto da: Pensieri ribelli: appunti, Pisa, Tip. Folchetto, 1889)

P. Gori, Ideali e battaglie,
Roma-Firenze, F. Serantoni, 1905
(Archivio fotografico
Biblioteca F. Serantini – Pisa)

La religione

Ma, poiché dicono che vogliamo distruggere la religione, ragioniamo un po’, e vediamo se la negazione nostra idea è irrazionale oppure confortata dalla logica, dall’esperienza, dalla scienza e dalle ragioni della vita.
Innanzi tutto sarà bene chiedere di quale religione si parli. Ce ne sono tante a questo mondo. Forse di quella che promette il paradiso cristiano e minaccia, bambinescamente, le fiamme dell’inferno, (come ai bimbi buoni o cattivi si promette lo zuccherino o lo scapaccione) e che fa consistere tutto lo stimolo alle opere buone nella speranza usuraia o nella paura infantile di godere o di soffrire... nell’altra vita! O invece si vuol parlare della religione di Maometto che promette ai suoi fedeli la gioia pagana delle hourri giovani e belle, fatte intravedere voluttuosamente dietro il fumo dell’oppio? O non piuttosto di quella di Confucio o di Budda, o di qualsiasi altra che abbia ottenebrata lungo i secoli e ottenebri ancora ed ingombri le menti umane?... Di quale fra tutte queste s’intende parlare – dappoichè i preti di ognuna sostengono che la religione vera è la loro?
Naturalmente, a seconda che noi fossimo in Turchia, nelle Indie, o nella Cina, ciascuna di queste religioni per bocca dei suoi preti ci muoverebbe aspra l’accusa di miscredenza. E noi potremmo, dovunque, ribattere l’accusa e confondere gli accusatori con una quantità di argomenti speciali che qui è inutile enumerare.
Ma, poiché siamo nati e viviamo in paesi ove predomina la religione cristiana, e coloro che più si scagliano contro di noi sono i fanatici e i mercanti del cristianesimo e del cattolicesimo in specie, noi possiamo dispensarci dal cercare troppo a lungo gli argomenti poiché migliori sono gli stessi sacerdoti della religione cristiana che ce li forniscono; sono essi che hanno dato i più tremendi colpi di distruzione alla propria fede. Dal momento che il discendente di Pietro pescatore dimenticò la umiltà originaria del Cristianesimo, – religione dei poveri e per i poveri, – dal momento che i principi della Chiesa invece di cilicio, di spine e di un ruvido manto, si coprirono di bisso, di porpora, di gemme come tutti gli altri potenti della terra; dal momento che le indulgenze, i passaporti per il paradiso, le amnistie parziali o totali del purgatorio poterono comprarsi come una merce qualunque o come un favore da impiegati e ministri corrotti; quando insomma la religione di Cristo cessò di essere apostolato e divenne ciarlataneria da cerretani e la chiesa si tramutò, fine naturale di tutte le chiese, in bottega di anime e di coscienze, – fin da allora l’illusione del misticismo cristiano cominciò a rivelarsi menzogna, come un vile metallo d’oro che con l’uso perde la sua apparenza e non inganna più l’occhio del villano che fino a ieri l’avrebbe creduto oro di coppella.
Il dogma cattolico, una volta prese decisamente le parti dei grandi contro gli umili ed i miseri, tanto cari a Gesù, si rivelò ognora più, quale per la sua stessa essenza doveva divenire, nemico della scienza e della libertà. È questa tendenza invincibile di ogni religione verso il bigottismo e fanatismo cieco da un lato e l’asservimento ai potenti ed ai padroni contro i sudditi ed i servi dall’altro, che costituì e costituisce tuttora il germe di dissoluzione anche del cristianesimo, questa fede ormai troppo vecchia.
Noi la trasciniamo, questa fede, come una palla al piede la quale ci impedisce di camminare spediti verso la mèta nostra della liberazione integrale. Sarebbe ora che questa cosa morta, e pur gravante con tutto il suo peso in cima alla catena di schiavitù che andiamo trascinando, noi la staccassimo una buona volta e ce la togliessimo dai piedi.

(Estratto da: Scienza e religione, Conferenza tenuta il 14 luglio 1896 a Paterson negli Stati Uniti d’America, 2. ed., Roma ; Firenze, F. Serantoni, 1904)

 

La guerra

La guerra oggi ha perduto parecchio del suo carattere primitivo; ora la guerra, secondo i suoi apologisti, non è più selvaggia come una volta, perché è diventata... scientifica.
Quale cinismo! quale profanazione d’una sacra parola! la guerra scientifica, e cioè, le doti dell’ingegno, le notti insonni dello studioso dedicate al problema della distruzione. Scienza in questo caso è sinonimo di maledizione.
Ma servitevene, o uomini, della scienza, di questa benefica Dea, per strappare i suoi segreti alla natura, per dar vita alle macchine, la forza al carbone, per rendere l’elettricità produttrice di ricchezza, – ristorare i tendini rilassati delle pecchie umane nella fatica del lavoro quotidiano; servitevene per tagliare le montagne, per irrigare le valli, per rendere l’aria salubre, per allacciare fra di loro i popoli e stringerli in un patto fraterno di solidarietà e di collaborazione, affinché procedano insieme alla conquista del progresso e della felicità.
Fate della scienza uno strumento di civiltà, – non di distruzione e di morte!
La guerra moderna, abbiamo detto, è cinica.
Infatti, la guerra scientifica, per cui si possono recidere a migliaia di metri di distanza migliaia di uomini che non si conoscono, ha perduto anche la forma del culto primitivo della forza e della destrezza nelle armi, che si aveva nella Grecia antica.
Gli Agamennone, gli Achille, gli Ettore, gli Enea non sono più possibili ora, coi fucili a ripetizione, colle palle dum dum, colla dinamite e colla melenite, con tutte quelle sostanze esplodenti insomma, che han la desinenza molto simile a quella di altri malanni dell’umanità (la bronchite, la polmonite, la pleurite, ecc.). Oggi giorno è Moltke [maresciallo prussiano] che trionfa, disponendo serenamente nella carta topografica le bandierine rosse, per studiare più facilmente a tavolino le mosse del nemico ed i felici attacchi dei suoi.
Ma se un grande occhio pensoso si affacciasse domani, durante una guerra, alla volta del cielo per assistere alla tragedia umana, a vedere le giovani vite mietute come spighe d’oro dalla immensa falce inesorabile, e le armi da fuoco vomitanti la morte, – inconsapevoli esse non meno di coloro che le caricano, – se quest’occhio pensoso vedesse i cadaveri ammucchiati, orribilmente mutilati, gli uni sugli altri, e il sangue scorrere a rivi, senza una lacrima, e senza un rimorso da parte di chi n’è la cagione, verrebbe fatto a quel grande occhio pensoso di domandarsi se non sia un destino cieco, inesorabile, che condanna gli uomini dalla loro origine a un mutuo macello, o non piuttosto una grande sciagurata follia che soggioga il genere umano e pervade la storia e ne trionfa.

(Estratto da: Guerra alla guerra! Conferenza tenuta il 18 ottobre 1903 nel Politeama Alfieri in Genova, 2. ed., Firenze, Roma, F. Serantoni, 1904)

P. Gori, Las bases morales y sociológica
de la anarquía
, Barcelona, Biblioteca de
“Salud y Fuerza”, 1907
(Archivio fotografico
Biblioteca F. Serantini – Pisa)

Gli anarchici

Chi sono i socialisti anarchici? – Se voi rivolgete la domanda a un poliziotto, costui vi risponderà senza esitare: «Gli anarchici sono dei malfattori». E le sentenze dei magistrati indipendenti daranno loro ragione. Se lo domandate ai padroni che pur vivono alle spalle di voi lavoratori, senza lavorare, costoro risponderanno che gli anarchici sono degli scansa fatiche, della gente che non ha voglia di lavorare! Se lo domandate infine agli uomini serii e pratici vi diranno, con uno sforzo di benevolenza, che gli anarchici sono matti da legare.
E i governi, monarchici o repubblicani, danno ragione a codesta gente, e mandano i socialisti-anarchici a popolare le prigioni, le galere, ed a insanguinare i patiboli. Che importa?
Chiunque è interessato a difendere privilegi e sinecure non può esser giudice imparziale di uomini, che hanno per grido di guerra l’abolizione di ogni privilegio e di ogni forma di sfruttamento.
Ma voi, o lavoratori, che siete le vittime, i martiri ignoti di tutto un sistema sociale a base di ladrocinio, di frode, e di menzogna, voi farete giustizia delle stolide accuse, che il volgo dorato dei soddisfatti e degli ambiziosi ci lancia da tergo.
Gli anarchici sono, o lavoratori, uomini di popolo come voi; soffrono quello che voi soffrite: le dure catene di un lavoro esauriente, mal retribuito, e spregiato dagli oziosi gaudenti. Come voi essi hanno ricevuto, in compenso di tante fatiche, dai loro padri, pur lavoratori, la povertà, unico e triste retaggio. Come voi lasceranno ai figli propri, lavoratori essi pure, il frutto lagrimoso d’una affaticata esistenza, il pesante fardello della miseria.
Voi sapete, ormai, che, anzi tutto, i socialisti anarchici vogliono l’uguaglianza, ma la uguaglianza vera, non quella bugiardamente proclamata dalle leggi e brutalmente smentita dalla realtà dei fatti sociali. Ma come è possibile l’uguaglianza in una società in cui pochi sono i possidenti, ed i più nulla possiedono di modo che questi ultimi, costretti dal bisogno, devono vendere le braccia ai proprietari della terra, delle macchine e degli strumenti di lavoro? La uguaglianza sociale dunque non sarà possibile se non allorquando tutti gli uomini saranno in possesso delle terre, delle macchine e di tutte le altre fonti della ricchezza, e fino a che codesta ricchezza, che è il prodotto del lavoro di tutti non sarà posta in comune a tutti.
Questo è il comunismo. Dalla comunanza dei beni materiali cioè degli strumenti di produzione e della produzione stessa si svilupperà l’armonia degli interessi dell’individuo con quelli della collettività, secondo il principio tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, in contrapposto alla egoistica morale borghese del ciascuno per sé. Dalla associazione dei beni e delle forze di tutti deriverà l’associazione dei cuori e si svilupperà spontaneamente un alto e diffuso senso di solidarietà e di fratellanza sconosciuto affatto alla società borghese dilaniata dalla più feroce antropofagia legale e da un’implacabile guerra civile, che avvelena e strazia questa sedicente e moribonda civiltà fin de siècle.
In questa pura atmosfera, in luogo della famiglia chiusa, egoistica dell’oggi, crescerà serena e felice, la grande famiglia eguali e dei liberi, la famiglia di cui sarà membro ugualmente amato ogni uomo, ogni cittadino del mondo; e le nuove generazioni cresceranno rigogliose ed affratellate, non come oggi frutto tisicuccio e malsano di freddi amplessi, di calcolati ed interessati contratti matrimoniali; non più come oggi prodotto anemico ed epilettico di tristi amori e di prostituzioni più o meno legali. Scomparso con la proprietà individuale ogni istinto di basso interesse personale l’accoppiamento di un uomo e di una donna non sarà più un affare nel senso moderno e mercantile della parola. L’unione libera sulle solide basi dell’amore e della simpatia: ecco l’unico logico vincolo sessuale, ecco la famiglia dell’avvenire, senza la menzogna convenzionale del giuramento civile in faccia al sindaco, o di quello religioso in faccia al prete…
E il prete? Cominciate a combattere il prete, strillano gli anticlericali, ed avrete emancipato l’umanità…
Oh, il prete, gli anarchici rispondono, scomparirà con l’ignoranza e con l’abbrutimento dei più; e col prete scompariranno tutte le menzogne religiose fugate dal raggio vivificatore della scienza. Intanto il prete lo combattiamo anche noi, molto meglio degli eterni sbandieratori di professione nei cortei commemorativi e funebri, e lo combattiamo additandolo sopratutto a voi, lavoratori, come l’eterno alleato dei vostri oppressori e sfruttatori, e cercando sfatare al lume della ragione innanzi tutto l’impostura del soprannaturale.
Ma, prima d’ogni altra cosa, rivendichiamo per tutti il nutrimento allo stomaco – giacché la grande questione vitale è pur troppo una prosaica questione di ventre, o politicanti... a ventre pieno, e poi nutrimento al cervello ed al cuore (se è permessa la metafora), largo nutrimento di scienza e di affetti – istruzione ed educazione; rivendicazioni codeste delle più alte facoltà dell’essere umano.
Ma sopra tutto, innanzi tutto, libertà! Non libertà mutilata, resa irriconoscibile da quella carta stampata, che porta il nome di legge; non libertà amministrata dagli scherani di qualunque codice più o meno plebiscitario, sieno essi democratici, repubblicani o socialisti, – ma libertà esercitata integralmente da ogni individuo, fusione di tutte le attività, e di tutte le iniziative liberamente e per tendenze naturali associate, per il benessere di tutti.
Tu dirai, o popolo, che noi possiamo ingannarci, quando affermiamo che l’avvenire è la gran pace, la vera uguaglianza, la infinita fratellanza fra tutti gli uomini della terra.
Potremmo forse ingannarci; non ingannarti. Quale lo scopo sarebbe? quale l’interesse? Tu lo vedi a qual sorte riserba noi anarchici l’ardita parola di guerra che gettammo in faccia alla camorra mondiale dei padroni e dei governi coalizzati ai tuoi danni.
Non c’è grazia, non c’è quartiere per noi. E noi grazia, né quartiere mai domandammo. Di contro alle forche repubblicane su cui nel 1887 il democratico governo degli Stati Uniti impiccava quattro eroici nostri, che commisero l’orrendo delitto di dire ad alta voce la verità in faccia ai dissanguatori delle plebi operose, sorsero nella Spagna monarchica e cattolica gli strumenti crudeli della garrota, e lì presso, nella Francia repubblicanissima, si sono fatte apposite leggi per colpire i nemici implacabili dell’ingiustizie e della bancocrazia. L’un governo equivale l’altro; tutti i governi sono contro di noi – e noi contro tutti i governi, contro tutte le oppressioni contro tutte le tirannidi. Noi soli siamo votati a tutti i sacrifici per rivendicare agli uomini la uguaglianza vera nel comunismo, con la soppressione d’ogni sfruttamento dell’uomo sul l’uomo, con l’abolizione della proprietà individuale; noi soli vogliamo l’emancipazione completa della personalità umana, dal giogo opprimente d’ogni autorità politica, civile, militare e religiosa – noi soli vagheggiamo per il genere umano la libertà integrale, la libertà delle libertà: l’Anarchia.

(Estratto da: Socialismo legalitario e socialismo anarchico, conferenza tenuta in Milano al Consolato operaio il 4 aprile 1892, 2. ed., Roma, Casa editrice libraria “Il Pensiero”, 1906)

P. Gori, La donna e la famiglia,
Roma, Il Pensiero, 1906
(Archivio fotografico
Biblioteca F. Serantini – Pisa)

L’emancipazione della donna

Come gli operai subiscono la tirannia economica della classe capitalista, così le donne, – negli usi e nelle leggi, – sono asservite alla tirannia del sesso maschile. La liberazione degli uni dal giogo economico e quella delle altre dal giogo sessuale, non può essere l’effetto che dello sforzo collettivo di tutti i calpestati della società. Come l’emancipazione dei lavoratori non può essere opera che dei lavoratori stessi, secondo il dettame dell’Internazionale, così l’emancipazione della donna sarà sempre vacua affermazione verbale se ad essa non porrà mano la donna medesima. E poiché le rivendicazioni femminili sono per mille ragioni e cagioni collegate alle rivendicazioni operaie, e d’altra parte il diritto operaio non avrà la sua vittoria se la donna se ne starà neghittosa fuori dalla lotta, perciò i lavoratori hanno l’interesse e il dovere di non trascurare il problema femminile ch’è parte integrante della vasta questione sociale, e le donne hanno l’interesse e il dovere di preoccuparsi con intelletto d’amore della questione sociale, staccato dalla quale il femminismo sarebbe vana accademia di poche pettegole ambiziose.
Ecco perché parlando della donna e della famiglia, io mi rivolgo contemporaneamente a voi, donne che mi ascoltate, e a voi operai, compagni miei di lotta e avversari più o meno affini a noi per idee.
C’è questo errore, minaccioso di gravi effetti, anche in mezzo alla falange dei combattenti le battaglie dell’avvenire. Da un lato gli operai, anche intellettualmente emancipati, prendendo troppo alla lettera la teoria del materialismo storico, secondo cui non si dovrebbe tener conto che del fattore economico nella valutazione dei fatti sociali e nel movimento di rinnovazione umana, non si preoccupano di emancipare la propria donna e le donne che vivono la sua stessa vita, nella sua stessa classe. Bisogna essere proprio ciechi per non capire che la donna costituisce nel mondo la metà e più del genere umano, e che fino a quando la lasceranno sotto l’influenza del prete e nella sottomissione di ogni prepotenza, essa sarà per noi e per l’umanità in cammino, come una palla di piombo al piede che le impedirà di camminare spedita. Né, molti, si limitano a trascurare la donna; vanno anche più in là… C’è e non bisogna negarlo, chi pensa ancora che un po’ di religione per la donna ci vuole; c’è chi impedisce alla donna di occuparsi delle questioni più urgenti di rivendicazione sociale. Quante volte mi è succeduto di sentire qualche repubblicano o socialista dire alla propria donna nel bel mezzo di una discussione: «Senti, cara, tu va nell’altra stanza; queste cose che non ti interessano», – e quindi, rivolto a me e agli altri convenuti aggiungere: «La politica non è cosa per le donne!».
Ora, se per politica s’intende l’arte malvagia di governare e governare, siamo d’accordo. Ci mancherebbe altro che la donna dovesse mescolarsi a questa cosa turpe che è la vita parlamentare e governativa, in cui tutto ciò che v’è di buono nell’anima umana viene soffocato e capovolto! Ma noi pensiamo che non solo bisogna tener lontano da questa specie di politica le donne, ma anche gli uomini. E gli anarchici infatti ne stanno lontani. Però, se per politica s’intende l’occuparsi della vita pubblica, l’interessarsi delle questioni più ardenti della vita sociale, il prender parte al movimento di elevazione economica e morale di sé, della propria classe e del proprio sesso, ebbene questa è sana politica che tutte le donne dovrebbero e potrebbero fare, senza per ciò perder nulla della loro grazia innata e delle loro attrattive, – che ne sarebbero anzi aumentate.
Allo stesso modo molte donne, che pure si occupano di questa benedetta politica, sono giunte a farsi di questa il falso concetto che appunto noi or ora abbiamo deplorato; e danno la massima importanza al fatto di diventare elettrici od elette e di mescolarsi anch’esse alle lotte poco decorose del potere. Invece di pensare a emancipare sé e gli altri dalle varie forme di schiavitù e di oppressione, desiderano solo il potere alla loro volta anch’esse partecipare all’opera di oppressione e di schiavitù esercitata dai governi e dai parlamenti.
Queste preoccupazioni poco degne della loro bontà e gentilezza le porta a concepire il movimento di elevazione ed emancipazione della donna, come una cosa separata da tutte le altre questioni sociali, e separata anzitutto dal problema operaio; mentre la verità è tutto l’opposto, perché come ben dimostrò il Bebel nel suo magistrale libro sulla Donna e il socialismo, la donna non avrà la sua vera emancipazione se non quando sarà sparito il privilegio economico e cioè finché l’operaio non sarà anche lui emancipato dalla oppressione economica – essendo in gran parte la condizione attuale della donna una risultante della cattiva organizzazione economica della società.

(Estratto da: La donna e la famiglia. Conferenza tenuta a Buenos Aires il 25 novembre 1900 nel Teatro Iris, Roma, Casa editrice libraria “Il Pensiero”, 1906)

 

Libertà ed eguaglianza

Accennammo già, in precedenti pagine, alle basi sociologiche su cui si fonda la dottrina anarchica; e vedemmo come solo a patto d’un profondo cambiamento della società nei suoi rapporti economici, può essere possibile uno stato di cose che garantisca all’uomo l’integrale libertà voluta dagli anarchici, per cui non sia possibile la sopraffazione e la violenza organizzata a governo e a milizia, come oggigiorno.
La soluzione anarchica del problema della libertà presuppone una soluzione socialista del problema della proprietà. Ecco perché gli anarchici sono socialisti, – allo stesso modo che tutti i socialisti dovrebbero essere anarchici, perché non vi sarà uguaglianza vera se non allorché gli individui potranno liberamente disporre di sé, senza doverne rendere conto ad alcuno.
Io, che pur mi sento intimamente anarchico, sono socialista, e ciò fino da quando (ed ero giovinetto) compresi, che il moderno accentramento industriale, coi suoi sistemi di produzione, spogliando i più e socializzando il lavoro, contiene al tempo stesso e la spinta alla rivendicazione d’ogni ricchezza alla intera società, e le linee embrionali del futuro ordinamento economico. Questa, in me come in altri, convinzione socialista non può essere che il risultato di sentimenti e ragionamenti combinati. La prima ribellione contro le iniquità sociali è quella impulsiva del cuore o del bisogno; poi viene la logica austera e fredda, che risalendo alle cause profonde degli avvenimenti umani, critica, demolisce e combatte serenamente – senza odio e senza paura. Non è dogma prestabilito, questa fede nell’avvenire dell’umanità; non è teorema arido né ruminazione sterile di formule algebriche. È poesia e scienza ad un tempo. È certezza matematica, che ha la sua genesi nel cuore, e la sua vitalità nel cervello, e che, sfidando ogni ironia ed ogni persecuzione, si riaffaccia alla lotta come la più alta trasfigurazione del sentimento.
Il socialismo, nella sua applicazione integrale, quale gli anarchici soli ne fanno, conduce al comunismo scientifico; e sarà un ordinamento economico, nel quale l’armonia dell’interesse di ciascuno con l’interesse di tutti risolverà il sanguinoso dissidio tra i diritti dell’individuo e quelli della specie. Ma nel socialismo, che è la base economica della futura società, devono essere praticamente conciliati i due grandi principi della uguaglianza e della libertà. Donde l’ardito e sì mal compreso concetto dell’anarchia: libertà delle libertà. Essa non sarà che il coronamento politico necessario del socialismo, domani – come oggi ne è la corrente schiettamente libertaria. L’anarchia non è, come il socialismo autoritario, l’umanità che soffoca l’uomo. Non è, come il disordine borghese, l’uomo che calpesta l’umanità. Ma riassume l’ideale d’uno spontaneo accordo delle volontà e delle sovranità individuali nel godimento del benessere, creato dal lavoro di tutti. Senza sfruttamento: ecco la idealità economica; senza coazione: ecco l’idealità politica del socialismo vero.
Lungi, dunque, dall’essere contradditori, i due termini, – socialismo e anarchia, – si integrano e si completano a vicenda. Applicate la critica e i postulati scientifici del socialismo in politica, ed avrete la conclusione più libertaria che immaginar si possa; e viceversa rivolgete all’economia borghese la critica che i nemici dello Stato fanno alle istituzioni politiche attuali, e giungerete per altra via al riconoscimento della dottrina socialista.
Il socialismo significa ricchezza socializzata (non divisa e spartita, come ironicamente si suol dire dal volgo, dorato o no); e l’anarchia significa libera associazione delle sovranità individuali, senza potere centrale e senza coercizione.
Immaginate una società in cui tutti i cittadini, liberamente federati in gruppi, associazioni, corporazioni di professione, arte o mestiere, sieno comproprietari di tutto: terre, miniere, opifici, case, macchine, strumenti di lavoro, mezzi di scambio e di produzione; – immaginate che tutti codesti uomini, associati da una evidente armonia di interessi, amministrino socialmente, senza governanti, la cosa pubblica, godendo in comune dei vantaggi, ed in comune lavorando ad aumentare il benessere collettivo, – ed avrete l’anarchia ideale. È utopia? Chi è che, conoscendo anche superficialmente la storia delle grandi utopie umane, potrebbe affermarlo?
Che il socialismo così detto scientifico (lo hanno i suoi dottori modestamente così battezzato da sé) sia un altro paio di maniche è indubitato. Ma se i socialdemocratici si affrettano, come Ferri nel suo Socialismo e Scienza positiva, a respingere ogni solidarietà, anche ideale, coi perseguitati dell’oggi, e contestano ad essi il diritto di dirsi socialisti, dimenticano o ignorano che il movimento socialista popolare in tutta l’Europa latina è stato in principio, e in alcune parti si mantiene ancora, schiettamente anarchico.
Giacché, teoricamente – come concludevo altrove – dalla critica economica del socialismo (accettate le premesse), si deve giungere logicamente alle conclusioni matematiche dell’anarchia.

(Estratto da: La questione sociale e gli anarchici, in P. Gori, Scritti scelti, vol. 1, Cesena, L’Antistato, 1968, pp. 74-76.)

 

La società futura

Così, se non possiamo con esattezza dire quale come sarà la forma della società futura, non ostante, si può affermare (sulla guida dell’esperienza storica) che l’attuale ordinamento a base capitalista dovrà cedere il posto ad un ordinamento più ampio, che sia in armonia con le nuove necessità collettive, e risponda meglio alla profonda rivoluzione avvenuta, nel secolo XIX, in tutti i mezzi di produzione.
Si può credere nel materialismo storico di Marx e nella conseguente teoria catastrofica derivante dalla concentrazione dei capitali in poche mani e dalla proletarizzazione – mi si permetta la parola – della gran massa della società; si può fidare nell’opportunismo riformista che spera ottenere una trasformazione per mezzo di graduali concessioni della classe dominante; oppure si può pensare che con la forza delle idee appoggiata da quella dei fatti, il proletariato agguerrito nelle sue associazioni possa da sé rivendicare collettivamente tutto quanto il suo lavoro creò attraverso i secoli.
Ma indubbiamente i lavoratori, che sono la immensa maggioranza della società, in un modo o nell’altro a questo vogliono giungere ed hanno interesse di giungere, – e per tale via da gran tempo si sono incamminati, – ad una più equa e soddisfacente distribuzione fra tutti dei beni che furono da essi prodotti. Che tale trasformazione si effettui sotto una forma od un’altra – come dicono i socialisti autoritari oppure gli anarchici, è però in ogni modo indubitabile che la trasformazione avverrà.
Se la evoluzione sociale procede d’accordo con le sue leggi naturali, logicamente la reazione storica che si presenta come inevitabile di fronte alla concentrazione capitalista, che crea la grande usura industriale sul lavoro e la conseguente schiavitù economica dell’operaio sotto la forma del salariato, è il socialismo.
Però vano ed assurdo sarebbe indagare e prevedere in questo articolo in quale delle sue forme e scuole il socialismo trionferà. Che abbia la prevalenza la forma autoritaria o la libertaria, con base comunista o collettivista, quasi certo nella nuova società, almeno per molto tempo, permarranno parecchi residui degli organismi passati; di qui la probabile multiforme fisonomia della società umana all’indomani della scomparsa del regime capitalista.

(Estratto da: Come sarà la società futura? in P. Gori, Scritti scelti, vol. 1, Cesena, L’Antistato, 1968, pp. 82-83)

Pietro Gori