rivista anarchica
anno 40 n. 354
giugno 2010


Abruzzo

Per una pedagogia della ricostruzione sociale
di Edoardo Puglielli

Le problematiche scolastiche alla luce e nel contesto delle conseguenze del terremoto del 6 aprile 2009 e della successiva gestione dell’emergenza e della ricostruzione.

 

Premessa
L’educazione è il compito più importante per l’integrità di una comunità umana o di una unità sociale, l’educazione dei suoi componenti da parte dei membri già esistenti. Viceversa, l’assenza della centralità del ruolo dell’educazione in progetti di costruzione e ricostruzione porta inevitabilmente alla disgregazione sociale e all’emarginazione, all’assenza di comunità. L’educazione, intesa quale processo che fa entrare i nostri bambini e i nostri ragazzi in una convivenza auspicabile per il loro benessere e per il benessere degli adulti che rendono possibile la loro vita, chiama direttamente in causa gli adulti. Nel nostro caso, li chiama in causa poiché il sisma che il 6 aprile 2009 ha devastato il territorio aquilano, la vita «di campo», prolungatasi per più di sette mesi e la gestione stessa dell’emergenza/ricostruzione hanno sprigionato fin da subito forze tendenti a modificare l’assetto sociale e le relazioni intercorrenti tra individuo/comunità/territorio, dando corpo a nuovi e profondi processi di destrutturazione territoriale, sociale e psicologica.
In questa situazione, dove l’intero territorio va trasformandosi, ridefinendo la vita dei suoi abitanti in termini di aumento della mobilità, pendolarismi, congestione e dequalificazione degli insediamenti abitativi, ci sono alcuni elementi che, a giudizio di chi scrive, devono essere considerati fondamentali, nella convinzione che, alla luce di quanto avvenuto, sia indispensabile re-interrogarci sul ‘perché’, sul ‘come’ e sul ruolo stesso della pedagogia/educazione.
Perché?
Perché le forme della ricostruzione (sarebbe più corretto parlare di costruzione ex novo e non di ricostruzione o di riqualificazione degli insediamenti abitativi preesistenti) provocheranno al contempo, determinandosi vicendevolmente, nuove strutturazioni psicologiche del soggetto e nuove configurazioni dell’assetto delle relazioni sociali. La new town diffusa, cioè L’Aquila, sarà definita dalla sommatoria delle nuove abitazioni e, questa sommatoria, a sua volta determinerà la qualità della vita. Ma la qualità della vita si ottiene da un lato qualificando la qualità delle relazioni intercorrenti tra edifici e ambiente, in termini di riduzione dei consumi di materiali, di occupazione di suolo e di inserimento ambientale e paesaggistico (1); dall’altro qualificando la qualità delle relazioni sociali, a cominciare dagli spazi dell’abitare e del convivere e quindi dagli spazi in cui prende corpo la dialettica individuo/comunità/territorio. Riconfigurare il territorio senza avere in mente queste considerazioni vuol dire non avere alcuna prospettiva. E questo è di una gravità insostenibile; ancor più insostenibile per un territorio già in piena crisi economica con una significativa perdita di posti di lavoro e di identità.
L’Aquila, intanto, resta ancora deserta, ‘mummificata e inaccessibile’; migliaia sono le persone ancora sfollate, decine di migliaia quelle ancora assistite. È la prima volta, dal 1908 con il terremoto di Reggio Calabria e Messina, che viene distrutta un’intera città capoluogo di regione, ricca di monumenti e opera d’arte e con una popolazione urbana che supera i 70.000 abitanti. Il progetto dei nuovi villaggi antisismici tecnologicamente avanzati, mescolando emergenza e ricostruzione, «crea una situazione malata», che sembra volta soprattutto «a stupire con promesse capaci di vincere le ragioni del tempo e dello spazio»: tornando a vecchi accentramenti di potere, ciò che sembrava superato per sempre dopo l’esperienza del Friuli (1976) e dell’Umbria (1997) (2).
E questo, ora, è lo scenario in cui si esplica il nostro lavoro: quello tutto pedagogico/educativo della ricostruzione sociale. E in questo quadro parlare di educazione vuol dire inevitabilmente porre al centro del discorso quesiti quali: che tipo di educazione vogliamo? Che cosa significa educare? Perché vogliamo educare? E, infine, la domanda più importante: che tipo di società dobbiamo ri-costruire? Nimis spiega che nella memoria «la guerra e il terremoto stanno agli antipodi». Se davanti alla guerra si prende partito, ci si assoggetta, volenti o nolenti a una qualche prolungata partecipazione (da cui viene il gusto dei ricordi), all’istante del terremoto si rimane passivi, sbigottiti, proiettati, nello stesso momento, all’origine e alla fine del mondo. Finendo paralizzati, senza motivo d’orgoglio, affondati semmai nella paura – quando non addirittura nel panico – e chiusi nel proprio egoismo. «Un po’ come i reduci dei campi di concentramento, tornati da allucinate esperienze che superavano il senso comune, dove avevano sperimentato la rabbia di vivere e l’istinto animale necessario per sopravvivere a una stagione che segnava per sempre la loro vita, mancando il vocabolario lessicale e concettuale (a meno di essere Primo Levi) necessario a raccontare l’orrore» (3).
Per poter ricostruire, quindi, non è possibile riflettere su teorie e prassi educative senza riflettere prima, o contemporaneamente, su quella cosa così fondamentale nella vita quotidiana che è il modello/progetto di società che va costruita e all’interno del quale sono immerse le nostre riflessioni sull’educazione stessa, sulle relazioni individuo/comunità/territorio.

Per una pedagogia della ricostruzione sociale
Educazione: interdipendenza solidale

Importanti a riguardo sono gli studi di Maturana sul «fondamento emozionale del sociale». Per il biologo, l’amore è il fondamento del sociale, l’emozione che costituisce l’ambito di comportamenti in cui ha luogo l’operatività dell’accettazione dell’altro, una condizione necessaria per il normale sviluppo fisico, comportamentale, psichico e sociale. Amore in senso biologico, cioè dal punto di vista della comprensione delle condizioni che rendono possibile «una storia di interazioni ricorrenti sufficientemente intima perché possa darsi ricorsività nelle coordinazioni comportamentali consensuali». Ed è questo modo di convivenza quello che intendiamo quando parliamo del ‘sociale’, proprio perché non tutta la convivenza è ‘sociale’:

L’amore è l’emozione che costituisce le azioni di accettazione dell’altro come altro legittimo nella convivenza; pertanto, amare è aprire uno spazio di interazioni ricorrenti con l’altro nel quale la sua presenza è legittima. L’amore non è un fenomeno biologico strano né speciale, è un fenomeno biologico quotidiano. Non solo, l’amore è un fenomeno biologico talmente essenziale e quotidiano negli esseri umani che frequentemente lo neghiamo culturalmente, creando limiti nella legittimità della convivenza (4).

Senza una storia di interazioni ricorrenti, coinvolgenti e prolungate in cui ci sia accettazione reciproca in uno spazio aperto alle coordinazioni di azioni, non c’è fenomeno sociale. In altri termini, sono sociali soltanto le relazioni che si fondano sull’accettazione dell’altro come altro legittimo nella convivenza e che tale accettazione è ciò che costituisce un comportamento di rispetto. Al contrario, se non vi sono interazioni nella reciproca accettazione, si produce separazione o distruzione:

Ritengo che le relazioni umane non fondate sull’amore non siano relazioni sociali. Per cui non tutte le relazioni umane sono sociali, né lo sono tutte le comunità umane, perché non tutte sono fondate sulla operatività dell’accettazione reciproca. Emozioni diverse specificano differenti campi di azioni. Per cui, comunità umane fondate su emozioni diverse dall’amore saranno costituite in altri ambiti di azioni, che non saranno quello della collaborazione e della condivisione in coordinazioni di azioni che implicano l’accettazione dell’altro come altro legittimo nella convivenza, e dunque non saranno comunità sociali (5).

Le relazioni di potere e di obbedienza, le relazioni gerarchiche non sono relazioni sociali; il potere non è qualcosa che possiede una persona o un’altra, «è una relazione nella quale si concede qualcosa a qualcuno attraverso l’obbedienza». Il potere insorge con l’obbedienza e l’obbedienza costituisce il potere come reciproca negazione: «chi obbedisce nega se stesso, perché per evitare o ottenere qualcosa fa ciò che non vuole su richiesta dell’altro […]. Chi comanda nega l’altro e se stesso, perché non trova nell’altro un altro legittimo nella convivenza. Nega se stesso perché giustifica la legittimità dell’obbedienza dell’altro con la propria sopravvalutazione e nega l’altro perché giustifica la legittimità dell’obbedienza con l’inferiorità dell’altro» (6).
Come essere umani, dunque, non siamo sempre sociali; lo siamo soltanto nella dinamica delle relazioni di reciproca accettazione. Senza azioni di reciproca accettazione non siamo sociali. L’educazione è quel processo nel quale il bambino o l’adulto convive con l’altro e nel convivere con l’altro si trasforma, in modo che la sua maniera di vivere si fa progressivamente più congruente con quella dell’altro nello spazio di convivenza. L’educare è un processo continuo e reciproco attinente al convivere. Come viviamo educheremo, «e conserveremo nel vivere il mondo che viviamo come educandi. Ed educheremo gli altri con il nostro vivere insieme a loro il mondo che viviamo nel convivere». Per questa ragione s’impone legittimo l’interrogativo: che ricostruzione vogliamo? Vogliamo una ricostruzione che ponga come centrali alcuni criteri da assumere, valori da salvaguardare, vincoli da rispettare, potenzialità da sviluppare; vogliamo la ricostruzione di un pezzo di mondo in cui i bambini crescano come persone che si accettano e si rispettano, accettando e rispettando gli altri in uno spazio di convivenza privo di competizione; vogliamo uno spazio di convivenza in cui, in assenza di competizione, lasciando essere l’altro senza assoggettamento, c’è fenomeno sociale. Occorre sottolineare questo passaggio: senza accettazione reciproca non può esserci coincidenza di desideri, e senza coincidenza di desideri non c’è armonia nella convivenza e quindi non c’è fenomeno sociale (7).
Nel vocabolario della ricostruzione, interdipendenza solidale fa rima con partecipazione e partecipazione fa a sua volta rima con democrazia, il più possibile diretta. Nella ricostruzione del Friuli, criticando quello che era stato per il Belice (1968), così il parroco di Santa Ninfa del Belice si pronunciava:

Non diventate Belice, perché è troppo grosso il Belice come scandalo, come motivo di riflessione e come ingiustizia, da poter pensare che si ripeta anche fra di voi […]
[…] Fate in modo che la nostra gente sia […] responsabile e partecipe dei suoi fatti, non fatela emarginare assolutamente da qualunque partito o potere. Democrazia sì, imposizione no; e democrazia è partecipazione, mai imposizione; democrazia è rispetto dell’uomo e l’uomo deve essere lui il costruttore di se stesso e del suo bene […].
Guardate che questo Belice può essere il Friuli, i disegni faraonici, le urbanizzazioni discutibili, quel passare sopra la testa di tutti, il voler realizzare secondo criteri verticistici erano esclusivamente opera e quindi responsabilità di coloro cui il governo aveva dato l’incarico di realizzare la ricostruzione. Si trattava cioè delle cosiddette opere a totale carico dello Stato – e può avvenire anche nel Friuli – quelle cioè che lo Stato si assume di fare in proprio, quelle che eliminano la responsabilità e la partecipazione del cittadino interessato, quelle che sono insomma la peggiore elemosina che si possa compiere, perché si fanno male e distruggono l’uomo nella sua dignità (8).

Responsabilità e partecipazione perché «l’uomo deve essere il costruttore di se stesso e del suo bene» vuol dire ‘internalizzare’ il locus of control della psicologia sociale; vuol dire, usando i termini della psicologia umanista di Roger, agire orientati dall’attualizzazione, decidere cioè della propria vita liberamente verso una piena realizzazione del proprio intimo ed autentico essere (9); vuol dire, per citare un’altra autorevole voce della psicologia umanista, rispettare la scala dei bisogni strutturata da Maslow (10), che tradotta in termini sociali significa che non si può promuovere una società attualizzante (autostima, riconoscimento sociale, autorealizzazione) se non sono soddisfatti in detta società i bisogni di livello inferiore, vale a dire quelli collegati alla sopravvivenza, alla serenità e all’appartenenza sociale; vuol dire – come spiega Crainz riferendosi all’esperienza friulana – «democrazia dal basso – nelle assemblee delle tendopoli, nel coordinamento dei paesi terremotati»; vuol dire «capacità di unire la sfiducia nel Palazzo e la fiducia in se stessi. Ma anche in quel concreto operare di uomini e istituzioni. In quel concreto operare anche del Palazzo. Anche dei legislatori nazionali e degli amministratori locali, a contatto diretto e talora conflittuale con gli amministratori. Con i cittadini. Con i paesi e le culture colpite dal sisma» (11).
E un discorso del genere è altrettanto valido anche per l’opera, che, si badi bene, è tutta educativa prim’ancora che politica, di prevenzione e di promozione della cultura della prevenzione. A distanza di più di trent’anni dagli episodi friulani, «a girare per le strade del capoluogo [L’Aquila] e dei borghi dei dintorni e a vedere come sono andati giù anche certi edifici costruiti dieci o venti anni fa, è [più che sicuro] che un Paese come il nostro non può affidarsi a santa Lucia o a sant’Emidio, protettore dei terremoti»! (12)
Responsabilità e partecipazione, perché anche nel processo di ricostruzione sociale non può esserci alcuna educazione democratica possibile che non contempli un’integrazione, allo stesso tempo, tra partecipazione/responsabilità, accettazione/rispetto, promozione della specificità individuale nelle relazioni sociali e libertà. Per usare le parole di Dewey, «la libertà non è qualcosa che può venire regalata agli uomini dal di fuori [...] ma che può essere posseduta solo in quanto gli individui partecipano al suo conseguimento» (13).
La libertà può svilupparsi attraverso un’educazione/pedagogia in grado di porsi quale cultura dell’interdipendenza a tutti gli effetti, cultura e pratiche per una società fatta di uomini e per gli uomini, cultura e pratiche permeate da un’idea di società fondata sull’ascolto, il dialogo, la conversazione; dove l’ascolto è il disporsi a ricevere le ragioni dell’altro e coglierne le radici; il dialogo è comunicazione reciproca; la conversazione è la realizzazione del dialogo, l’atto concretamente costitutivo, in quanto nella reciprocità dei discorsi «si crea un con-vergere, un andare-verso-insieme»; la conversazione è dialogo costruttivo di spazi d’intesa comune e di un’etica comune di comunicazione e di convivenza (14). Perché l’altro è già «nel vivo del soggetto»; il principio d’inclusione è originario, come per l’uccellino che – per usare la metafora di Morin – «quando esce dall’uovo, segue sua madre». L’altro è una necessità interna. Il soggetto si struttura con la mediazione degli altri soggetti anche prima di conoscerli veramente. Il soggetto emerge al mondo integrandosi con l’intersoggettività. L’intersoggettività è il tessuto di esistenza della soggettività, «l’ambiente di esistenza» del soggetto senza il quale esso deperisce. La comprensione stessa non può emergere che nella relazione intersoggettiva ed è spesso immediata, quasi intuitiva (15). Un’educazione/pedagogia quale cultura e pratica dell’interdipendenza può fare dello «spazio dell’incontro» uno spazio etico/politico/culturale, disposto a giocare in pieno il suo ruolo di modello di convivenza, di organizzazione sociale, di valore culturale sia come fine che come mezzo. Nelle parole di Fromm:

La condizione più importante perché si sviluppi l’amore per la vita nel bambino è che egli stia con gente che ama la vita […]. Tra le condizioni specifiche necessarie allo sviluppo della biofilia [cioè la naturale tendenza verso la vita ed il prossimo] citerò la seguente: il caldo, affettuoso contatto con gli altri durante l’infanzia. La libertà e l’assenza di minacce; l’insegnamento – più con l’esempio che con le prediche – dei principi che conducono all’armonia e alla forza interiori […]. Un’altra importante condizione sociale per lo sviluppo della biofilia consiste nell’abolizione dell’ingiustizia […]. Mi riferisco ad una situazione sociale nella quale una classe sociale ne prevarica un’altra, e le impone condizioni che non consentono l’esplicarsi di una vita ricca e dignitosa […] In ultima analisi, per ingiustizia intendo una situazione nella quale l’uomo non è fine a se stesso, ma diventa un mezzo per i fini di un altro uomo (16).

La sfida, dunque, è quella di innestare e sviluppare pratiche sociali diverse per una società diversa, una società che non deve preoccuparsi di far necessariamente sintesi delle differenze ma, al contrario, impegnarsi a garantirne il libero sviluppo in un processo continuo. Accettazione e varietà, diversità e pluralismo sono sul versante pedagogico componenti fondamentali. Sarebbe contraddittorio sostenere o proporre una via unica all’educazione/pedagogia, un modello unico: vanno invece accolte un’insieme di riflessioni e idee che mirano alla critica e alla dissoluzione di discriminazione e razzismo (17), di dominio e autorità intesi come rapporto gerarchico e di subordinazione tra individui, non solo tra governati e governanti, ma, come ha precisato Bookchin, in ogni situazione, perché la gerarchia – intesa come sistemi culturali e psicologici di comando e obbedienza – e il dominio «potrebbero facilmente continuare a esistere in una società senza classi o senza Stato. Mi riferisco al dominio del vecchio sul giovane, dell’uomo sulla donna, di un gruppo etnico su un altro, dei burocrati (che si pretendono portavoce dei superiori interessi sociali) sulle masse, della città sulla campagna e, in un senso più psicologico e sottile, della mente sul corpo, di una piatta razionalità strumentale sullo spirito, della società e della tecnologia sulla natura» (18).
In contrapposizione a questa rete di dominio bisogna mostrare che esistono altre forme di relazione tra gli individui basate sulla libertà e sul consenso che possono dar vita a organizzazioni sociali non coercitive e solidali. Nei rapporti educativi bisogna privilegiare lo spirito critico ed antidogmatico, l’aspetto costruttivo di libera sperimentazione, legato alla quotidianità, alla varietà e all’esperienza. Nella critica di Goodman (19), nella nostra società «bambini intelligenti e vivaci, potenzialmente capaci di conoscenza, di nobili ideali, sforzi onesti e di qualche forma di realizzazioni intrinsecamente valide, vengono trasformati in bipedi inutili e cinici, o in giovani per bene chiusi in trappola o precocemente rinunciatari, sia dentro che fuori del sistema organizzato. Il mio scopo è semplicemente questo: dimostrare come oggigiorno sia disperatamente difficile, per un bambino normale, crescere fino a farsi uomo, perché il nostro attuale sistema sociale organizzato non richiede uomini: sono pericolosi, non convengono» (20).
Il progetto goodmaniano, esplicandosi sostanzialmente nella difesa e nell’allargamento degli spazi di libertà esistenti, interpreta molto bene quel pragmatismo democratico attraverso cui hanno potuto prendere corpo teorizzazioni ed esperienze educative alternative; si pensi allo stesso Dewey:

L’estendersi dell’area degli interessi condivisi, e la liberazione di una maggior varietà di capacità personali che caratterizzano una democrazia […], una volta create uno sforzo deliberato s’impone per sostenerle ed estenderle (21);

o all’approccio antropologico di Graeber:

Relazioni sociali anarchiche e forme di azione non alienata già esistono intorno a noi. E questo ha una valenza critica, perché ci mostra che l’anarchismo è già adesso, ed è sempre stato, una delle principali basi per l’interazione umana. Ci autogestiamo e pratichiamo il mutuo appoggio da sempre. L’abbiamo sempre fatto (22).

Si tratta, sostanzialmente, di teorie, esperienze e pratiche educative che muovono partendo da:
– critica del quotidiano (23);
– allargamento degli spazi di libertà esistenti, pratica degli spazi di libertà come modelli alternativi già presenti e/o come spazi di cambiamento possibile (24);
– educazione/pedagogia che vede gli allievi come fine e non come mezzo (25);
– educazione/pedagogia consapevole del suo essere fallibilista e contingente: fallibilista perché educa al dubbio, in primo luogo sull’educazione e sull’educatore stesso e i suoi metodi. Contingente perché rinuncia ad autoriprodursi forzosamente: deve lasciare libero l’altro di percorrere una via diversa (26).

L’educazione è quel processo che fa entrare i giovani in una convivenza auspicabile per il loro benessere e per il benessere degli adulti che rendono possibile la loro vita. E in questa dinamica non si rimane certo indifferenti se si vive e convive in un modo o nell’altro: esistiamo, infatti, in reti nelle quali possiamo riflettere e chiederci se ci piace o non ci piace la convivenza che viviamo. Quello che faremo nel corso della nostra vita sarà determinato momento per momento dalle nostre risposte, e genereremo, in modo consapevole o inconsapevole, il mondo che nasce con il nostro vivere. Tutto il nostro vivere e convivere come esseri umani è in quanto tale politico, perché genera mondi; al tempo stesso è educazione, perché opera sempre come formatore dei sentimenti dei giovani che direttamente o indirettamente convivono con gli adulti, il cui vivere e convivere inevitabilmente li induce ad accettarli o respingerli.

Educazione: potere/sapere

Non possiamo in questa sede non prendere in considerazione la questione del potere, centrale per l’analisi e le riflessioni sull’educazione (27). Si possono rifiutare il dominio e l’autorità, ma, per l’analisi condotta da Foucault, la questione rimane aperta (28). Il potere, infatti, si esercita anche nella relazione che con-forma i soggetti, tanto che ogni relazione educativa è di per sé una relazione di potere, in quanto cerca esplicitamente di dar forma ad un soggetto educandolo. Il campo del potere e quello del pedagogico spesso coincidono: sono pratiche di formazione dei soggetti, a partire da regole, definizioni di spazi, tempi, programmi ed altro. Il potere ha una faccia visibile ma anche una invisibile, molto più efficace laddove riesce a dissimulare i suoi meccanismi di riproduzione. La via indicata dal filosofo francese consiste nell’eliminazione di una concezione statica dell’individuo, per farlo emergere invece come campo di forze in lotta, preso e formato nella rete storicamente definita dei poteri. Sfuggire alle identità statiche nel campo educativo significa proporre continuamente la riflessione sulla libertà dei soggetti nel gioco dell’imparare, sul modellamento reciproco nel dialogo, sulle forme dell’alterità nel rapporto educativo:

L’identità è, insieme all’etnicità, una produzione ideologica […]. Dissimula più di quanto non chiarisca. Messa in moto ogni volta che si tratta di evitare di pensare l’alterità che è in noi, il flusso del molteplice, il carattere cangiante e contraddittorio del reale così come l’infinità dei possibili punti di vista su ciò che è potenzialità o divenire, zavorra più di quanto non faccia avanzare […]. Quanto più viene affermata la consistenza dell’identità, tanto più il pensiero è inconsistente. È una nozione di grande povertà epistemologica… (29).

Compito degli educatori è quello di far cogliere i meccanismi del potere e gli spazi della libertà; cogliere in modo appropriato le relazioni potere/sapere e utilizzarle nell’ambito educativo, allo scopo di superare da una parte la relazione tra libertà del soggetto e contenuti del sapere, dall’altra il ruolo che il sapere ha nella costituzione del soggetto; cogliere, infine, l’intreccio esistente tra le relazioni quotidiane e quelle più ampie, comprendere il flusso che le collega nelle direzioni della macro e micro politica con i loro diversi meccanismi di potere.
C’è una gamma di sfumature che vanno dall’autorità assoluta che impone obbedienza passiva senza spiegare ragioni, semplicemente in virtù di una posizione di dominio, all’accettazione razionale di un’autorità temporanea e funzionale. Nella pratica la questione è se l’asimmetria nei rapporti, temporanea e accettata dalle parti, possa essere del tutto rifiutata. Qualsiasi assemblea può benissimo dare mandato ad una persona affinché questa agisca in suo nome per questioni ben definite: è una delega temporanea e revocabile che fa assumere a una persona una certa autorità. Da questo però non segue che quella persona divenga un’autorità. Accade però che alcune autorità non si possono scegliere. Da piccoli abbiamo certamente bisogno di un sostegno, di tutori che ci aiutino a crescere, senza i quali non sopravviveremmo. Molto allora dipende dalla qualità e dall’intensità di questa influenza, in cui si crea un’asimmetria di potere, inteso come relazione tra due individui, e dunque un’asimmetria nella libertà tra i due individui. Russel afferma che «l’autorità in educazione entro certi limiti è inevitabile. Gli educatori dovrebbero trovare il modo per esercitarla in accordo con lo spirito della libertà. Allorquando l’autorità è inevitabile, è necessario il rispetto […]. Chi ha rispetto non penserà di dover modellare il giovane; egli sente in tutto ciò che vive, ma specialmente negli esseri umani, e ancor più nei bambini, un qualcosa di sacro, indefinibile, indefinito, qualcosa di individuale e di stranamente prezioso che cresce e si sviluppa, un frammento incarnato nella sorda tensione vitale del mondo» (30). Chi sente tutto questo può esercitare ‘l’autorità’ di un educatore senza infrangere il principio della libertà. L’educatore senza rispetto, invece, disprezza la condizione di subalternità del bambino e pensa che sia suo dovere ‘modellarlo’: nelle sue fantasie il bambino è l’argilla, lui il vasaio. In questo modo dà al bambino quella forma innaturale che si rafforza con l’età, che produce tensioni e insoddisfazione, dalla quale nasce l’idea che anche gli altri debbano sottostare a tali distorsioni. E il rapporto che s’instaura tra repressione e patologia nelle dinamiche mediate da rapporti coercitivi e gerarchici è ben noto:

Fobie e ossessioni nascono dalla tendenza a voler rinchiudere l’affettività in una regione intesa come repressione, ordine, normalità e morale. Fobie ed ossessioni sono una negazione dei diritti dell’affettività, delle emozioni, degli istinti, della spontaneità: sono la sovrapposizione di una serie di schemi autoritari ai diritti ed alle ansie legittime della soggettività individuale. Il fobico nega diritto di esistenza e di cittadinanza alle proprie ansie, e tenta di abolirle in modo rigido e astratto; ma proprio per questo motivo si trova continuamente a dover fare i conti con una emotività che, negata e repressa, egli non riesce a controllare e rischia in ogni momento di travolgerlo (31).

Autoritarismo, centralismo e patologia sociale: elementi che tornano puntuali nelle critiche al modello adottato per la ricostruzione del Belice e imposto a quelle comunità e quegli individui. Lo Stato «pretendeva di progettare e di gestire gli interventi da Roma. Anziché capire il contenuto di ordine economico, sociale e di organizzazione che le comunità avevano avuto prima del sisma e aiutarle a riconquistarlo in termini di continuità, veniva assunto un modello astratto, carico di utopia, di rifondazione urbana. Infine, anziché ridurre all’essenziale il carico procedurale degli interventi, si è adottato un modello ad alta complicatezza burocratica. Centralismo, utopismo, burocratismo hanno così generato tutte le premesse per i ritardi, per il mancato conseguimento dei risultati, per lo sterile assistenzialismo e per la patologia sociale» (32). Al contrario, nel ‘modello’ Friuli, «l’elezione dei sinistrati a protagonisti assoluti [della ricostruzione] ha garantito la provvidenziale presenza sul campo di soggetti attenti e interessati al buon esito delle operazioni individuali, e ha creato un esaltante fenomeno di frenetica vitalità» (33).
Teorie ed esperienze educative e di ricomposizione sociale le cui linee guida si fondano sulla concezione dell’uomo quale essere interattivo, dialogico e cooperativo sono molteplici; fondate sulla libertà piuttosto che l’autorità imposta; sull’autoespressione al posto della mera trasmissione di conoscenze; sullo stimolo del naturale senso di meraviglia dei bambini piuttosto che sul nozionismo. Esperienze in cui viene ripensata – se non del tutto ribaltata – la prospettiva del processo insegnamento/apprendimento. Il primo rovesciamento è proprio quello dall’insegnamento all’apprendimento: dal concetto di trasmissione monodirezionale si passa alla complessità dell’apprendimento, alle intelligenze multiple, ai linguaggi dei bambini, ai contesti ricchi e stimolanti da allestire come ambienti di apprendimento. Il secondo rovesciamento è il passaggio dagli oggetti della conoscenza ai soggetti, alla loro attività. L’attivismo pedagogico aveva già messo al centro i soggetti dell’apprendimento, con le loro attività e interazioni in un determinato ambiente ricco di stimoli per l’apprendimento. Uno spostamento sul soggetto della responsabilità di creare la conoscenza, di dare significato all’esperienza. Un terzo spostamento si ha dagli individui alle relazioni: la conoscenza si costruisce collettivamente e collettivamente si costruisce l’identità.
È interessante notare come quanto sopra detto abbia avuto in buona parte forti corrispondenze nelle prassi adottate per la ricostruzione friulana:

A posteriori si può affermare che gli obiettivi emersi da quel dibattito [sulla ricostruzione] si potevano ricondurre ad alcuni principi basilari:

  • un principio di tempestività pena il rischio di passare dal danno al degrado sociale;
  • un principio di autonomia e [di assunzione di responsabilità diretta] da parte di tutti i soggetti, istituzionali e sociali, localmente coinvolti;
  • infine un principio di continuità [evitando di] realizzare ristrutturazioni organizzative, socio-economiche e territoriali radicali [ex novo] pena la perdita di consenso e di risposta sociale unitaria (34).

I bambini si appropriano dello strumento simbolico fondamentale, il linguaggio, attraverso l’interazione; attraverso la condivisione e lo scambio costruiamo intersoggettivamente i significati e la stessa realtà. Freire, ad esempio, ha sostenuto che i programmi educativi devono venire ‘dal basso’; in questo contesto l’educatore assume il ruolo di tramite importante, ma deve prima imparare per poter insegnare; attraverso il dialogo quotidiano con quelli che gli stanno davanti, sviluppando discussioni, deve capire quali sono i loro problemi fondamentali e basarsi sulle loro conoscenze. Si tratta di un’educazione ‘coscientizzatrice’, che non significa semplice presa di coscienza ma avvicinamento critico al mondo e alla propria quotidianità. È un’educazione critica/problematizzante che, avendo come punto di partenza gli uomini concreti nel loro qui ed ora, sviluppa nell’educando e nell’educatore un atteggiamento critico di fronte alla realtà in cui vive. È un processo su cui si avvia la persona, lungo il quale si disvela la sua realtà, si apre la possibilità di esprimerla e di comprendere il mondo per poi impegnarsi nella sua trasformazione (35).

Educazione: emancipazione

L’educazione è un processo frutto della continua interazione con l’ambiente circostante e con gli altri. Con questo si afferma implicitamente che ogni pedagogia è sempre un modo di vedere il mondo, i rapporti tra gli uomini, il rapporto con il proprio tempo e con il futuro. L’educazione ha a che fare con la cultura, con le pratiche attraverso le quali si trasmettono valori e conoscenze tra generazioni differenti. Dewey, ad esempio, definiva educazione il processo nel quale una comunità o un gruppo sociale continua a vivere attraverso un continuo autorinnovamento. Tuttavia, lo scambio/trasmissione è allo stesso tempo un apprendimento che mette in gioco l’intera persona. Come può essere libero questo processo che avviene per anni e anni se non per tutta la vita? Può esistere un’educazione alla libertà?
La libertà certamente non si insegna: si può mostrare nei fatti, nel riferimento ai valori, ma non può ridursi ad un fatto educativo. C’è un paradosso implicito in una posizione pedagogica che volesse ‘insegnare’ o ‘inculcare’ la libertà. E la libertà è centrale in quest’analisi proprio perché rappresenta il cuore della riflessione etica. È un aspetto cruciale per la definizione dell’umanità dell’uomo, «dell’emergenza dell’umanità dell’uomo in quanto tale», per l’espressione delle sue potenzialità, per la sua fioritura in molteplici direzioni, perché, infine, rappresenta l’elemento in grado di opporsi al dominio che costringe gli uomini e le donne entro griglie e tratti definiti per subordinarli ad un ordine non scelto che perpetua ineguaglianze e ingiustizie.
Inoltre, proprio perché non è un fatto ma un valore, la libertà non è mai acquisita una volta per tutte: non è un punto d’arrivo, ma piuttosto il punto di partenza dal quale guardare in generale alla vita e all’educazione. È quindi importante riuscire a cogliere dialetticamente la libertà, che si amplia e si modifica storicamente e non senza conflitti: «io sono veramente libero solo quando tutti gli esseri che mi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, e più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa, profonda e ampia diviene la mia libertà. È invece proprio la schiavitù degli uomini a porre una barriera alla mia libertà, o, che è lo stesso, è la loro bestialità a negare la mia umanità: perché, di nuovo, posso dirmi veramente libero solo quando la mia libertà, o che è lo stesso, quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano, che consiste nel non obbedire a nessun altro uomo e nel determinare i miei atti in conformità con le mie convinzioni, mediante attraverso la coscienza ugualmente libera di tutti, solo quando la mia libertà e la mia dignità mi ritornano confermate dall’assenso di tutti. La mia libertà personale, così convalidata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito» (36).
Nella pratica, l’educazione/pedagogia va intesa come un processo che muove «dalla dipendenza all’autonomia», dall’educazione all’autoeducazione: autoeducazione che è sempre co-educazione nella rete inseparabile di relazioni. Per l’educatore si tratta di ri-definire l’educazione, distanziando innanzitutto il suo aspetto trasmissivo da quello dell’individuazione e della realizzazione del sé, che è invece un processo creativo e basato sulla libertà. Si potrebbe identificare l’educazione con il processo attraverso cui la persona si individua, laddove per individuazione s’intende, in termini junghiani, il riconoscimento della propria realtà, delle proprie potenzialità da realizzare al loro più alto grado; educazione intesa quale processo attraverso cui l’individuo diventa ciò che è in rapporto con ciò che gli sta intorno: discorsi, pratiche, modi di vivere. Il processo di individuazione è quindi possibile solo in/attraverso una società/comunità aperta e dinamica in grado di coniugare il riconoscimento della diversità con l’affermazione di un principio di uguaglianza; è possibile attraverso relazioni orizzontali tra uguali volte a perseguire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli individui, attraverso cioè un modello educativo aperto, autocritico, antidogmatico (37), capace di stimolare le difese immunitarie dell’individuo contro ogni forma di controllo e di oppressione. Come afferma Touraine: «il riferimento al Soggetto personale mette in evidenza che ogni azione liberatoria è affermazione di un’esperienza, di una cultura e pertanto di solidarietà, nonché di consapevolezza di un’appartenenza tanto quanto lotta contro un potere» (38).
Nelle parole di Maturana, con le quali chiudiamo queste riflessioni:
Il fallimento delle dittature e dei sistemi totalitari statuali […] è il fallimento del sistema di disegno ontologico che cerca di imporre un ordine sociale, imponendo al contempo un dover essere che nega l’individuo come essere sociale cosciente e responsabile della propria partecipazione alla costruzione del mondo che porta con sé nella convivenza con gli altri.
Ogni volta che tutto il sapere viene consegnato a un gruppo umano, che siano militari, filosofi, tecnici, proletari o qualsiasi altro, si produce una tirannide, perché si nega agli altri. Ora siamo sul punto di fare ciò, consegnando il sapere agli imprenditori. La cospirazione democratica è l’unica possibilità di evitare tale alienazione, se siamo capaci di viverla riconoscendo che di fatto il mondo in cui viviamo lo costituiamo tutti nel convivere in esso e che siamo noi stessi l’ambito naturale che ci alimenta. Se riusciamo a fare ciò, le varie posizioni esistenziali, i differenti modi di agire, le diverse ideologie, diventano differenti punti di vista, che consentono di riconoscere differenti classi di errori nella realizzazione del progetto comune, in un ambito di discorsi aperto che consente di riconoscere tali errori. Ma perché ciò avvenga, dobbiamo volere che avvenga (39).

Edoardo Puglielli

Note

  1. Sul rapporto tra produzione/consumo energetico e qualità della vita si vedano: I. Illich, La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo, Boroli, Milano, 2005; Id., Per una storia dei bisogni, Mondadori, Milano, 1981. Si vedano anche M. Bonaiuti (a cura di), Obiettivo decrescita, EMI, Bologna, 2007; W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, EGA, Torino, 2007.
  2. G. P. Nimis, Terre mobili. Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo, Donzelli, Roma, 2009, p. 4.
  3. Ivi, pp. 10-11. Il corsivo è dell’autore.
  4. H. Maturana, X. Dàvila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Elèuthera, Milano, 2006, p. 79.
  5. Ivi, pp. 29-30.
  6. Ivi, pp. 82-83.
  7. Ivi, p. 88.
  8. In G. P. Nimis, Terre mobili. Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo, cit., p. 16.
  9. Com’è noto, per Roger la salute è un processo di pieno sviluppo di se stessi in modo autentico, la malattia è l’inautenticità, il falso Sé.
  10. Bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, bisogni associativi e di appartenenza, bisogno di autostima e di riconoscimento sociale, bisogno di autorealizzazione.
  11. G. Crainz, Introduzione, in G. P. Nimis, Terre mobili. Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo, cit., p. 8.
  12. G. A. Stella, «Corriere della Sera», 7 aprile 2009.
  13. J. Dewey, Intelligenza creativa, in L. Corvaglia, Psicopatologia della libertà. Capitalismo e nevrosi ossessiva, CSL Camillo Di Sciullo, Chieti, 2003, p. 122.
  14. F. Cambi, Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Carocci, Roma, 2006, p. 25.
  15. E. Morin, Il metodo 5. L’identità umana, Raffaello Cortina, Milano, 2002, p. 57.
  16. E. Fromm, Psicoanalisi dell’amore, in L. Corvaglia, Psicopatologia della libertà. Capitalismo e nevrosi ossessiva, cit., p. 116.
  17. Si vedano: B. Mazzara, Appartenenza e pregiudizio. Psicologia sociale delle relazioni interetniche, Carocci, Roma, 1996; Id, Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna, 1997; P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Il Mulino, Bologna, 1994; Id, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Raffaello Cortina, Milano, 1999; A. Vaccarelli, Dal razzismo al dialogo interculturale. Il ruolo dell’educazione negli scenari della contemporaneità, ETS, Pisa, 2008; M. Wieviorka, Lo spazio del razzismo, Il Saggiatore, Milano, 1996.
  18. M. Bookchin, L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, Elèuthera, Milano, 1995, p. 25.
  19. Di P. Goodman si veda Individuo e comunità, Elèuthera, Milano, 1995.
  20. In F. Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, Elèuthera, Milano, 2004, p. 103.
  21. J. Dewey, Democrazia e educazione, Sansoni, Firenze, 2008, pp. 95-96.
  22. D. Graeber, Frammenti di antropologia anarchica, Elèuthera, Milano, 2006, p. 75.
  23. Si vedano: R. Mantegazza, Teoria critica della formazione. Espropriazione dell’individuo e pedagogia della resistenza, Unicopli, Milano, 1995; Id., Filosofia dell’educazione, Mondadori, Milano, 1998; Id., I buchi neri dell’educazione. Storia, politica, teoria, Elèuthera, Milano, 2006.
  24. Si vedano i due diversi approcci: C. Ward, La pratica della libertà. Anarchia come organizzazione, Elèuthera, Milano, 1996; S. Vaccaro, Anarchia e progettualità. Per l’autogoverno extra-istituzionale, Zero In Condotta, Milano, 1996.
  25. Si veda F. Codello, La buona educazione. Esperienze libertarie e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neil, Franco Angeli, Milano, 2005.
  26. Per una cornice epistemologica si veda J. Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, Roma, 2002.
  27. La letteratura in merito è ampia. Ci limitiamo a segnalare: W. T. Adorno, Aa.Vv., La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, Milano, 1982; B. Bernstein, Classi e pedagogie: visibili e invisibili, in E. Becchi (a cura di), Il bambino sociale, Feltrinelli, Milano, 1979; R. Massa, Educare o istruire. La fine della pedagogia nella contemporaneità, Unicopli, Milano, 1987; R. Massa, La clinica della formzione, Franco Angeli, Milano, 1992.
  28. Si veda M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1976.
  29. F. Laplantine, Identità e metissage. Umani al di là delle appartenenze, Elèuhtera, Milano, 2004, pp. 16-17.
  30. In F. Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, cit., p. 55.
  31. G. Jervis, Manuale critico di psichiatria, in L. Corvaglia, Psicopatologia della libertà. Capitalismo e nevrosi ossessiva, cit., p. 126.
  32. In G. P. Nimis, Terre mobili. Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo, cit., p. 44.
  33. Ivi, p. 20.
  34. Ivi, p. 57.
  35. Di P. Freire si vedano: La pedagogia degli oppressi, Mondatori, Milano, 1971; L’educazione come pratica della libertà, Mondatori, Milano, 1973.
  36. M. Bakunin (a cura di G. Berti), La libertà degli uguali, Elèuthera, Milano, 2000, pp. 82-83.
  37. Si tratta di elementi che, accompagnati da aspetti centrali quali la motivazione e l’importanza del contesto educativo, sono diventati terreno di forte sperimentazione all’interno del movimento delle scuole attive.
  38. A. Touraine, Eguaglianza e diversità. I nuovi compiti della democrazia, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 56.
  39. H. Maturana, X. Dàvila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, cit., pp. 93-94.