rivista anarchica
anno 40 n. 354
giugno 2010


antifascismo

Ventotene-Renicci d’Anghiari: dal confino al campo di concentramento(1)
di Giorgio Sacchetti

Dall’isola di confino di Ventotene gli antifascisti furono tutti liberati a fine luglio 1943. Tutti, meno gli anarchici che Badoglio spedì in un campo di concentramento in provincia di Arezzo. Dopo due mesi gli anarchici riuscirono ad evadere in massa e a raggiungere le località da cui iniziarono la lotta partigiana.

 

Da confinati a internati

All’indomani della caduta del fascismo il ministero dell’interno del governo Badoglio emana le disposizioni necessarie – Circ.Min. 27/7/1943 n.46643 – per la concessione d’ufficio della grazia sovrana agli antifascisti condannati dal Tribunale Speciale. L’esatta definizione della categoria di persone destinata a beneficiare di questi provvedimenti viene però in sostanza rimandata alla discrezionalità dei singoli dirigenti e funzionari ministeriali i quali, caso per caso, decidono o il rilascio oppure di temporeggiare magari tramite l’invio di quesiti più o meno pertinenti agli organi superiori o di richieste di informazioni ai vari prefetti. La stessa cosa si verifica per confinati e internati. Si arriva infatti all’esclusione dal provvedimento di clemenza di particolari categorie di antifascisti che, in via preponderante, sono considerati ‘anti-italiani’ come gli slavi e gli anarchici; i primi sospettati di sostenere l’irredentismo (nel segno quindi della continuità della politica fascista di razzismo anti-slavo), i secondi ritenuti ancora pericolosi “in linea politica” per il futuro assetto statale.
La contingenza del 25 luglio sorprende la maggior parte degli esponenti anarchici più conosciuti al confino. I gruppi più cospicui si contano alle isole Tremiti, a Pisticci, a Fraschette di Alatri (località queste dove in genere saranno direttamente trattenuti fino all’8 settembre) e soprattutto a Ventotene. Qui la presenza di militanti libertari – stimata in 140 unità circa da Altiero Spinelli, anch’egli confinato – è legata spesso agli esiti tragici della guerra civile spagnola, al susseguente rimpatrio forzato dai campi di concentramento francesi, in specie dal famigerato Vernet d’Ariège. Direttore della colonia di Ventotene è certo Marcello Guida (sarà questore a Milano nel 1969) “che secondo Terracini aveva fatto parecchie porcherie” (2).
Anarchici al confino

Malgrado le dure condizioni di vita a cui sono sottoposti i confinati, a causa anche dell’irregolare rifornimento d’acqua e viveri dalla terra ferma, questi godono di una minima ‘libertà’ di riunirsi, nelle famose ‘mense’, e si sono anche conquistati dopo lunghe lotte il diritto al rifiuto del saluto romano. In molte di queste riunioni già da tempo si era avvertito un certo clima assai vivace di aspettativa dovuto all’opinione diffusa che la guerra avrebbe accelerato la crisi del regime. Il direttivo comunista di Ventotene (fra cui Secchia, Scoccimarro, Di Vittorio, Cicalini e altri) aveva ad esempio votato un documento, alla vigilia del 25 luglio, nel quale si denunciava la “funzione di disgregazione e d’ostacolo al processo di unificazione dei massimalisti e degli anarchici”, si invitava alla “lotta senza quartiere contro i nemici dell’unità proletaria, nel PS[I] Modigliani e Tasca, nel massimalismo gli antisovietici e anticomunisti, negli anarchici gli anticomunisti” (3). Ma anche dall’assemblea partecipata degli anarchici, secondi per numero in quell’isola popolata da 800 confinati ed anch’essi presenti con il loro ‘stato maggiore’, era uscita già da alcuni mesi una risoluzione dai contenuti polemici e programmatici al tempo stesso:

“Constatato che l’atteggiamento collaborazionista dei vari raggruppamenti politici proletari, dalla guerra del 1914-18 all’avvento del fascismo, non ha risposto agli interessi e ai desideri della massa lavoratrice e di tutto il popolo italiano;
Tenuto conto che il contrasto dei compagni in campo filosofico ed ideologico dell’anarchismo o in quello organizzativo di massa determinava divisioni dannose allo sviluppo dei concetti anarchici ed impediva la formulazione di un comune programma di lotta e di azione;
Ritenuto che dalle esperienze acquisite nell’ultimo ventennio il movimento anarchico debba raccogliere l’adesione di tutti i compagni per creare un organismo omogeneo coordinatore;
Invita tutti i compagni ad iscriversi ai sindacati di mestiere e di professione per avere il diretto contatto con le masse lavoratrici, indirizzando queste nella lotta veramente rivoluzionaria per la conquista delle rivendicazioni proletarie, propagando l’ordinamento libertario per la costituzione dei Consigli di Fabbrica, d’Azienda e d’Industria in campo produttivo, dei Consigli di Comune e di Provincia in quello politico, organismi che dovranno regolare e sostenere i bisogni delle comunità” (4).
L’avvento della dittatura militare di Badoglio ed il suo noto proclama agli italiani sulla guerra che continua, con l’avvertenza perentoria alla sinistra rivoluzionaria che “chiunque si illuda di turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito”, creano spasmodica attesa fra i confinati. Nel momento in cui Badoglio dispone la liberazione dei confinati si segue, come abbiamo visto, un criterio di prudente gradualità tale da escludere, alla fine, solo gli slavi e gli anarchici ritenuti più ‘pericolosi’.
Il 27 luglio il capo della polizia Carmine Senise invia un dispaccio urgente a tutte le direzioni delle colonie di confino:
“Prego disporre subito scarcerazione prevenuti disposizione autorità PS responsabili attività politiche escluse quelle riferentesi comunismo e anarchia” (5).
Le assicurazioni di adempimento di Guida al ministero, per quanto pronte, assumono carattere dilatorio. È il suo lo stile immutato del burocrate, il segno tangibile della continuità nella amministrazione dello Stato che si qualifica per l’uso alternato dei criteri elastici di approssimazione e ricerca del cavillo. In più tempi egli chiede delucidazioni “a Roma” e tempesta i superiori di zelanti quesiti, prima circa il destino dei confinati “né comunisti né anarchici”, poi chiedendo di poter decidere caso per caso sul rilascio in quanto “pericolosità indicazione colore politico attribuito non corrisponde al vero”, ed infine sollecitando una risposta (6). I primi a partire da Ventotene, dopo la compilazione delle liste distinte per gradi di pericolosità politica, sono gli ‘antifascisti democratici’ e quelli di Giustizia e Libertà. Si tratta circa di un centinaio di confinati che, attraverso una colletta fatta anche fra quelli che restano, riescono a raggranellare le seimilacinquecento lire necessarie per noleggiare un fatiscente piroscafo e raggiungere fortunosamente la costa (7). Dopo i socialisti, il 19 agosto è la volta anche di un primo scaglione di comunisti. In questo caso però non è il direttore Guida a compilare la lista dei partenti, ma sono gli stessi dirigenti del PCI seguendo “un criterio politico” e sulla base delle necessità organizzative del partito, con la precedenza assoluta per i quadri dirigenti (8). Diverse circolari esplicative avevano nel frattempo raccomandato alle regie prefetture ed ai direttori di confino di regolarsi “nel ritmo e nell’ordine di precedenza di rilasci, in armonia con la situazione ambientale del rispettivo territorio”, nonché di escludere senz’altro da questo beneficio gli “individui responsabili attività anarchica et [sic] spionistica” (9). Restano alla fine nell’isola di Ventotene circa 200 confinati politici fra anarchici e cittadini italiani di origine slovena o croata. Questi ultimi avevano invano sottoscritto una petizione a Badoglio per essere liberati (10). Giudicando intollerabile questa ingiusta situazione di palese disparità di trattamento, intervengono fra gli altri e fanno pressioni a favore della liberazione indiscriminata di tutti i coatti Sandro Pertini, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Vincenzo Baldazzi. In particolare Pertini, anch’egli nella sua qualità di ex confinato, inoltra il 20 agosto insieme a “Dino Roberto pubblicista” una formale richiesta in tal senso al ministro Umberto Ricci:
“[...] Circa 70 confinati politici – scrive l’esponente socialista – non sono stati ancora liberati perché già schedati dalla polizia fascista come anarchici. Ora stando all’assicurazione data da S.E. il Capo del Governo a suo tempo apparsa sui giornali, secondo la quale nessuna discriminazione politica sarebbe stata fatta [...] dovrebbero pure essi godere della liberazione già accordata agli altri”.
L’istanza, dopo aver fatto riferimento anche alla particolare condizione in cui versano gli slavi ed anche alcuni albanesi ed ex miliziani spagnoli, conclude rammentando come l’ulteriore permanenza a Ventotene di questi confinati potrebbe dar adito a gravi incidenti data anche la vicinanza in loco di truppe tedesche. Il giorno seguente la direzione generale della PS comunica con un ‘Appunto’ per il ministro che “la liberazione dei confinati anarchici è stata già disposta”, mentre per gli altri sarebbe già previsto il trasferimento al campo di concentramento di Renicci. Ma il telegramma ministeriale n. 50301 del 21 agosto impiegherà ben tre giornate per giungere sulla scrivania del dottor Guida a Ventotene. Lo stesso in data 24, salpato ormai l’ultimo piroscafo per la tradotta dei coatti che nel frattempo sono ormai giunti con il treno ad Anghiari, ‘tempestivamente’ telegrafa a Roma:
“Disposizioni relative liberazione confinati et internati anarchici non pericolosi mi sono pervenute con notevole ritardo per cui non est stato possibile loro esecuzione da questa sede”.
Pertanto si suggerisce di far esaminare la questione alla direzione del campo di concentramento di destinazione alla quale nel frattempo sono stati inviati anche i fascicoli personali relativi (11). La beffa si aggiunge evidentemente all’ingiustizia. Ed in realtà il ministero aveva già deciso fin dal giorno 12 agosto la destinazione di quelli che erano rimasti nell’isola:
“Internati et confinati maschi colonia Ventotene non compresi recenti provvedimenti clemenza perché comunisti et anarchici dovranno essere trasferiti campo concentramento Renicci di Anghiari [...]” (12).
Anche i comunisti si dichiarano scandalizzati per quanto successo e propongono al Fronte Nazionale la formazione di una commissione d’inchiesta composta da giuristi per la liberazione dei 200 anarchici e slavi “colpevoli di aver combattuto il fascismo” (13). Dalle colonne del risorto ‘Umanità Nova’ si stigmatizza l’opportunismo del governo di Badoglio il quale “in primo luogo ha liberato dalle galere e dal confino i condannati democratici cristiani, i liberali, socialisti, comunisti, dai dirigenti ai più umili gregari, escludendo di proposito gli anarchici”, e si protesta contro questi “obbrobriosi sistemi di persecuzione di pensiero [che] vigono ancora in Italia” (14).
“[...] Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, – scriverà Alfonso Failla, uno degli internati (15) – gli anarchici esclusi dalla liberazione, di fronte al progressivo avanzare dal Sud degli eserciti angloamericani, furono invece trasferiti al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari in provincia di Arezzo [...] C’imbarcarono intorno al 20 d’agosto su una corvetta della Regia Marina non attrezzata al salvataggio di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino Lucetti prigioniero nell’ergastolo dell’isola di Santo Stefano [...]”

Durante il trasferimento, avventuroso, in treno non mancano tentativi per lo più abortiti di fuga, o fughe realizzate come nel caso del torinese Camillo Sartoris, dei fratelli Ferruccio e Carlo Girolimetti da Senigallia, del siciliano Giuseppe Giorlando – tutti anarchici – e del comunista triestino Milan Tercon. A Roma il convoglio si trova coinvolto in un allarme per un bombardamento. Alle fermate nelle varie stazioni successive i prigionieri improvvisano comizi antifascisti. Ad Arezzo – dove si verifica una “diffusa e simpatica comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si trovano in quella stazione” – vi è poi chi, come il reggiano Enrico Zambonini, si rifiuta di proseguire per Anghiari restando nelle carceri aretine fino al dicembre 1943 per finire un mese dopo fucilato con altri partigiani nella resistenza in Emilia (16).

Campo di Renicci – Parco della Memoria (monumento
realizzato dagli alunni dell’Istituto d’Arte di Anghiari, 2004)

Il campo

A Renicci d’Anghiari, località della Valtiberina toscana “nella borgata rurale della Motena”, si trova uno dei peggiori campi di concentramento d’Italia vuoi per numero di internati, vuoi per i comportamenti tenuti dal personale di sorveglianza. Inizialmente destinato ad accogliere fino a novemila prigionieri di guerra, viene ben presto adibito agli internati civili pur rimanendo sotto la competenza dell’amministrazione militare (17). Al momento dell’arrivo degli anarchici e degli slavi già confinati a Ventotene vi si trovano rinchiusi in 4.500, tutti prigionieri ‘ribelli’ deportati dalla Jugoslavia (sloveni, montenegrini, croati) catturati nelle operazioni di rastrellamento, talvolta accompagnati dalle famiglie. Sono ben 500 i militari addetti alla sorveglianza. Il regime di vita, secondo le testimonianze degli internati ma anche del cappellano addetto all’assistenza religiosa esterna don Giuliano Giglioni, è bestiale al punto che lo stesso sacerdote riferisce nel suo diario, a proposito dei numerosi decessi per freddo, scarsa igiene, fame, dissenteria e altre malattie: “I primi furono seppelliti nel cimitero parrocchiale [alla vicina antica pieve di Micciano], ma dietro il mio interessamento presso il comune di Anghiari fu riadattato il vecchio camposanto”. Alcuni moriranno nonostante il tardivo ricovero negli ospedali di Castiglion Fiorentino, Anghiari, Subbiano e Sansepolcro. Alla fine il conto dei morti ammonterà a centocinquantasette (18). Il campo, dove non mancano neppure gli invalidi, gli adolescenti ed i bambini – “uomini di età dai 12 ai 70 anni” –, è diviso in tre settori ciascuno composto di 12 baracche e separati da inavvicinabili reti metalliche. Le persone sono stipate in 15 per ogni tenda e 250 per ogni baracca, ristrette in pagliericci infestati dai pidocchi. Le latrine sono all’aperto. Mancano vestiti e coperte. Tutt’intorno vi sono tre ordini di filo spinato di altezza varia intervallati e con altane di 4 metri per la sorveglianza armata e fari per l’illuminazione notturna. Le pattuglie di guardia nel loro giro disturbano continuamente il sonno dei prigionieri. Al mattino presto ed in qualsiasi condizione meteorologica anche i malati sono costretti a presenziare per ore all’adunata per l’appello. Si tratta insomma di un vero e proprio ‘lager’ – il “campo n. 97” secondo la numerazione assegnata dalle autorità militari – funzionante fin dal settembre / ottobre 1942 costituito da un primo nucleo di baracche a cui poi si era aggiunta una vera e propria tendopoli. In estate si lamentava la mancanza d’acqua potabile e d’inverno il freddo notturno ed il fango causato dalle piogge. Il vitto è scarso, costituito da una magra razione giornaliera di “qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere”; e spesso il tutto è integrato persino dalle ghiande, così come denuncia – ma invano – la Croce Rossa in un suo rapporto al ministero dell’interno. Aiuti umanitari per quanto insufficienti erano giunti anche da parte della Pontificia Opera di Assistenza soprattutto per l’interessamento diretto del vescovo di Lubiana. Anche la ‘Delegazione assistenza emigranti’ dell’Unione delle Comunità israelitiche italiane aveva richiesto autorizzazione per poter intervenire nel soccorso facendo poi riferimento, per l’invio di denari, a due confinati di religione ebraica. Ciò mentre – lamenta il questore di Arezzo – “dalla Venezia Giulia si continuano ad inviare, e sempre in numero più rilevante, pacchi postali contenenti cibarie” (19). La diplomazia vaticana si era attivata fin dal terribile inverno 1942-’43, prima presso il competente ministero della guerra allo scopo di alleviare le sofferenze dei prigionieri, poi con una visita al campo del nunzio mons. Borgoncini Duca che – ha annotato don Giglioni nel suo diario – “ha portato a tutti gli internati il saluto del Papa” insieme a santini e ad una somma di cinquantamila lire.

“Sua Ecc. Rev.ma Mons. vescovo di Lubiana comunicò lo scorso novembre alla Santa Sede un promemoria nel quale esponeva l’infelicissimo stato degli internati civili sloveni trasportati da Gonars a Renicci in quel di Arezzo [...] Ci si dà nondimeno la consolante notizia che alcuni miglioramenti sono stati già introdotti; purtroppo però ben più è quello che vi sarebbe da migliorare e dicesi si vada facendo, ma a poco a poco stante le difficoltà cagionate dal presente stato di guerra. Concludendo, quei poveretti hanno ancora bisogno di molta pazienza per sopportare i loro gravi disagi e patimenti” (20).
Arturo Messinese e Alfonso Failla

La disciplina nel campo – una volta caduto il fascismo – viene mantenuta dai ‘badogliani’, talvolta con il terrore e ricorrendo persino a finte fucilazioni. Dunque nel segno della continuità. Nelle baracche degli slavi intanto è già operante una struttura clandestina del partito comunista – embrione vero e proprio di future formazioni militari – che ha già avuto i primi sporadici contatti con gli antifascisti della Valtiberina. Fin da subito, il giorno 23 agosto al momento stesso dell’arrivo alla piccola stazione di Anghiari sulla (oggi soppressa) linea secondaria per Sansepolcro, i nuovi arrivati possono chiaramente percepire la terribile situazione verso la quale sono stati sospinti: centinaia i soldati ed i carabinieri in assetto di guerra, fatti affluire sul posto per l’occasione, si incaricano senza troppi complimenti di perfezionare l’operazione di internamento degli antifascisti giunti da Ventotene. Iniziano i maltrattamenti e le perquisizioni personali.
Nel campo un reticolato separa i nuovi arrivati dagli slavi.

“La popolazione aveva una simpatia istintiva verso quella gente sconosciuta. Era il sentimento della sofferenza ad accomunare i semplici. A volte, qualche donna con la scusa di far l’erba nei campi più prossimi, approfittando della distrazione, vera o no, delle sentinelle, buttava una mezza pagnotta oltre il recinto. Anche se era come buttare una goccia nel mare, quel gesto ricollegava quegli esseri aggrappati al reticolato, con gli altri. Infrangeva la separazione” (21).
Estate 1943: Prigionieri sloveni in marcia verso Renicci
(raccolta B. Cuccardini)

La nuova presenza nel campo degli anarchici (e di alcuni comunisti istriani e giuliani) – che si aggiunge a quella di un altro gruppo di antifascisti italiani e sloveni appena giunti da Ustica – il loro risoluto atteggiamento di opposizione verso i soprusi perpetrati dal personale di sorveglianza, creano in qualche caso un relativo miglioramento delle condizioni di vita, specie nella disciplina, che comunque rimangono umanamente insostenibili. Per gli anarchici, in massima parte reduci dalla Spagna, risulta impossibile piegarsi alle ferree regole imposte da carabinieri e secondini ancora di manifeste simpatie fasciste; e questi ultimi del resto contraccambieranno gli atteggiamenti di insofferenza nei loro confronti con un odio profondo verso tutti i connazionali detenuti. Già qualche settimana prima la situazione dell’ordine pubblico nel campo era stata oggetto di una dettagliata relazione da parte del comando. Da questa emergono forti elementi di pregiudizio nei confronti delle varie categorie di internati – specie per i primi italiani appena giunti da Ustica – comunque ritenuti “agenti comunisti” che, avendo rinnegato la patria, potrebbero costituire pericoloso elemento di raccordo con l’elemento a tendenza “panslavista russa” già presente a Renicci. Contro la turbolenza dei nuovi arrivati non si esita a ricorrere ai mezzi repressivi più decisi quali le bastonature, la legatura al palo, la camicia di forza o.. il ricovero al Neuropsichiatrico di Arezzo. “[...] provvederò a reprimere rigorosamente qualsiasi attività manifesta. Anche con mezzi estremi”: aveva promesso il colonnello comandante del campo di concentramento ‘badogliano’ (22). Ma da parte dei prigionieri tutti rimane comunque insopportabile l’idea che, caduto il fascismo, gli antifascisti debbano ancora rimanere reclusi.

“La radio – scrive da Renicci uno degli internati (23) – ha ripetutamente comunicato che tutti i confinati politici sono liberati in conformità allo Statuto del regno il quale, garantisce ad ogni cittadino italiano la libertà individuale (art. 21). Infatti è naturale che tutti coloro i quali sono stati esiliati, confinati o carcerati per antifascismo, siano finalmente liberi. Ma non è così [...] Complessivamente ho scontato undici anni di reclusione e nove di confino. Non voglio descrivere qui tutte le mie sofferenze di questo lungo e triste periodo della mia vita voglio solo affermare con orgoglio che non ho mai piegato, che ho avuto sempre il coraggio di affermare dovunque le mie idee libertarie e antifasciste, e che, se realmente il regime fascista è caduto, ho diritto di essere immediatamente liberato, ridato alla famiglia ed all’organizzazione operaia”.
Nel frattempo la burocrazia ministeriale segue lenta il suo corso. Dalla direzione generale della pubblica sicurezza si predispone un primo elenco di 36 prigionieri da liberare con l’avvertenza “che si sta esaminando la posizione di tutti gli internati politici di Renicci e che appena possibile saranno comunicati gli elenchi di quelli da liberare e di quelli da trattenere” (24). Non ce ne sarà però il tempo e gli avvenimenti politici concomitanti suggeriranno ai destinatari di questi provvedimenti soluzioni un po’ differenti. L’8 settembre i prigionieri chiedono in massa le armi per opporsi all’occupazione tedesca e per tutto il giorno seguente si organizzano comizi nei vari settori. Le altre richieste formulate riguardano: la restituzione degli effetti personali sequestrati, la consegna di una radio, l’assunzione in proprio del controllo del campo, il rifiuto di sottostare agli obblighi dell’appello. “Gli anarchici attaccati ai reticolati dalla parte degli slavi [sono] i più infiammati”. Sorge quindi subito l’esigenza di ristabilire l’ordine turbato fra i prigionieri. Il cappellano militare – l’istriano Antonio Zett – è fra i primi a sparare colpi di pistola in aria come avvertimento per i più turbolenti. Il colonnello comandante Pistone, il comandante in seconda ten.col. Fiorenzuola, ed il vice ten. Panzacchi “fascista di Bologna”, irritati anche per i canti sovversivi intonati in coro dai reclusi, non esitano a dare ordine di sparare sugli assembramenti e di piazzare le mitragliatrici. Segue una scarica di fucileria. Rimangono feriti tre slavi (non se ne conoscono i nomi) ed il veronese Carlo Aldeghieri (colpito nello stesso braccio in cui era stato ferito in Spagna), promotori della rivolta insieme ad Arturo Messinese, Marcello Bianconi e Alfonso Failla, mentre a quest’ultimo viene inferta una baionettata alla testa da un carabiniere. La dinamica dei fatti viene così laconicamente ‘telegrafata’ al ministero dell’interno:
“[...] circa 400 confinati assembraronsi cantando inno rivoluzione russa. A ordine rientrare dormitori rifiutaronsi e comandante campo ordinava fuoco che feriva non gravemente quattro internati ristabilendo ordine”.

Per piegare la volontà dei rivoltosi il comando del campo minaccia, ed in parte attua, il taglio della già magra razione giornaliera di rancio. Dalla prefettura di Arezzo si conviene intanto sull’opportunità, per non alimentare ulteriormente il grave clima di tensione innescatosi nel campo di concentramento, di non ostacolare l’eventuale fuga ove questa fosse tentata da parte degli internati italiani o anche di ‘consentire’ un esodo programmato e controllato. Ciò con l’obiettivo evidente di separare i destini delle differenti categorie di prigionieri. La via dell’evasione di massa da Renicci, con i tedeschi alle porte, è dunque aperta da questo episodio di ribellione (25).

Stazione ferroviaria di Anghiari (anni Trenta)

La fuga e la resistenza

Si inizia così la fase di dismissione progressiva della struttura concentrazionaria, in un clima di paura, grande confusione ed aspettative sia da parte dei prigionieri che del personale di sorveglianza ormai più che demotivato.

“[...] Nei giorni che seguirono – testimonierà Failla (26) – alcuni anarchici italiani , evasi dal campo di Renicci insieme ad albanesi ed jugoslavi, costituirono i primi gruppi partigiani che operarono nella zona tosco-marchigiana. Altri ci dirigemmo in tutte le direzioni [...] un ufficiale del comando di Renicci di Anghiari aveva in consegna una quarantina di noi per condurci alla prefettura di Arezzo [...] Alle nostre insistenze, arrivati in località San Firenze pochi chilometri prima di Arezzo ci fece scendere dal camion e, chiamati in disparte chi scrive e Mario Perelli, ci consegnò l’elenco del nostro gruppo dicendoci: – Voi siete responsabili di questi uomini! – Quindi fece girare il camion e ritornò con i soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep, fiorentino, veniva dagli alpini. Io e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si sciolse e ciascuno si avviò in direzioni diverse verso tutte le strade che ricordano vivi e morti, la loro presenza nella storia vera della lotta per la libertà [...]”.
Dal campo inizia così l’esodo alla spicciolata. L’11 settembre un altro gruppo di una decina di italiani, fra cui l’anarchico triestino Umberto Tommasini, viene prelevato e scortato dai carabinieri, e questa volta fino alla questura di Arezzo. Ma qui, anche a causa della grande confusione causata dall’arrivo quasi contestuale delle truppe germaniche, non ottenendo il foglio di via ed i documenti “necessari” promessi, il gruppo si disperde ed ognuno prende la via non facile di casa. A Firenze, dove nel giorno successivo alcuni sono giunti nel frattempo in treno e fortunosamente, gli ex internati apprendono con sgomento della avvenuta liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e solo per poco evitano di essere nuovamente arrestati, questa volta dai tedeschi che stanno occupando la stazione (27).
Intanto fra le migliaia di slavi e le poche decine di internati italiani rimasti ancora a Renicci matura l’idea di organizzare una fuga in massa. Il progetto prende immediatamente corpo nel pomeriggio del 14 settembre quando all’improvviso compaiono tre autoblinde tedesche alle porte del campo. Gli ufficiali, che pure avevano esortato già poche ore prima i subalterni a mantenere la calma ed a tenere a qualsiasi costo il proprio posto, sono i primi ad abbandonare Renicci. La paura di essere deportati in Germania che aleggiava in quei giorni fra i prigionieri si fa una cosa reale e tangibile. I tedeschi hanno promesso che torneranno fra due ore. Alla fuga degli ufficiali segue quella dei soldati e quindi, una volta creati i varchi nel recinto, di “tutta la fiumana dei cinquemila internati che si riversa in tutte le direzioni”, con grande impressione della gente che abitava nelle vicinanze. Qualcuno, prima di fuggire, penserà ad incendiare tutti i documenti nell’archivio della palazzina comando. Lunghe file di prigionieri affamati e malmessi si incamminano così verso l’Appennino seguendo, almeno nelle intenzioni, la direzione Adriatico-Jugoslavia. “Sul fare della sera – annota don Giglioni nel suo diario (28) – il campo è rimasto deserto”. Per la verità resta ancora un piccolo gruppo di croati che sarà fatto rimpatriare direttamente dai tedeschi nel mese successivo ed alcuni malati gravi subito trasportati all’ospedale di Sansepolcro. Settecento degli sloveni fuggitivi saranno invece catturati nei pressi di Bologna ed avviati nei lager in Germania; altri si aggregano alle formazioni partigiane nelle Marche e in Romagna, pochissimi riusciranno a raggiungere la Slovenia. La struttura recintata di Renicci viene frequentata nei giorni seguenti da saccheggiatori alla ricerca di armi, di coperte e di indumenti militari. All’ufficio postale di Anghiari si accumulano in giacenza vaglia, corrispondenza varia e pacchi, verosimilmente di generi di conforto, provenienti dai territori delle province di Lubiana e della Dalmazia, diretti ai prigionieri e che certo non saranno mai consegnati ai legittimi destinatari. Del resto anche durante la vigenza del campo il denaro ed i pacchi in arrivo venivano sistematicamente derubati ed i responsabili della sorveglianza erano già fuggiti con la cassa, circa 700.000 lire (29).
L’ex campo di concentramento “n. 97” avrà ancora un uso limitato sotto la Repubblica di Salò, in particolare per internare i genitori dei renitenti alla chiamata alle armi o per accogliere qualche gruppo di profughi (30).
Nei giorni della grande fuga da Renicci il Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista dispone subito l’accoglienza e la sistemazione degli ex internati che sono rimasti in zona – in genere presso famiglie di contadini o nei rifugi impervi dei carbonai nel territorio del comune di Caprese Michelangelo – ed il loro eventuale reclutamento nei nuclei partigiani che già si stanno formando sui rilievi montuosi intorno al capoluogo e nelle vallate aretine, specie fra Casentino e Valtiberina. Qui gli sbandati si aggregano alla formazione autonoma “Tifone” (la futura “Tani-Zuddas”), comandata dall’ex brigadiere dei carabinieri Giovanni Zuddas, alle “Bande Esterne” di Eduino Francini ed alla c.d. “Banda Autonoma del Russo” (questa formata tutta da stranieri fra cui anche tedeschi disertori), partecipando poi attivamente alla guerriglia antifascista anche con un contributo di sangue. Fra i caduti il più conosciuto il giovane studente comunista Drusan Bordon di Lubiana. Nel marzo 1944 sarà proprio il “Plotone Slavi” (poi inquadrato nella XXIII brigata garibaldina “Pio Borri”) ad assaltare e disarmare la caserma dei carabinieri presso il campo di Renicci e la caserma GNR di Caprese Michelangelo. Il ricostituito presidio delle camicie nere effettuerà continui rastrellamenti sui Monti Rognosi alla ricerca degli ex internati (31).
Il ruolo fondamentale di contatto fra gli slavi evasi da Renicci e le formazioni partigiane operanti nella zona viene svolto dall’anarchico Beppone Livi di Anghiari, combattente nella “Tani-Zuddas” e nella “Banda Autonoma del Russo”, esponente di prima fila della resistenza aretina di cui costituisce – insieme al proposto mons. Nilo Conti – il principale punto di riferimento per la Valtiberina. È il responsabile, insieme alla moglie Angiola Crociani, del vettovagliamento per i trecento slavi armati che si trovano ancora nascosti in zona, nei castagneti del Ponte alla Piera e di Pieve S.Stefano. “Unico” e “Iconoclasta” sono le parole d’ordine di cui si servono gli ex-internati per questo tipo di contatti con la Resistenza. Per un certo periodo di tempo il Livi svolgerà anche funzioni di collegamento con il CLN toscano a Firenze, in specie con elementi del partito d’azione, e porterà a compimento la “missione Morris” smascherando l’attività di una spia infiltrata nelle file della Resistenza. Nel capoluogo toscano mantiene anche contatti con l’anghiarese Lato Latini, tipografo del giornale clandestino anarchico “Umanità Nova”. Livi opera in stretta collaborazione con Sante Tani, futuro martire della Resistenza aretina. Arrestato dalla GNR uscirà di carcere ‘grazie’ ad un bombardamento, scampando così alla deportazione in Germania. La Resistenza in Valtiberina è così connotata anche dalla presenza libertaria così come si verificherà, sebbene in modo più rilevante, anche in Valdarno dove il movimento anarchico ha la sua rappresentanza a livello di CLN locali (32).
Anche per la settantina di anarchici italiani già rinchiusi a Renicci si era aperta la fase, decisiva quanto agognata, della lotta armata di massa contro il fascismo. Il pensiero corre alle delusioni patite in Spagna. Per loro l’obiettivo resta comunque quello di creare le condizioni per la realizzazione degli ambiziosi programmi politici e sociali stabiliti a Ventotene. Alcuni di questi ex internati si ritroveranno fra i combattenti delle formazioni autonome anarchiche operanti nelle loro città di origine, dove si uniscono agli altri compagni che già si stanno organizzando: a Torino, Milano, Pavia, Genova, Carrara, Pistoia, Firenze. Perelli e Failla sono solo due esempi in tal senso. Altri reduci da Renicci opereranno in diverse località – e talvolta anche con importanti incarichi (come nel caso di Emilio Canzi, comandante della XIII zona del Corpo Volontari della Libertà) fra i ‘garibaldini’ e le ‘Matteotti’ mentre stretti saranno sempre i rapporti con gli esponenti del Partito d’Azione, specie in determinate regioni. Qualcuno conoscerà ancora il campo di concentramento, in Germania e questa volta senza ritorno. Ci saranno anche molti caduti in scontri a fuoco con i nazifascisti, o vittime della repressione messa in opera dagli Alleati contro le frange rivoluzionarie del movimento partigiano.

Giorgio Sacchetti

Note

  1. Il presente saggio (già edito su “Atti e Memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze”, Arezzo, LVIII, 1996 e su “Pagine Altotiberine”, a cura dell’Associazione Storica dell’Alta Valle del Tevere, San Giustino, a. XII, fasc. 34, gen./apr. 2008, pp. 41-64) integra –sulla base anche di nuove acquisizioni documentarie- i contributi del medesimo autore presentati al convegno internazionale di studi “2a guerra mondiale e sterminio di massa. Stragi e rappresaglie nella lotta di liberazione” (Arezzo, novembre 1987), ed alla giornata di studi su “L’antifascismo rivoluzionario tra passato e presente” (Pisa, aprile 1992), rispettivamente pubblicati in I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990, alle pp.225-261; e in AA.VV., Atti della giornata di studi su l’antifascismo rivoluzionario, BFS Pisa 1993, alle pp.39 e ss. Le nuove acquisizioni riguardano documenti sul campo di concentramento di Renicci conservati in copia presso il Museo e Biblioteca della Resistenza di Sansepolcro (Arezzo) e provenienti in gran parte o dall’ex Istituto storico dell’Armata Jugoslava o dall’Archivio centrale dello stato, serie PS / Mobilitazione civile; a questo si aggiungono testimonianze di ex internati jugoslavi e l’interessante volume di genere memorialistico locale curato dal senatore Giuseppe Bartolomei, testimone oculare della “grande fuga” dal campo di Renicci.
  2. Cfr. G. Jaksetich, Testimonianza, pp. 41-43, inedito depositato c/o Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli e Venezia Giulia, Trieste.
  3. Il documento, datato 15/7/1943, porta il titolo: Le forze del FN. Cfr. P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, vol. IV, La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Torino 1978, pp. 249-50.
  4. Il resoconto di questo convegno – databile fine 1942 – in “Umanità Nova”, Roma 7 gen. 1945. Per il testo dell’o.d.g. approvato, cfr. anche U. Fedeli, Il movimento anarchico in Italia nel secondo dopoguerra, in “Almanacco Socialista 1962”, Milano 1962, pp. 473-4.
  5. Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati (PS), 1943, busta n.27, C2.
  6. Ibidem, telegr. in data 30/7 e 5/8/1943, da Direzione Colonia Ventotene a Min. dell’Interno Gab. PS Roma. Così poi il telegr. 18122 del 28/7/1943: “[...] informo che confinati politici e internati non nascondono impazienza di conoscere provvedimenti [...] Per ora essi contengonsi nei limiti più rigorosa disciplina [...] avendo questo ufficio fatto conoscere che non sarebbe tollerato alcun atto di ribellione. Attendo precise urgentissime istruzioni [...] Guida”.
  7. Cfr. Un trentennio di attività anarchica (1914-1945), Cesena 1953, p.109.
  8. Cfr. P. Secchia, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di liberazione, Milano 1975, pp.63 e ss.
  9. Cfr. Circolari Min. dell’Int. nn.49216 e 49386/441, del 14 e 15/8/1943, in ACS, cit.
  10. La petizione, firmata “Internati confinati minoranze sloveno-croate”, era stata inoltrata al capo del governo in data 14/8/1943 (Ibidem).
  11. Ibidem per il carteggio ministeriale Roma-Ventotene e per la lettera di Pertini. Sugli interventi delle varie personalità della sinistra a favore della liberazione degli anarchici, cfr. “Umanità Nova”, s.l. (ma Firenze) n.349 del 29 ott. 1944, I partiti fondamentali.
  12. Cfr. telegr. 49082/451 del 12/8/1943 a R. Prefettura di Arezzo, sta in Museo e Biblioteca della Resistenza Sansepolcro, cartella “Renicci – Jugoslavia” (d’ora in avanti: MBRS).
  13. Cfr. “L’Unità”, n. 15 del 7 set. 1943, Compagni che ritornano.
  14. Cfr. “Umanità Nova”, s.l. (ma Firenze) n. 343 del 10 set. 1943, Libertà ai condannati e ai confinati politici vittime del fascismo.
  15. In “L’Agitazione del Sud” Palermo, n. 9/1966.
  16. Ibidem (testimonianza Failla); cfr. MBRS, R. Questura di Roma 29/8/1943, n.069866; e A. Zambonelli, Vita, battaglie e morte di Enrico Zambonini (1893-1944), Reggio Emilia 1981.
  17. Cfr. C. Ghini, A. Dal Pont, Gli antifascisti al confino, Ed. Riuniti Roma 1971, p.174; e MBRS, R.Prefettura Arezzo 31/10/1942, n.010144.
  18. Agli atti del MBRS risulta (O. Goretti, 27/3/1995): “[...] in occasione della raccolta dei resti mortali da custodire nel Sacrario Jugoslavo esistente nel nostro Cimitero Urbano [di Sansepolcro, ndr] (che raccoglie i resti dei caduti jugoslavi nell’Italia Centro Settentrionale) si sono avute le seguenti esatte provenienze: Anghiari (cimiteri di Anghiari e Micciano) n.106, Arezzo n.13, Castiglion Fiorentino n.16, Sansepolcro n.22; a Subbiano non risulta avvenuto nessun decesso; così il totale sarebbe 157”.
  19. In MBRS: Min. della Guerra / Gabinetto (copia), Unione delle comunità israelitiche italiane – Del. assistenza emigranti, Genova 3/5/1943; R.Questura di Arezzo, 17/7/1943 n.8906; e Istituto storico militare dell’Armata Jugoslava, Archivio delle formazioni militari avversarie, N. Reg. 30/11-i/F, K.316/F.
  20. Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, vol. 9, Le Saint Siège et les victimes de la guerre. Janvier-Décembre 1943, Libreria Editrice Vaticana 1975, doc.51, lettera di padre Tacchi Venturi al card. Maglione del 13/2/1943 (rep. in MBRS). Stralci del Diario di Don Giuliano Giglioni in appendice a G. Sacchetti, Renicci: un campo di concentramento per slavi ed anarchici, sta in I. Tognarini (a cura di), op. cit.
  21. G. Bartolomei, I sentieri della guerra. Zibaldone di voci, di impressioni e di notizie sulla guerra in Valtiberina e dintorni, I.T.E.A. editrice, Anghiari 1994, p.49. Per altre testimonianze sulle condizioni di vita degli internati, cfr. G. Sacchetti, op. cit.
    Planimetria e foto d’epoca del campo presso MBRS e pubblicate in I. Tognarini (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo 1943/1944. Immagini e documenti, Arezzo 1987, p.48.
  22. MBRS, Campo concentramento internati civili / Ufficio Comando, Relazione sulla condotta e sulle manifestazioni degli internati in occasione della caduta del regime fascista, 5/8/1943.
  23. È Giovanni Domaschi, nel 1944 deportato in Germania senza ritorno. La lettera, datata “Renicci 8/9/1943” e indirizzata al “Corriere della Sera”, è stata pubblicata su “L’Adunata dei Refrattari”, New York 4 set. 1948, e riprodotta in P. Bianconi, Gli anarchici nella lotta contro il fascismo, ediz. Archivio Famiglia Berneri Pistoia 1988, pp.191-5.
  24. ACS, PS, Casellario Politico Centrale (CPC), busta n.5246, fasc. Turcino[vich] Nicolò di Giuseppe, Appunto per il Dott. Tagliavia, 31/8/1943 n. 5751/Cas.
  25. Cfr. telegr. n.22200 del 10/9/1943 da Borgo Sansepolcro a Min. dell’Int., in MBRS; N. Stane, Testimonianza, in MBRS; L. Bukovac, Bili so uporni [Furono ribelli], Partizanska knjiga, Ljubljana 1983 (rep. in MBRS); “Umanità Nova”, s.l. (ma Firenze) n.345 del 24 set. 1944, Un episodio al tempo di Badoglio; G. Bartolomei, op. cit., pp. 72-5; e la testimonianza di Failla su “L’Agitazione del Sud” cit.
  26. “L’Agitazione del Sud” cit.
  27. Cfr. G. Jaksetich, op. cit.; e C. Venza (a cura di), Umberto Tommasini / L’anarchico triestino, Ed. Antistato Milano 1984, pp.433-5.
  28. Appendice cit. in G. Sacchetti, op. cit. La fuga dal campo è efficacemente descritta da G. Bartolomei, op. cit., pp 75 e ss.
  29. MBRS, Min. delle Comunicazioni, Dir. Gen. Poste e Telegrafi, telegr. 816.990-Gme=711 del 5/10/1943; N. Stane, op.cit.; e Istituto storico militare dell’Armata Jugoslava, cit.
  30. Cfr. G. Bartolomei, op. cit., p.89.
  31. Cfr. A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, pres. di G. Salvemini, Badiali Arezzo 1957, passim.
  32. Ibidem. Sul partigiano combattente Giuseppe Livi (1899-1972), venditore ambulante di Anghiari, anarchico schedato dagli anni Venti per i suoi contatti con Errico Malatesta, più volte carcerato durante il periodo fascista, cfr. anche: ACS, PS, CPC, busta n. 2800; G. Sacchetti, Giuseppe Livi, partigiano o spia?, in “Corriere Aretino” 23 giu. 1987; Dizionario Biografico degli Anarchici italiani, BFS, 2004, ad nomen. Di lui G. Bartolomei, op. cit., p.64, ha scritto che “i comunisti gli giravano alla larga non senza buttargli addosso spruzzate di veleno”. Nel 1948 fallisce il tentativo di farlo passare come ex-spia dell’OVRA. Sulla qualità di combattente partigiano del Livi attestano oggi anche documenti del CPLN. Le vicende della Resistenza aretina sono ora narrate in modo organico nel volume di E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci editore Cortona 1995.

Gli anarchici dalla A alla Z

Antifascisti anarchici provenienti dal confino di Ventotene e internati nel campo di concentramento di Renicci d’Anghiari (agosto-settembre 1943)

Elenco provvisorio*

Carlo Aldeghieri, Secondo Balboni, Giacomo Barca, Agostino Barison, Attilio Bassi, Celso Bendanti, Marcello Bianconi, Bruno Emilio Bibbi, Giovanni Bibulich, Angelo Bonfiglioli, Golfiero Bonucci, Mario Bordoni, Emmerigo Boso, Alpinolo Bucciarelli, Emilio Canzi, Teresio Caron, Carlo Castagna, Renato Castagnoli, Dario Castellani, Achille Checchi, Alberto Colini, Lodovico Corti, Italo Del Proposto, Raffaele De Lucchi, Alberto Di Giacomo, Giovanni Diotallevi, Giovanni Battista Domaschi, Aristide Donadio, Lorenzo Emiliozzi, Dante Erede, Alfonso Failla, Egidio Fossi, Lorenzo Gamba, Sabatino Gambetti, Mario Girolimetti, Renato Gori, Ernesto Gregori, Marino Grilli, Onofrio Lodovici, Walter Magnoni, Armando Malaguti, Enrico Manzoli, Giuseppe Marchini, Libero Mariotti, Emilio Marziani, Ulisse Merli, Giuseppe Messinese, Lucia Minon, Guerrino Moscardi, Gualtiero Nubola, Luigi Orsetti, Adelino Paini, Mario Orazio Perelli, Carlo Pergoli Campanelli, Corrado Perissino, Antonio Persici, Guido Polidori, Francesco Prevosto, Anselmo Preziosi, Enrico Puddu, Paolo Puddu, Anselmo Rambaldi, Amedeo Ramoni, Paolo Rapetti, Bernardo Repetti, Giuseppe Riva, Pasquale Rusconi, Silvio Sardi, Antonio Scroglieri, Umberto Seidenari, Tommaso Serra, Aggio Simoncini, Pasquale Simoncini, Giuseppe Spadi, Emilio Strafelini, Libertario Tassi, Umberto Tommasini, Leone Tralci, Nicola Turcino [ma Turcinovich], Enrico Velo, Lodovico Vergendo, Archimede Vitellozzi, Luigi Zanon [o Zanone], Armando Zazza.

* Le fonti: ACS, PS, CPC, busta n.5246 cit., ‘Appunto per il Dott. Tagliavià cit. [primo elenco degli internati politici di Renicci da liberare]; e – passimAntifascisti nel Casellario Politico Centrale, quaderni dell’A.N.P.P.I.A., nn.1-19, Roma 1988-’95; A. Lopez, La Colonna italiana, A.I.C.V.A.S. Roma, quaderno n.5/1985; C. Venza (a cura di), op. cit.; M. Puppini, In Spagna per la libertà. Antifascisti friulani, giuliani e istriani nella guerra civile spagnola 1936/1939, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 1986.