rivista anarchica
anno 40 n. 353
maggio 2010


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Del cercare, del trovare e del comporre

parlando con Giovanna Marini

Compositrice

Giovanna Marini

Compositrice è il termine che le si addice.
È la storia in cui è nata e cresciuta. È ciò che ha sempre fatto, ciò che fa meglio di ogni altra cosa. Fra i compositori del suo tempo Giovanna Marini può vantare il più vasto, variegato, inclassificabile uditorio e un campo d’azione sterminato. La ricerca di canzoni popolari, la loro trascrizione, rielaborazione e riproposizione, la composizione di cantate, spettacoli, musiche di scena, opere liriche, in cui gli stilemi del canto tradizionale si fondono con i percorsi della musica contemporanea più rigorosa.

G M: i miei erano musicisti rigorosissimi. Mia mamma compositrice e pianista, fra le prime donne a dirigere i propri pezzi, s’era perciò guadagnata una certa fama. Papà era di famiglia “papalina”, vivevano dietro le finestre chiuse di un mondo che, dopo il concordato, percepivano nemico. Papà per evadere da quel mondo era diventato compositore, studiando, dapprima da solo, come un pazzo. Era un grande musicista, purtroppo morto a 29 anni nel ’37, quand’io ero appena nata. Sono cresciuta all’ombra della memoria di questo padre famoso, con questo nome ingombrante di Salviucci, che poi, nella mia carriera, non ho voluto usare. Dopo la sua morte mia mamma, per campare, insegnava armonia al conservatorio.

Eppure se c’è una cosa che fa arrabbiare Giovanna è quella certa comune ritrosia ad accostare al suo nome la definizione di compositrice.
Ci sono altri compositori colti che hanno scritto meravigliose canzoni, cicli di lied, cantate (Weill, Theodorakis). Ci sono compositori che hanno scritto musiche da film e per teatro (Nino Rota). Ce ne sono che hanno intrapreso la ricerca sulla musica popolare, che hanno sviluppato metodi didattici innovativi. C’è qualche compositore che ha voluto giocare un ruolo attivo nella storia culturale del suo paese, che ha preso parte a dibattiti culturali, istanze di rinnovamento, rivoluzioni linguistiche. Ce ne sono assai pochi che con la loro stessa presenza, col carisma personale, hanno fatto tutto questo assieme: il vulcano viene sempre guardato con sospetto.
Giovanna Marini è una compositrice capace di cantare alle piazze italiane gremite di persone, in una rassegna estiva o in una manifestazione sindacale. Giovanna può andare a cantare per mesi nei teatri francesi dov’è venerata come una delle grandi ambasciatrici musicali del nostro tempo. Giovanna Marini è continuamente sollecitata, dai più bei nomi della cinematografia e soprattutto del teatro, a comporre musiche per film e per spettacoli.
Io ritengo che non solo il suo lavoro in questo senso sia tanto straordinario quanto copioso, ma che la capacità di comporre in Giovanna sia un’intenzione, un destino, una chiave di lettura del mondo. Uno strumento per dare bellezza, per comunicare dubbi, per risvegliare speranze. Una ragione di vita capace di dare ragione alla vita.
La ritrosia del mondo accademico a riconoscere non tanto il valore – quello è del tutto indiscutibile, 50 anni di pratica musicale fanno dell’opera della Marini un monumento – quanto la collocazione di quest’artista denuncia il grande provincialismo culturale delle nostre istituzioni.
A far da contraltare a questo però c’è anche una certa tendenza degli aficionados della musica popolare, dei barricaderi della canzone politica, a volersi tenere la Marini tutta per sé, come se riconoscere l’omogeneità del suo percorso a tante ricerche della musica del ‘900 (si pensi a Bartok), ci privasse della sua straordinaria voce d’interprete, della sua inesausta curiosità, del suo impegno.

Una casa piena di musica e parole

Entrare nella casa di Giovanna Marini, perduta nella campagna che domina Roma, fra splendide chitarre, cani, gatti, partiture, figli dei vicini che vi sciamano all’improvviso, libri, amici, dischi, quadri, allievi, stampe… vuol dire affacciarsi non nella casa/museo di un artista celebre, ma nella tana di uno straordinario animale musicale ammalato di curiosità.
Giovanna è assetata di ogni umano racconto, di ogni musica della voce, non accetta domande se non per rivolgerne altrettante all’intervistatore, e così mi trovo improvvisamente io, venuto per parlare con questo mito vivente, ad almanaccare sulla storia della musica, sulle possibilità del futuro, a dare il mio punto di vista anarchico sui disastri della politica attuale e ad ascoltare di quando Giovanna, in America nei primi anni ’60, chiacchierava a cena con gli stessi anziani militanti che avevano fatto conoscere, negli anni ’20, il caso Sacco e Vanzetti. “Ne parlavano con le lacrime agli occhi, ancora un po’ preda di rimorsi vecchi di quarant’anni, per aver creato il caso politico Sacco e Vanzetti e aver sancito così, nello scontro frontale col potere, la certezza della loro condanna”.
Nella casa di Giovanna Marini il piacere della narrazione prende voce da ogni cosa. Questa casa rispecchia i mille rivoli della conversazione, i centomila interessi che vi si depositano, le cartoline simboliche di un viaggio lungo una vita in cui si è accumulato di tutto. Persino un “disco di platino”.

G M: alla fine io e Francesco de Gregori abbiamo fatto un bel disco.

A L: forse persino più importante che bello, dischi belli ce n‘è tanti in giro, ma dischi che riescano a muovere il gusto popolare in una certa direzione scarseggiano.

G M: io non ero convinta, ho detto “Francesco, tu ti perdi i tuoi fan perchè ti sentono fare ‘ste cose popolari. Io mi perdo i miei perché mi sentono cantare col cantautore senza preoccupazioni filologiche”. Lui m’ha detto “ma a te fa piacere farlo?” a me faceva piacerissimo, perché noi cantiamo spesso assieme a casa, lui abita come me in campagna, ci facciamo visita”… “se ti diverti quando cantiamo, registriamolo così poi si vedrà”. Lo abbiamo fatto a casa, tanto che lo chiamavamo il “disco del caminetto”. Poi è uscito: centottantamila copie. Un grande successo, non dico per i miei, ma anche per i suoi standard.

“Il fischio del vapore” (2002), il CD firmato da De Gregori e della Marini è stato il disco capace di riavvicinare alle canzoni popolari le generazioni nate fra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, che tutto ignoravano dei Cantacronache, dei Dischi del Sole, dell’Istituto Ernesto de Martino. Un’operazione culturale che l’appeal mediatico di De Gregori e la credibilità di Giovanna hanno trasformato in un grande successo, nella chiusura di un cerchio idealmente iniziato con “Bella ciao” e “Ci ragiono e canto” che, nella prima metà degli anni ’60, avevano razionalizzato e reso fruibile il lavoro di ricerca sul campo della musica popolare.

A L: è il tassello più evidente di un mosaico iniziato quattro decenni prima con lo scandalo di “Bella Ciao”, leggendario spettacolo (registrato anche su disco) che vi costò una denuncia e un processo. Allora come fu costruito il cast e la scaletta?

G M: con grandi litigate fra i vari Bosio, Leydi e compagnia, litigare era un po’ lo stile tipico degli intellettuali di sinistra dell’epoca (stile che a dire il vero non è stato del tutto perso). Litigate sui pezzi, sugli interpreti cui affidarli, insomma, su tutto. Io facevo un po’ da interprete fra i nastri originali forniti da Bosio e Crivelli che faceva la regia, perché i nastri presentavano asprezze dure da digerire per orecchie non abituate, allora io ne cantavo versioni più comprensibili, e così, se prima Crivelli aveva detto “questa è una lagna”, poi faceva “bella, bella... teniamola”. Così, fra il regista che avrebbe voluto che cantassimo solo noi con le voci più potabili e Bosio che avrebbe voluto sul palco solo interpreti popolari, si arrivò a un compromesso.

A L: alla faccia del compromesso! Quando al Festival dei Due Mondi di Spoleto cantaste O Gorizia tu sei maledetta ci fu una rissa in platea e vi beccaste una denuncia e un processo!

G M: all’inizio ero ingenua, non ascoltavo le parole: chi è musicista non ascolta mai le parole per il loro significato, si perde dietro il valore sonoro. Così quando all’esecuzione della strofa che dice “traditori signori ufficiali / voi la guerra l’avete voluta”, scoppiò quel putiferio, io non avevo capito niente e pensavo solo “ma quant’è bella questa melodia in do minore”.

Giovanna Marini

Il canto necessario

G M: Gianni Bosio aveva un suo progetto in testa. Lui depositava tutti questi canti popolari, gestiva le edizioni affidando alcune esecuzioni a cantanti allora in voga come Rosanna Fratello o Anna Identici, corredava quei dischi di note, libretti esplicativi, sorvegliandone persino l’asciuttezza esecutiva, in modo che i brani divenissero conosciuti e fossero restituiti al pubblico popolare da cui erano nati. Il proletariato avrebbe così preso conoscenza della sua propria cultura orale – bistrattata dall’accademia e castrata dalla televisione – per ritrovarsi in mano questa formidabile arma, perché la cultura è sempre l’arma più potente.
Poi Gianni nel ’71 è morto, s’è perso il controllo, alcuni hanno cominciato a rubacchiare queste canzoni, i più se ne sono completamente disinteressati, fino ad arrivare al silenzio assordante degli anni ’80 e ’90
.

A L: resta in piedi la domanda sullo specifico che permette di riconoscere un canto popolare. Che sia un testo dell’avvocato Pietro Gori arrivato fino alle orecchie delle mondine, piuttosto che i motivi intrinsecamente popolari rielaborati da quel poeta illetterato che fu Matteo Salvatore, qual è il tratto comune che rende prezioso questo materiale?

G M: è un canto necessario perché è canto collettivo. I singoli cantori, quando cantano, non è vero che improvvisino, ma è vero che ognuno di loro s’impossessa del canto attraverso i melismi, ogni cantore li fa in un suo modo totalmente personale, tanto da essere riconoscibile, diventando autore.
Il canto popolare è una struttura di pochi suoni scelti sui quali stanno i melismi: e tu quelli non puoi togliergli, quei melismi sono il canto, se li togli diventa una banale canzonetta sanremese, ma se capisci quei melismi e sai restituirli nella tua esecuzione, quello è canto popolare, cultura collettiva che esprime assieme il cantore, la sua storia e la Storia del suo popolo.
Già solo la definizione di “canto popolare” è una definizione che tiene assieme cose diversissime: “canto contadino”, “canto anarchico”, “canto sociale”. Il canto contadino, ad esempio, è la cosa meno rivoluzionaria che c’è, perché è canto rituale, se gli togli la sua ritualità e lo cambi non ha più la sua funzione, rito e funzione devono andare associati, come diceva de Martino
.

A L: paradossalmente nella radicalità di restare ancorati alla ritualità, in questo mondo che vuole venderti tutto in ogni stagione, il panettone da ottobre a marzo, forse c’è il segno di una nuova resistenza.

G M: l’intenzione sta diventando rivoluzionaria. Musicalmente parlando però è solo la musica colta quella che vuole evolversi, guarda il percorso di Stravinski, Grieg, Bartok. La musica colta sa prendere dalla musica popolare elementi per rivoluzionarsi, ma la musica contadina non rivoluziona sé stessa. Ci sono però canti che, dato il contesto in cui li porti, possono animare la gente a cambiare il mondo.

A L: a me pare che la musica colta, per quanto linguisticamente rivoluzionaria, risulti fredda e distante, quella popolare può ribaltare le coscienze.

G M: oltre la chitarra ho avuto anche la sventura di studiare composizione, che è una fregatura, quando studi composizione poi non componi! Capisco di cosa parli. La generazione di mio padre aveva respiro, qualche pezzo di Petrassi, Dallapiccola e appunto Salviucci si esegue ancora, ma dopo sono arrivate associazioni pazzesche di musica incongrua, musica senza respiro. Le follie di Stockhausen e di quegli altri pazzi della scuola di Darmstadt hanno reso la musica inascoltabile. Ora finalmente ripartendo da Arvo Part e Britten, che non hanno mai perso la testa, si ricomincia a capire che la musica è fatta anche di suoni piacevoli.

Le voci, le persone, i racconti

Giovanna Marini è anch’essa una grande rivoluzionaria del linguaggio. Ricercatrice, come i musicisti contemporanei, ma ancorata alla concretezza, alla funzionalità, alla frequentazione con la musica popolare. Per inserire provocazioni nelle sue opere più complesse non ha bisogno di disumanizzare il suono, di utilizzare l’elettronica, di portare il rumore della lavastoviglie in scena. Giovanna utilizza l’arcaico mistero della voce popolare che rompe ogni schema.

G M: la ricerca timbrica che c’è nel canto popolare non c’è nella musica classica. Quando hai cinquanta cantanti popolari hai cinquanta strumenti, quando hai cinquanta soprano sono tutte soprano uguali, ci vuole una Callas per uscire dal conformismo!
All’epoca dei generosi tentativi dell’associazione “Musica Realtà” di mettere in relazione musicisti popolari e musicisti colti, sensibili alle nostre istanze politiche (Canino, Pollini, Nono, Berio), io m’ero incaricata di fare da tramite, quanto meno capivo e parlavo il linguaggio dei musicisti classici. Laddove in un canto popolare c’è un discanto che avrebbe fatto impazzire un colto per gli urti sonori tremendi, io esaltavo proprio quell’apparente incongruità, quella ricerca timbrica più moderna della musica contemporanea. Questo è diventato il mio marchio di fabbrica
.

A L: l’altro tuo marchio di fabbrica è il racconto, la narrazione permanente, chi ha visto qualche tuo spettacolo sa che il racconto – accompagnato da un ostinato arpeggio ripreso da un canto di cantastorie –, il brano popolare, la lunga cantata per quartetto, si alternano fra loro senza soluzione di continuità. Tu restituisci così, con grande generosità, la memoria viva di alcuni personaggi leggendari – come Giovanna Daffini – quasi con religiosità.

G M: la mia generosità non è poi così generosa, penso che sia anzi molto proficua. Quando racconto di Mariuccia Chiriacò, di Giuseppe Miriello, di Peppino Marotto, rendo più interessante il pezzo che canto, dunque la gente è più attratta: raccontare vuol dire spalancare un orizzonte alla gente. Non puoi stare lì a cantare e basta, perché il canto è effimero, vola, passa, mentre se racconti cose di persone, resta molto più in mente.
Ho voglia di raccontare, mi piace e non vedo il senso di una musica senza parole, proprio come questione musicale: le parole sono un’aggiunta ritmica, è come avere la batteria. E poi le parole devono pur dire qualcosa, dire solo “amore mio ti amo” non mi basta. Quindi il racconto è fondamentale, tutto fa ritmo
:

“Verso le due
dentro a Regina Coeli
entrano le SS
aprono le porte
vanno di cella in cella
gridano nomi…”

A L: è l’inizio del canto dedicato all’eccidio delle fosse ardeatine, una memoria che ti è rimasta nel sangue.

Non si può dimenticare

G M: uno dei miei primi ricordi: passavamo da Piazza Venezia quando il duce fece quella famigerata dichiarazione di Guerra… nella folla correva voce “i cappelli, i cappelli, dobbiamo agitare i cappelli”. Il nonno naturalmente non agitava un cazzo perché era antifascista. E io ricordo il duce che diceva “noi ne faremo polpette!” e il nonno m’ha guardato e m’ha detto “bimbetta andiamo via che questo è un pazzo”. Me lo ricordo perfettamente.
Noi avevamo tre ebrei in casa... il coraggio della nonna e del nonno! Quelli venivano, venivano continuamente a fare le perlustrazioni. Chi si salvava si salvava in modi fortunosi: una volta la porta si spalanca e un nostro amico ebreo, molto magro, rimase dietro la porta e non l’hanno visto. Altri passavano dalle finestre – non so nemmeno come – e si nascondevano nella vasca da bagno. Era pericolosissimo, perché i fascisti avevano le spie e spesso arrivavano a colpo sicuro, come quando hanno preso Sabatello, che aveva un negozio di merceria nel nostro stesso palazzo, con la sua famiglia... morti tutti... non si può dimenticare
.

Giovanna Marini

Il cielo si fa nero, è quasi sera.
Sento muovere nel cortile
vedo i camion pronti a partire
e quelli con le mani legate issati
sui camion in un silenzio straordinario
e i soldati con i mitra puntati
e loro dentro accovacciati
e da noi gli sportelli sono tutti sprangati,
c’è un gran silenzio.
Ma una donna si mette a gridare,
urla lamenti, ci fa male.
È la moglie di Genserico Fontana,
non riescono a farla tacere, lei ha capito:

“Era nel primo pomeriggio: partivano,
li ho visti io, da via Tasso tre camion, amore mio.
Noi stavamo ad aspettare il secondo colloquio
e la finestra dava sul cortile,
e i camion erano del tipo militare, telati
coperti sopra e ai lati.
E i nostri cari con le mani legate, amore mio!
E abbiamo cominciato a chiamare.
Chiamava ognuno i suoi padri, figli, fratelli, nipoti,
amore mio.
E i soldati venivano incontro col mitra spianato.
Via! Via! Kaputt!, pazzi erano, erano pazzi
E noi che potevamo fare? Vi abbiamo visti partire”

E vanno per Roma i camion, Roma deserta…
Nessuno doveva vedere, nessuno doveva sapere!
Una camionetta girava da due ore
per il quartiere e un megafono strillava:
“Un convoglio deve passare,
che le persiane siano tutte sbarrate,
Se vediamo qualcuno affacciato
abbiamo l’ordine di sparare!”
E poi i camion sono arrivati
circondati dalle moto col sidecar
e i soldati con i mitra puntati,
Piazza Barberini, il Tritone,
via Nazionale, il Colosseo, tutto sbreccolato
e Marco Aurelio sul suo cavallo dorato
e la piazzetta ornata con la chiesa
in cima alla scalinata
che sale sale fino al portale.
E da via Tasso e da Regina Coeli
quei camion hanno sfilato
fra le case scolorite e i muri vecchi
e le fontane delicate,
e portavano al macello padri e figli ammanettati.
E nessuno li ha seguiti!
Nessuno è andato a chiamare –
Lo sai che me lo chiedo da cinquant’anni –
nessuno è andato a domandare:
ma perché bloccano le strade?
Ma che cosa volete fare?
Arrivano sull’Ardeatina che il sole sta per cadere
mettono due sentinelle per bloccare veicoli e pedoni
a monte e a valle delle cave
e i camion retrocedono fino all’ingresso
affinché loro non si vedano.
E nessuno li ha visti entrare
solo i tedeschi militari immobili pronti per sparare.

Verso domani

Da “la manifestazione in cui morì Zibecchi”:

Nella piazza un gran groviglio,
tutti corrono, gridano, piangono.
Per la gente dentro casa non è successo niente.
Ma le sirene le grida, la puzza il fumo si sente
“assassini, assassini!”, continuano a gridare.
Arrivano due uomini con le magliette chiare,
piangono, tossiscono, non sanno più parlare,
Zibecchi è per terra, la testa sullo scalino,
le braccia un po’in avanti, ma come per chiamare,
la testa resta indietro, punta lontano,
le gambe stanno lì, ma come di nessuno,
una donna anziana grida uscendo da un portone,
“assassini, assassini!”, e ferma due celerini.
“Assassini, assassini!”, e avanza le mani,
ne vengono giù dieci, scendono da un gippone,
e trascinano la donna sopra un’auto militare,
di lei da quel giorno non s’è più sentito parlare
.

Da Zibecchi, schiacciato da un automezzo della polizia durante una dissennata carica in viale XXII marzo a Milano nel ’75, ai versi in cui si cita il quasi omonimo Giovanni Marini, anarchico, i militanti antifascisti occupano, con i cantori popolari, un posto d’onore nell’opera di Giovanna, che ci appare, oltre che una grande musicista, una poetessa capace di raccogliere la difficile eredità della poesia epico-narrativa di Pavese e soprattutto del suo adorato Pasolini.
Ma non provate a parlare di poesia, qui Giovanna si schernisce in maniera quasi comica:

G.M. il finale della ballata “Vi parlo dell’America” in cui me la prendo con la proprietà? Ah, ma quello l’ho messo perché sapevo che con i milanesi (Bosio, Pirelli, Della Mea, Leydi) bisognava metterci qualche parola forte per finire… Quando ho fatto “I treni per Reggio Calabria” non la volevo fare sentire a nessuno, pensavo fosse una schifezza: un pedale minimalista su cui parlavo per mezz’ora! L’ho tirata fuori quasi per caso al circolo Gianni Bosio e loro entusiasti... io pensavo “vabbé sarà che questi sono patiti per la politica!”

Ma dietro quest’apparente understatement sta tutta la passione di un’artista che da cinquant’anni si schiera coi più deboli.

G.M. siamo un paese travagliatissimo. Abbiamo avuto l’emigrazione che ci ha decimato e non ce ne vogliamo rendere conto. Vado a Liegi qualche tempo fa, salta fuori un tipo e mi dice: “io sono il sindaco di Villarosa”. Ma Villarosa non esiste più, era un paesino siciliano dal quale erano emigrati tutti, sindaco compreso, la maggior parte di loro sono morti a Marcinelle.
La cultura popolare di tutt’un paese s’è persa con l’emigrazione. Oggi, se vuoi ritrovarne qualche scampolo devi cercare fuori d’Italia, in America, dove ci sono tutti gli italiani che, per nostalgia, si ricordano i canti di quando son partiti
.

A L: e tu continui a cercarla questa cultura, a cantarla, a insegnarla, sei un collettivo di iniziative culturali: ti attraversano molte cose che partono dal passato e vanno verso il futuro.

G.M. si spera che vadano verso il futuro.
Ora sono impegnatissima in un’iniziativa che m’ha dato grande emozione: il Coro de Manos Blancas, un progetto venezuelano, un coro di bambini che non cantano perché non hanno la voce: sono tutti sordomuti o autistici. Questi bambini, venuti dai quartieri suburbani di Caracas, dove la povertà è veramente estrema, sono diventati un’orchestra visiva. Seguono il ritmo della musica con le manine guantate di bianco ed è una meraviglia a vedersi, una cosa che ti apre l’orizzonte. È un modo di fare qualcosa, di entrare nelle famiglie di cui nessuno ha saputo o voluto occuparsi. L’abbiamo fatto in Italia, i risultati sono stati strepitosi: bambini autistici facevano in una settimana progressi che non avevano fatto in dieci anni. In questa società, così profondamente malata, o riusciamo a occuparci di chi soffre o siamo condannati a perdere ogni contatto con noi stessi
.

Ci lasciamo così. Nuovi progetti brillano negli occhi di Giovanna, nuove musiche sempre da scrivere, un linguaggio venuto dalla notte del tempo che solo lei è in grado di decifrare e trascrivere, come si scrive un canto d’amore agli uomini che verranno.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it