rivista anarchica
anno 39 n. 346
estate 2009


Simone Weil

Un pensiero inquieto
di Maurizio Zani

Dopo il lungo saggio di Monica Giorgi pubblicato sullo scorso numero, ritorniamo ad occuparci di Simone Weil. Pubblichiamo la premessa al volume Incontri libertari a cura di Maurizio Zani di cui Elèuthera manda in libreria in queste settimane una riedizione.

L’incontro della Weil con l’anarchismo ha contrassegnato una lunga fase della sua riflessione politica, dagli anni giovanili fino all’incirca al 1936. Non si è dunque trattato di un contatto estemporaneo, bensì di una convergenza nata sotto l’insegna della ricerca della migliore forma di espressione pratica della libertà. La Weil ha sentito con forza nella tradizione di pensiero che risale a Proudhon una fonte di suggestioni per la sua azione di lotta a fianco dei lavoratori salariati delle fabbriche e delle miniere e per costruire un progetto di trasformazione sociale incentrato sull’idea di una società priva di gerarchie costrittive e in cui i meccanismi sociali non producano forme di burocratizzazione tecnocratica. L’ispirazione proudhoniana ha fatto sì che la sua lettura dei testi marxiani – soprattutto de Il capitale, in età giovanile – fosse condotta senza incorrere nei facili miti condivisi invece da una parte consistente della sinistra francese e tedesca. La tesi proudhoniana di un futuro sociale in cui la libertà e la felicità pubblica non siano sottoposte all’arbitrio del potere statale ha dunque immunizzato la Weil da ogni contaminazione con teorie che, come il marxismo, impongono la centralità dello Stato in ogni prospettiva di mutamento sociale.
Le letture proudhoniane hanno fatto sì che la particolare simpatia della Weil per il sindacalismo rivoluzionario non ottundesse mai il suo senso critico. A quest’ultimo la Weil ha sempre guardato, negli anni giovanili, con un occhio particolarmente benevolo in quanto le è sembrato forse l’unico movimento capace di evitare, da una parte, i rischi di un eccessivo spontaneismo dell’azione di lotta e, dall’altra, di sottrarsi ai condizionamenti politici esercitati dai partiti e dai sindacati marxisti sul movimento operaio. La lezione proudhoniana le ha tuttavia impedito di farne un mito. Anche in esso infatti la filosofa francese vede in prospettiva il pericolo di una rinascita del verticismo sotto un’altra forma, in quanto teme che non possa sottrarsi al destino delle grandi organizzazioni, quello cioè di darsi prima o poi un’articolazione gerarchica di potere.
Ciò che importa alla Weil, prima di qualsiasi formula organizzativa, è infatti la salvaguardia della libertà individuale, e quindi collettiva, dai condizionamenti costrittivi derivanti dalla presenza di istituzioni verticali di potere e, in particolare, da quelle incarnate dallo Stato e dai suoi apparati (burocrazia, esercito ecc.). Il suo incontro con l’anarchismo trae dunque origine anche dall’istanza, condivisa con questo movimento di pensiero e di lotta, di liberare il soggetto umano dai vincoli istituzionali che inibiscono il suo naturale desiderio di libertà e quindi di sottrarlo ai pericoli di una resurrezione dell’autoritarismo statale e istituzionale anche in una rinnovata società del futuro. All’anarchismo la Weil guarda come a un modello ideale di pensiero e di azione e pertanto non è disposta a identificarlo con una o con un’altra corrente, ovvero con il pensiero di un particolare filosofo anarchico. Questo spiega perché i richiami alla filosofia politica di pensatori anarchici siano solo sporadici, anche se condivide lo spirito che informa le loro riflessioni.

Spirito di rivolta

L’anarchismo, peraltro, le ha fornito uno schema di lettura della storia delle società e dei processi rivoluzionari ben differente da quello del materialismo storico. Mentre infatti Marx fa dell’odio di classe il vettore psicologico di istanze di trasformazione sociale che possono portare ad esiti rivoluzionari, la Weil fa appello allo «spirito di rivolta» che è connaturato alla natura stessa dell’uomo. Una simile disposizione alla lotta per rovesciare il quadro dominante delle relazioni sociali tra gli uomini, entro un determinato contesto sociale, rappresenta una tensione latente che si esprime solo qualora l’individuo si trovi in una condizione di grave subalternità economica o politica. Sotto queste condizioni lo spirito di rivolta si traduce in atteggiamenti individuali e quindi collettivi che assumono il carattere non solo di istanze di rovesciamento delle gerarchie sociali, ma anche di attenzione costante affinché il mutamento sociale non rimetta in gioco quelle articolazioni istituzionali e verticali di potere che si è voluto demolire. Lo spirito di rivolta, una volta uscito dal suo stato di latenza, agisce in controtendenza nei confronti di un’altra propensione naturale dell’uomo, quella a sottomettersi passivamente a minoranze attive che gli sottraggono ogni possibilità di esprimere in piena autonomia la sua libertà.
Per la Weil l’esistenza umana è dunque stretta entro una dialettica bipolare tra spirito di rivolta, da una parte, e propensione ad assumere una condizione gregaria, dall’altra. L’esito di questo conflitto non può essere previsto perché di volta in volta entrano in campo variabili storiche e sociali affatto particolari. L’idea – di matrice anarchica – relativa al ruolo giocato nella storia delle trasformazioni sociali dallo spirito di rivolta, ha permesso alla Weil di porsi in una posizione critica nei confronti del materialismo marxiano, cui rimprovera di aver proposto un modello di spiegazione storica riduttivo in quanto esclusivamente incentrato sui rapporti sociali di produzione. Ad avviso della Weil la nozione di spirito di rivolta ha invece il pregio di chiamare in causa un principio psicologico di ordine naturale più profondo dei rapporti di produzione. Lo spirito di rivolta, a differenza della lotta di classe, fa dell’individuo, e non di un gruppo sociale, il vettore della storia.
La Weil rifiuta pertanto l’idea di Marx – peraltro da parte di questi mutuata da Hegel – secondo cui il cambiamento storico dipende da soggetti collettivi. La storia è fatta da individui in carne e ossa e non da entità «misteriose» come le classi, le quali, ad avviso della Weil, non sono altro che raggruppamenti di individui dotati di simili caratteristiche sociali, psicologiche e culturali. L’aver posto da parte di Marx e del marxismo l’accento sul ruolo storicamente determinante di questi soggetti collettivi (classe, partito, Stato ecc.) è responsabile implicitamente dell’orientamento illibertario del marxismo realizzato, cioè dello stalinismo, in quanto ha condotto a sottovalutare il valore individuale del singolo soggetto umano tutto a vantaggio di apparati burocratici di partito o statali. Anche dal punto di vista di una filosofia della storia, dunque non solo di una filosofia politica, la distanza della Weil dal marxismo appare tanto marcata da assumere il carattere di una vera e propria contrapposizione teorica.

Dura posizione contro il bolscevismo

Con un simile orientamento critico la Weil affronta dunque le questioni politiche più scottanti a lei contemporanee che vengono trattate nei brani presentati in questa antologia. Gli anni in cui scrive la Weil corrispondono a un periodo di consolidamento del governo staliniano nella Russia sovietica, ma anche di progressiva affermazione del fascismo tedesco fino all’avvento al cancellierato di Hitler e alla formazione di uno Stato nazionalsocialista. Si tratta di due espressioni di potere che le appaiono simmetriche sotto molti rispetti, anche se diversamente connotate in senso ideologico. Entrambi fanno leva su un potenziamento esponenziale della forza illibertaria dello Stato, su un’espansione dell’interesse economico pubblico e, infine, sull’irreggimentamento sistematico e violento delle coscienze individuali. In entrambi la Weil, inoltre, coglie l’espressione trasparente del potere dello Stato ormai privo dei veli con cui la democrazia parlamentare copre il suo vero volto. In questo senso bolscevismo e nazismo realizzano, con il ricorso a mezzi di pressione non diversi sotto il profilo del grado di violenza da loro incorporato, una medesima condizione di imbarbarimento dei rapporti sociali che porta all’annichilimento dell’individuo in nome di ingannevoli e falsi ideali collettivi.
È dunque affatto naturale che la Weil, di fronte alla piega dittatoriale presa dagli eventi successivi alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia, assuma senza mezzi termini una dura posizione critica che si traduce in un’aperta condanna dello stalinismo, proprio in un periodo in cui i partiti comunisti europei ne sembrano infatuati. A suo avviso, la nascita di una forma autocratica e sanguinaria di potere in Urss non è casuale, bensì si pone come una sorta di esito necessario del modo in cui le teorie marxiste sono state interpretate prima da Lenin e quindi da Stalin. Il marxismo contiene per la Weil un’inequivocabile vocazione autoritaria e illibertaria in quanto non sa sottrarsi all’oscuro fascino che esercita su di lui l’idea di Stato e non sa liberarsi del mito di un partito politico della classe operaia che nei fatti risulta essere solo portatore degli interessi di una élite dirigente. La combinazione tra una concezione mitica dello Stato e del partito è pertanto responsabile, ai suoi occhi, dell’assoluta mancanza di libertà in Urss e delle violenze perpetrate dalla burocrazia e dalla tecnocrazia staliniana nei confronti dei dissidenti. Pertanto, secondo la filosofa francese, lo Stato sovietico non è riformabile non solo per il fatto che le radici del potere staliniano sono ormai troppo profonde, ma anche, più in generale, perché ogni tentativo di modificare l’assetto del potere statale senza spezzarlo effettivamente finisce comunque per riproporre forme di violenza istituzionale e di autoritarismo politico.
La storia ha mostrato – sostiene la Weil – che ogni tentativo di riforma che interessa l’apparato dello Stato non incide effettivamente sulla sua forza di oppressione. Può forse mitigarla temporaneamente, rendendo possibile alcune limitate forme di espressione della libertà. Prima o poi, tuttavia, la vera vocazione autoritaria dello Stato prenderà il sopravvento mostrando il suo volto brutale. La lezione da trarre dalla marcia trionfale verso il potere da parte di Hitler e del suo partito rappresenta un’ulteriore conferma diretta di questa tesi. Il fascismo tedesco, in altre parole, era già latente nelle istituzioni della repubblica di Weimar, almeno nel senso di una tensione immanente all’apparato dello Stato a scuotersi di dosso i condizionamenti imposti al suo potere da parte di una costituzione repubblicana mirante a garantire i diritti fondamentali dei cittadini e una reale divisione dei poteri.

Né comunismo né socialdemocrazia

Se, in ultima analisi, la crisi dello Stato di diritto sancito a Weimar nel 1919 è imputabile a una tensione interna allo Stato a riappropriarsi del terreno perduto in termini di prepotenza istituzionale, non vanno comunque dimenticate – secondo la Weil – le responsabilità dei partiti tradizionali della sinistra tedesca, in particolare del partito comunista (Kpd). Come gli altri partiti comunisti europei, anche quello tedesco costituisce di fatto, a suo avviso, un’appendice dello Stato sovietico, il quale ne manovra la politica dall’alto attraverso i canali istituzionali dell’Internazionale comunista. Prova ne è che la loro dirigenza ha applicato rigidamente parole d’ordine provenienti da Mosca che impongono un duro scontro con la socialdemocrazia in un momento in cui l’unità della sinistra in Germania rappresenta, secondo la Weil, l’unica barriera possibile contro lo strapotere nazista. Il partito comunista tedesco si è piegato così ad accettare la parola d’ordine staliniana di un accordo, cioè di un «fronte unico dal basso» con gli operai e i militanti socialdemocratici sottovalutando in questo modo l’ascendente esercitato dalla dirigenza socialdemocratica sui suoi iscritti. L’insuccesso della strategia comunista, evidente nella mancata conquista della base operaia socialdemocratica, rappresenta dunque, agli occhi della Weil, semplicemente il fallimento della politica di indebita ingerenza di uno Stato straniero, quello sovietico, nella vita sociale tedesca. Lo Stato staliniano porta così in parte la responsabilità dell’ascesa del nazismo al potere in Germania.
Anche nei confronti della socialdemocrazia tedesca (Spd) la Weil non lesina pesanti critiche. Essa infatti – secondo il suo punto di vista – non si è solo limitata a fare dello Stato un fondamentale referente della sua azione politica nella forma della partecipazione alle battaglie politiche parlamentari o in quella della pressione politica esercitata sui governi per evitare eventuali misure antioperaie. Se è vero che i vantaggi tratti dalle classi lavoratrici in termini di acquisto di un certo benessere economico e di una serie di vantaggi sociali non sono stati indifferenti, è altrettanto certo che con questo atteggiamento collusivo verso lo Stato la socialdemocrazia si è preclusa la possibilità di cogliere le trasformazioni politiche in atto. Soprattutto ha perso di vista il potenziale di oppressione e di autoritarismo insito in quello Stato di cui ha cercato l’alleanza e questo l’ha condotta a credere che l’apparato dello Stato non sarebbe mai stato rivolto contro di lei fino al punto di distruggerla. La socialdemocrazia si è trovata pertanto disarmata nei confronti di quei movimenti della destra estrema, il nazionalsocialismo hitleriano, che hanno finalizzato la loro azione politica alla conquista delle leve del potere statale per utilizzarlo barbaramente contro tutto il movimento operaio.
L’analisi da parte della Weil delle responsabilità della socialdemocrazia è affatto impietosa. Essa si sviluppa lungo due linee essenziali: quella sociologica, mediante l’individuazione della specifica collocazione sociale dei membri delle élite dirigenti della socialdemocrazia tedesca; quella psicologico-sociale, attraverso l’enucleazione della psicologia di queste élite. La tesi di fondo per spiegare la debolezza della socialdemocrazia – e in qualche misura anche del partito comunista – consiste nel sottolineare come il suo gruppo dirigente condivida una situazione analoga a quella della burocrazia tecnocratica di Stato in quanto è inserito in un’istituzione che per molti versi riproduce i caratteri strutturali dell’apparato statale. Data questa analogia di fondo, è del tutto naturale – secondo la filosofa francese – che la socialdemocrazia assuma nei confronti dello Stato quell’atteggiamento compromissorio che di fatto ha contribuito a soffocare ogni velleità rivoluzionaria delle classi lavoratrici. Del resto, come potrebbero andare diversamente le cose dal momento che questo partito politico ha bisogno dello Stato per mantenere inalterati i vantaggi derivanti dai consistenti capitali accumulati negli anni con le quote delle iscrizioni?

Alla radice del nazismo

Nei confronti del nazionalsocialismo tedesco l’atteggiamento della Weil non può evidentemente essere meno risoluto. Dato che la maggior parte degli articoli dedicati all’analisi della situazione tedesca è stata redatta a meno di un anno dall’ascesa al potere di Hitler, la sua attenzione si dirige eminentemente a cogliere le ragioni del consenso acquisito dal partito nazionalsocialista, cioè della sua notevole capacità di radicamento nella società tedesca.
Un altro aspetto che sollecita il suo interesse consiste nel cercare di rispondere al perché il nazismo ha potuto ottenere credibilità anche all’interno delle classi lavoratrici. La Weil rifiuta la tesi semplicistica del nazismo, istituita dalla Spd e dal Kpd, secondo cui esso costituisce semplicemente l’espressione politica violenta della grande borghesia e il suo braccio armato. La filosofa francese ritiene che effettivamente esista una componente strumentale di questo genere, ma che questa si sia sovrapposta a una realtà che è maturata autonomamente sul terreno politico e dello scontro sociale. In altre parole, la borghesia e la tecnocrazia di Stato sfruttano il nazismo utilizzandolo come ariete per demolire il movimento operaio, ma esso è il prodotto di un complesso di circostanze sociali e psicologiche del tutto indipendenti dalla volontà di queste forze sociali. La disamina di questo processo di maturazione organizzativa e psicologica del nazismo – analisi del tutto trascurata dalle forze della sinistra tradizionale – è indispensabile per sapere quali iniziative assumere per fronteggiarlo.
La Weil si preoccupa, inoltre, di capire le motivazioni profonde della sottovalutazione del fenomeno nazionalsocialista da parte delle forze della sinistra tradizionale tedesca, ricondotte, in ultima analisi, alla povertà culturale delle élite che guidano il partito socialdemocratico e quello comunista. Poiché la Weil vede nel nazismo l’espressione indiretta di una resa dei conti dello Stato con una società politica che ha cercato di imbrigliarne la carica potenziale di violenza illibertaria, non nutre alcuna fiducia nella possibilità di un rientro del nazismo alla legalità o di una sua irreversibile crisi di credibilità politica.
Negli articoli che qui presentiamo emerge chiaramente che la Weil sa che la partita è ormai persa per il movimento operaio. Questa convinzione traspare non solo nei suoi argomenti, ma si traduce anche in una sorta di moto simpatetico di partecipazione al dramma ormai incombente sui lavoratori tedeschi e insieme di forte avversione verso quei partiti che, chiusi nelle loro rigide strutture gerarchiche, non hanno saputo interpretare le tensioni di lotta ancora latenti nel mondo del lavoro salariato.

Inquietudine e volontà di lotta

La posizione della Weil nei confronti della realtà a lei contemporanea è dunque quella dell’intellettuale in rivolta contro ogni manifestazione di potere che si appoggi su strutture istituzionali rigide e gerarchizzate. L’espressione più alta di questo atteggiamento polemico si è concretizzata nella sua pur breve partecipazione alla guerra di Spagna nel Gruppo internazionale della colonna di miliziani anarchici guidati da Buenaventura Durruti. La scelta del campo anarchico non è stata certo casuale. L’anarchismo le sembra incarnare la migliore garanzia contro l’affermazione del fascismo, cioè di un’altra forma di organizzazione statale che, come quella sovietica, tende a sottoporre al suo potere ogni aspetto della vita sociale. L’anarchismo le appare soprattutto come l’unica dottrina sociale capace di rivendicare l’importanza dell’autonomia dell’individuo nei confronti dei grandi apparati e quindi di porre in primo piano il valore morale della libertà individuale. Mentre marxismo e fascismo parlano di Stato, partito o classe, come se le singole individualità fossero fenomeni marginali della vita collettiva, l’anarchismo parla di soggetti singolari, dei loro bisogni, delle loro aspirazioni di libertà. Nella partecipazione alla guerra di Spagna la Weil ha dunque probabilmente cercato di esprimere questa idea di centralità del soggetto rispetto alle istituzioni attraverso un’azione che fosse a un tempo di impegno coerente dell’intellettuale contro il totalitarismo fascista e di rivolta contro ogni forma di potere statale.
L’affiancamento della Weil ai volontari anarchici sul fronte aragonese risponde presumibilmente anche all’esigenza profonda di una presa di posizione militante contro il militarismo e contro il patriottismo, di cui peraltro riconosce la presenza nefasta nella cultura degli intellettuali francesi e negli apparati statali preposti alla scolarizzazione delle giovani generazioni. Contro il militarismo, in quanto ideologia e pratica che sottomette ai profitti dell’industria bellica e dei corpi politici statali cointeressati i destini di milioni di persone. Contro il patriottismo, in quanto mentalità radicata su una falsa idea di patria e di unità spirituale di un popolo intorno a presunti valori di superiorità nazionale. Patriottismo e militarismo rappresentano ai suoi occhi – come emerge in modo trasparente da diversi testi presenti in questa antologia – due sintomi culturali complementari della presenza soffocante dello Stato nella società, mascherata sotto la veste di presunti interessi nazionali e supportata da processi di identificazione collettiva da parte dei cittadini con quei leader che se ne sono fatti promotori.
Gli articoli riportati in questa antologia percorrono dunque criticamente tutte le espressioni del potere istituzionalizzato che l’esperienza storica a lei contemporanea mostra in modo esemplare. La sua inquietudine di fronte a queste manifestazioni è profonda; la sua volontà di lotta è forte e sincera. La Weil tuttavia avverte un sensibile isolamento rispetto a tutte quelle forze intellettuali e politiche che sembrano incapaci di cogliere le minacce incombenti in Europa e che porteranno alla tragedia della seconda guerra mondiale. La sua solitudine lentamente la condurrà a una rarefazione del suo impegno politico a fianco del movimento operaio. Il suo sguardo progressivamente si rivolgerà ad altri campi di sapere: la storia delle religioni, la filosofia, la mistica religiosa.

Maurizio Zani

La copertina del dossier di Monica Giorgi
pubblicato sullo scorso numero della rivista.
Può esserci richiesto come specificato
nel dossier “NonsoloA”

Principali opere di Simone Weil

Segnaliamo i testi nell’edizione originale riportando le edizioni italiane reperibili in libreria o in biblioteca.

L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Parigi 1949 (trad. it.: La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, se, Milano 1980).

Intuitions préchrétiennes, La Colombe, Parigi 1951 (trad. it.: La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Roma 1984).

La connaissance surnaturelle, Gallimard, Parigi 1950.

Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Gallimard, Parigi 1952.

Cinque lettere dall’Italia a J. Posternak, primavera 1937, «Nuovi Argomenti», 2, 1953.

Attente de Dieu, intr. di J.-M. Perrin, La Colombe, Parigi 1949 (trad. it.: Attesa di Dio, a cura di J.-M. Perrin, Rusconi, Milano 1988).

Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Parigi 1957 (trad. it.: Sulla guerra. Scritti, 1933-1943, a cura di D. Zazzi, Pratiche, Milano 1998).

Écrits historiques et politiques, Gallimard, Parigi 1960 (trad. it.: Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990).

La condition ouvrière, intr. di A. Thévenon, Gallimard, Parigi 1971 (trad. it.: La condizione operaia, Mondadori, Milano 1990).

Leçons de philosophie, Plon, Parigi 1989 (trad. it.: Lezioni di filosofia 1933-1934, raccolte da A. Reynaud-Guérithault, a cura di M.G. Sala, con una nota di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1999).

Oeuvres complètes, t. i. Premiers écrits philosophiques, a cura di G. Kahn e R. Kühn, Gallimard, Parigi 1988 (trad. it.: Primi scritti filosofici, a cura di M. Azzalini, Marietti, Genova 1999); t. II, 1, Écrits historiques et politiques. L’Engagement syndical (1927-juillet 1934), Gallimard, Parigi 1988; t. II, 2, Écrits historiques et politiques. L’expérience ouvrière et l’adieu à la révolution (juillet 1934-juin 1937), Gallimard, Parigi 1991; t. II, 3, Écrits historiques et politiques. Vers la guerre (1937-1940), a cura di S. Fraisse, Gallimard, Parigi 1989; Cahiers (1933-septembre 1941), Gallimard, Parigi 1994; Cahiers (septembre 1941-février 1942), Gallimard, Parigi 1997 (trad. it.: Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano: vol. I, 1982; vol. II, 1985; vol. III, 1988, vol. IV, 1993).

Morale e letteratura, a cura di N. Maroger, Ets, Pisa 1990.

Poesie e altri scritti, a cura di A. Marchetti, Crocetti, Milano 1993.

Simone Weil-Joë Bousquet, Corrispondenza, a cura di A. Marchetti, Se, Milano 1994.


Note biografiche

Nasce a Parigi il 3 febbraio 1909. Dopo aver frequentato il liceo, entra nel 1928 nella Scuola normale superiore e quindi ottiene nel 1931 l’abilitazione in filosofia, titolo che le dà diritto all’insegnamento nelle scuole superiori. In questo stesso anno entra in contatto con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario e stringe rapporti di amicizia e di collaborazione con alcuni noti esponenti di questo movimento espulsi dal partito comunista francese, quali Pierre Monatte, Maurice Chambelland, Daniel Guérin.
Le posizioni politiche della Weil, che ha alle sue spalle un’intensa lettura di testi marxiani, sono comunque molto lontane dal marxismo. Il partito politico della classe operaia viene da lei giudicato come portatore di istanze egoistiche e burocratiche, e unicamente disposto a prendere il posto delle vecchie classi dirigenti utilizzandone l’apparato amministrativo e militare.
In quello stesso 1931 entra in contatto con Urbain Thévenon, maestro, membro del consiglio di amministrazione della Borsa del lavoro di Saint Étienne. Grazie alla sua mediazione, riceve l’incarico di tenervi alcuni corsi di francese e di economia politica a favore dei minatori locali. Nel 1932 ottiene il permesso di visitare una miniera e rimane fortemente colpita dalle difficili condizioni di lavoro. La Weil è in questo periodo sempre più interessata a cogliere il significato storico e sociologico del fascismo, soprattutto tedesco, di cui vorrebbe comprendere le ragioni del suo radicamento nell’ambiente operaio.
Decide dunque di recarsi in Germania alla fine del luglio 1932 per acquisire dal vivo di un’esperienza diretta alcune risposte ai suoi interrogativi. A Berlino prende contatto, grazie alle raccomandazioni di Monatte, con gli ambienti rivoluzionari, anche clandestini. Ad Amburgo si incontra con il figlio di Trockij, Lev Sedov, e riceve da lui l’incarico di portare in Francia una valigia di documenti, tra i quali compare un elenco di nomi dei trotzkisti residenti in Germania.
Al ritorno in Francia la Weil continua la sua attività di insegnamento nei licei e la sua collaborazione giornalistica a diverse riviste, quali «Libres Propos», «La Révolution prolétarienne» e «L’École emancipée». Ai primi del novembre 1932 incontra Boris Souvarine, uno dei fondatori del partito comunista francese, quindi espulso nel 1924 sotto il pretesto di «trotzkismo», e uno dei principali animatori del gruppo dissidente marxista «Circolo comunista democratico» cui sono iscritte personalità di spicco della cultura francese, quali G. Bataille, R. Queneau. La Weil, pur partecipando ad alcune attività del gruppo, si rifiuta di aderirvi perché ritiene che il suo programma manchi di coerenza interna.
Dal settembre 1933 tuttavia inizia la sua collaborazione alla «Critique sociale», la rivista del gruppo diretta da Souvarine. Il 31 dicembre incontra Trockij, esule, cui offre, insieme alla moglie, ospitalità per alcuni giorni nel suo appartamento parigino. Trockij approfittando della situazione vi organizza una riunione clandestina con diversi esponenti dei partiti francesi al fine di tracciare i contorni strategici di quella nuova Internazionale che aveva in animo di fondare nel breve periodo. L’incontro si conclude con uno scontro verbale tra Trockij e la Weil che non condivide le posizioni assunte da questi nei confronti dell’Urss. In particolare, la Weil rifiuta la tesi trotzkiana che lo Stato sovietico rappresenti pur sempre uno Stato operaio e, presumibilmente, ribadisce il proprio punto di vista – riportato in diversi suoi articoli sull’argomento – secondo cui lo Stato rappresenta comunque un apparato oppressivo che si sottrae a ogni controllo dal basso.
Nel dicembre 1934 entra come operaia alle presse nella società di costruzioni elettriche e meccaniche Alsthom, grazie all’intervento di Souvarine, ma viene licenziata nel marzo 1935 probabilmente per la sua incapacità di reggere gli elevati ritmi di lavoro della fabbrica. Grazie all’aiuto di amici viene dapprima assunta, in aprile, dalle fonderie Carnaud e Forges di Boulogne-Billancourt, dove viene nuovamente licenziata il 7 maggio, e quindi trova lavoro nelle officine Renault, dove verrà anche questa volta licenziata nell’agosto.
Dopo l’inizio della guerra civile spagnola, la Weil decide di parteciparvi schierandosi con i repubblicani. L’8 agosto varca la frontiera franco-spagnola con un lasciapassare come giornalista e si unisce ai libertari della colonna Durruti. Raggiunge dapprima Barcellona, quindi passa sul fronte aragonese. La ferita procuratale da un banale incidente la costringe al rientro in Francia verso la fine di settembre.
Gli anni successivi sono anni di intensa meditazione che la portano lentamente ad abbandonare i suoi interessi politici e a dedicarsi a studi concernenti la storia delle religioni e la storia della filosofia. Lentamente elabora un suo sistema molto personale di pensiero dai tratti fortemente marcati in senso mistico religioso, pur prendendo a più riprese le distanze dalla religione cattolica. Nel corso della guerra raggiunge nel 1940, con la famiglia, Marsiglia per sottrarsi all’occupazione tedesca. Viene sottoposta a più riprese a interrogatori della polizia a causa dei suoi contatti con esponenti della Resistenza. Nel giugno del 1942 si imbarca per New York da cui riparte per recarsi in Inghilterra per offrire un proprio contributo alla lotta antinazista. Nell’aprile 1943 entra nell’ospedale Middlesex a causa dell’aggravarsi della tubercolosi. Viene quindi trasferita nel sanatorio di Ashford dove muore il 24 agosto.