rivista anarchica
anno 38 n. 334
aprile 2008


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Feyerabend
qui pro quo

 

Nel gennaio scorso, durante i giorni inquietanti dell’eventuale “visita con discorso” del Papa all’Università “La Sapienza” di Roma, nel dibattitume generale c’è stato chi – come “Il Corriere della Sera” del 25 gennaio 2008 – ha creduto di andare alle radici della questione pubblicando un brano di Contro il metodo di Paul K. Feyerabend.
Il ragionamento, più o meno, era questo: a) nel 1990, l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in una conferenza, citò Feyerabend per dimostrare la correttezza delle posizioni assunte dalla Chiesa nei confronti di Galileo Galilei; b) oggi, quella citazione gli viene rinfacciata dai professori della Sapienza contrari alla sua “presenza” in università; c) il brano in questione non era contenuto né nell’edizione inglese del saggio del 1975, né in quella tedesca del 1976, né in quella italiana del 1979; d) eccone dunque la necessità – finalmente il lettore italiano può farsi un’idea di cosa abbia veramente detto Feyerabend etcetera etcetera. L’argomentazione non è di quelle che “non fanno una piega” – qualche piega la fa, perché l’edizione italiana del 1979 non è affatto la prima, ma (evidentemente) a qualcuno fa comodo che così appaia (senza i crismi della feltrinellità e senza la curatela di Giulio Giorello, in effetti, da Lampugnani Nigri, nel 1973, il libro era già apparso e ben provvisto del brano incriminato) –, ma qui non starò troppo a sottilizzare. Mi interessa tutt’altro. M’interessa finirla – se possibile, una buona volta per tutte – con la storiella edificante del Feyerabend anarchico.
Svolgerò il compito che mi sono prefisso in due fasi: prima, l’analisi della tesi sostenuta in questo beato capitolo; poi, una visione d’insieme del pensiero di Feyerabend all’interno del quale quella tesi trova il suo senso mentre non trovano affatto senso, come vedremo, le numerose attribuzioni di anarchicità che molti gli attestano.

I due procedimenti di cui consta il processo a Galileo – quello del 1616 e quello del 1632-33 – si conclusero, a parere di Feyerabend, con una sentenza “razionale e giusta”. Nel primo, infatti, si trattò della dottrina copernicana, “insensata e assurda” secondo fatti, teorie e criteri dell’epoca. Galilei se la cavò con un’ingiunzione: il divieto di insegnare la teoria eliocentrica di Copernico come verità e il consiglio di insegnarla come ipotesi. La logica era dalla parte del cardinale Bellarmino e non da quella di Galilei, come aveva già fatto notare lo storico della scienza Pierre Duhem. Nel secondo si trattò del fatto se Galilei avesse o no obbedito all’ingiunzione. E ne scaturì la condanna.
Al giudizio di “razionale e giusta”, Feyerabend ci arriva tramite alcune argomentazioni, che provo riassumere nel modo seguente:

  1. “la Chiesa romana sosteneva (…) di possedere un diritto esclusivo sullo studio, l’interpretazione e la messa in atto delle Sacre Scritture” – un atteggiamento non dissimile da quello di altre istituzioni esercitanti un potere (Feyerabend fa l’esempio dell’American Medical Association);
  2. l’eresia “denotava una deviazione da comportamenti, atteggiamenti e idee che garantivano una vita equilibrata e santificata”;
  3. questa deviazione poteva essere incoraggiata dalla scienza;
  4. la Bibbia è “assai più ricca di lezioni per l’umanità di qualsiasi cosa la scienza possa produrre”, perché i suoi risultati costituirebbero “fondamenta troppo esili per dare un senso alla vita”;
  5. “la conoscenza ha bisogno di una pluralità di idee” e la difesa delle alternative “è necessaria anche da parte di una filosofia limitata come l’empirismo (che qui è chiamato da Feyerabend a rappresentare la sua concezione, piuttosto vaga e indefinita, della scienza);
  6. la Chiesa non respinge una verità sostenuta da un ragionamento scientifico, ma la usa “per rivedere l’interpretazione di passi della Bibbia apparentemente incoerenti con esso”) (e Feyerabend fa l’esempio della forma della Terra: nonostante alcuni passi della Bibbia facciano pensare che sia piatta, la Chiesa sarebbe stata così lungimirante e saggia da “accettare” che sia sferica).
Dal che se ne conclude che il giudizio della Chiesa era “scientificamente corretto e aveva la giusta intenzione sociale”, perché proteggeva la gente “dalle macchinazioni degli specialisti” e dalla corruzione da parte di un’“ideologia ristretta” capace di funzionare in “ambiti ristretti”, ma “incapace di contribuire a una vita armoniosa”.

D’ora in avanti – allargando il discorso – ricopierò quasi integralmente quanto (invano) scrivevo ne La funzione ideologica delle teorie della conoscenza (Spirali, Milano 2002).
Feyerabend racconta che, a un certo punto della sua vita, grazie alla frequentazione di Austin, si è reso conto che “c’erano due tipi di tumori da estirpare, la filosofia della scienza e la filosofia generale (epistemologia, etica, etc.)”. Altresì, individuava la “scienza” ed il “buonsenso” come “aree dell’attività umana che potevano sopravvivere” senza la filosofia della scienza e la filosofia generale (1). Se, poi, ci si aggiunge l’invito a “tutti gli scrittori che desiderano comunicare con la gente a stare lontano dalla filosofia, o almeno a smettere di essere intimiditi e influenzati da ottenebratori come Derrida” (2), non si può negargli l’accoglienza più affettuosa. Anche quando ricorda la forte impressione che gli fece Dingler “per la chiarezza, la sicurezza e il modo con cui costruiva la scienza in base a decisioni” (3), o quando conduce la sua lunga battaglia contro le pretese di Popper (4) – convenendo con Lakatos che costui non ha aggiunto alcunché di meglio a quanto già detto da Duhem (5) –, o quando analizza singole fasi della storia della scienza o, soprattutto, quando sa offrirsi al lettore come “persona” prima che come “intellettuale”, Feyerabend si fa apprezzare. Ma già la sua distinzione tra una “filosofia della scienza” e una “filosofia generale” fa sorgere più di un dubbio. Come farebbe la prima a fare a meno della seconda? E, poi, il problema della “sopravvivenza” della “scienza” e del “buonsenso” senza la filosofia, non dovrebbe, se mai, essere posto al contrario? È nel sopravvivere della filosofia che la scienza incontra ostacoli. E, ancora, in grazia di quale criterio posso distinguere questa scienza dal buonsenso? Senza contare che, dichiarando la legittimità di altri modi di “conoscere” oltre quello della “scienza” (6), mostra la propria dipendenza dalla tradizionale teoria della conoscenza alla base dell’intera filosofia e spalanca la porta di casa a qualsiasi forma di misticismo.

Paul K. Feyerabend

Vaghezze preoccupanti

Feyerabend, diversamente dalla stragrande maggioranza di chi si occupa delle medesime cose di cui si occupa lui, è capace di autocritica, ma, anche qui, nel modo in cui la svolge, lascia trasparire alcune vaghezze preoccupanti. Dice che, scrivendo Contro il metodo, avrebbe voluto “liberare la gente dalla tirannia imposta da ottenebratori filosofici e concetti astratti come ‘verità’, ‘realtà’ od ‘obiettività’, che pongono limiti alla visione della gente e al loro modo di essere nel mondo”, ma, purtroppo, nell’esprimersi, avrebbe finito “per introdurre concetti altrettanto rigidi, quali ’democrazia’, ‘tradizione’ o ‘verità relativa’” (7). Capisco e fraternizzo sulle buone intenzioni, ma non credo, tuttavia, che il problema stia nella “rigidità” dei concetti, bensì, piuttosto, nel fatto che non sono affatto definiti positivamente e che i contesti in cui vengono usati risultano contraddittori. Si può convenire volentieri con lui allorché dice che “obiettivismo e relativismo sono non solo insostenibili come filosofie, ma anche cattive guide per una collaborazione culturale fruttuosa” (8) – qualsiasi cosa volesse intendere con la seconda parte dell’argomentazione – e anche allorché, dopo aver svolto una critica del realismo, sostiene che il “pluralismo” (ovvero la tesi secondo la quale “ci sono molti modi di pensare e di vivere”), quello stesso che “veniva chiamato irrazionale e veniva escluso dalla società rispettabile”, è diventato “di moda”, e purtuttavia ciò “non lo ha reso migliore o più umano, ma banale e, nelle mani dei suoi difensori più colti, accademico” (9), perché fa pensare che già a lui stesso gli esiti scettici delle sue analisi non piacciano. Ma, privandosene, non si capisce più cosa gli rimanga.
Giuseppe Vaccarino riconosce a Feyerabend il merito di intuire un “costruttivismo di base”, ma, al contempo, gli rinfaccia di non saperlo “ricondurre a operazioni suscettibili di analisi e definizioni”, perché preferisce affidarsi ad una “primaria”, quanto “indefinita”, “creatività individuale, manifestantesi quando capita con spontaneità e senza disciplina”. Feyerabend, secondo Vaccarino, darebbe “per scontata l’identificazione della scienza con i risultati delle osservazioni sensibili” e, constatando, tuttavia, che “questi ultimi non solo non esauriscono le attività intellettive, ma non possono fornire una partenza certa e univoca, crede che non esista una ‘scienza’ come strumento o metodo atto a darci conoscenze affidabili”. La scienza, che alla finfine “è una storia” (10), sarebbe un’impresa “anarchica” e non si avvarrebbe di alcun metodo. Per spiegare come il sapere prodotto da questa impresa si trasformi da “fenomeno individuale a patrimonio della collettività”, Feyerabend, allora, non può più riferirsi ad un presunto rapporto tra le “teorie” e il “piano oggettivo della spiegazione”, ma si rifà al “comportamento psico-sociale degli scienziati”. Il successo di una teoria sarebbe decretato perlopiù dagli apparati retorici e, a volte, perfino da quegli imbrogli cui non pochi scienziati, come abili negozianti nei confronti dei loro clienti, hanno saputo far ricorso. Tuttavia – ricorda Vaccarino – neppure per l’abile negoziante “la qualità della merce è del tutto da trascurare per invogliare i clienti” (11).
Nel presentare Contro il metodo, Feyerabend dice che il saggio “è scritto nella convinzione che l’anarchia, benché forse non costituisca la filosofia politica più attraente, sia però un’ottima base su cui fondare l’epistemologia e la filosofia della scienza” (12). So che lui sostiene che “senza ambiguità non c’è alcun cambiamento” (13), ma, in questo caso, riguardando se stesso e i contesti più strani in cui ha poi ritrovato il proprio pensiero o il pensiero che gli è stato attribuito, Feyerabend sembrerebbe pentirsi. Anni dopo, infatti, alle due domande di un’intervista risponde cercando di rimettere le cose in ordine.
Le due domande erano:

  1. In che misura la provocazione del modello anarchico (rifiuto dell’autorità e della delega) influisce sul tuo modo di vivere e di creare?
  2. Benjamin Péret (14) ha scritto: “il poeta si erge contro tutti, compresi i rivoluzionari che – collocandosi sul terreno della sola politica isolata arbitrariamente così dall’insieme del movimento culturale – preconizzano la sottomissione della cultura al compimento della rivoluzione sociale”. Vuoi darci le tue ragioni di assenso o dissenso su questa posizione?

Ed ecco le risposte: “No, l’‘anarchismo’ non ha in nessun modo influenzato la mia vita. Se le mie opere più recenti hanno un che di ‘anarchicheggiante’, e se il mio stile di vita appare un po’ turbolento e disordinato, ebbene, ciò è frutto delle circostanze, non della teoria. Né accetterei mai dichiarazioni quali la numero due (di Benjamin Péret). Se tali arie possono suonare sublimi alle orecchie dei roditori accademici, o dei politici alla ricerca di una linea di partito, in tipi come me (e come taluni miei amici) scatenano una sonora risata. Perché non crediamo nelle dottrine, né nella loro formulazione, ma nei modi di vita. E non cerchiamo di congelare questi modi di vita in maniera tale da renderli accessibili agli studiosi, ma li modifichiamo a seconda delle circostanze. E quando li modifichiamo non ci lasciamo guidare dalla teoria, se non molto larvatamente, ma dalle circostanze concrete (compresi i nostri sentimenti, eccetera) e dalle fantasie che tali circostanze fanno nascere nei nostri cervelli” (15).

Galileo Galilei (1564-1642)

Al termine di una lezione tenuta a Trento nel 1992, un interlocutore gli ha chiesto di spiegare perché avesse imposto a Contro il metodo un sottotitolo come “Per una teoria anarchica della conoscenza” e Feyerabend – fugando definitivamente ogni dubbio e mortificando chi l’aveva preso troppo alla lettera – gli ha risposto che “è tutto uno scherzo”. Per lui, infatti, l’anarchia è “disordine”, mentre la teoria è “ordine” (e, come nel caso della “scienza”, siamo ben lontani dall’averne definito il concetto). Pertanto, parlare di “teoria anarchica” è “uno scherzo rivolto a quegli anarchici che pretendono di essere anarchici e al contempo di avere una teoria”, il che è “un’impresa impossibile”. E racconta: “una volta mi scrisse un anarchico italiano chiedendomi di dare il mio contributo a una selezione di scritti sull’anarchia. Gli risposi con una lettera un po’ scherzosa. Andò a finire che quello la pubblicò, ma ridotta a un paragrafo di compunta celebrazione. Se è così che agisce un anarchico, allora ti saluto anarchia!”. Ma c’è “una seconda ragione” che l’ha spinto ad usare quel sottotitolo ed è costituita dal fatto che lui è convinto “che un filosofo della scienza che crede nelle leggi della ragione, messo di fronte alla storia della scienza in tutto il suo splendore, sarebbe così sconvolto da concluderne che la scienza è pura anarchia” (16).
Allora: se le cose stanno così – e le cose sembrerebbero proprio stare così visto che queste cose sono costituite da parole sue –, non capisco bene cosa c’entri Feyerabend, al di là degli scherzi linguistici, con il pensiero anarchico. Se “tutto” gli “va bene”, gli “va bene” anche la Chiesa – tutte le Chiese con tutte le loro Sacre Scritture accumulate in questo mondo. Che queste Chiese producano “vie armoniose” può essere affermato soltanto al caro prezzo di dimenticare le altre vite che stroncano. Se tutto gli “va bene”, gli va bene anche il fascismo che, non a caso, come teoria – successiva alla pratica – vanta la sua capacità di “modificare i modi di vita a seconda delle circostanze”. Ma sulla storia della filosofia e sulla sua proverbiale duttilità ormai la so lunga (mi vengono spesso in mente gli intellettuali di sinistra che sbavano di entusiasmo per il pensiero del nazista Heidegger) e, dunque, non mi stupirò affatto qualora qualcuno mi spiegasse che mi sbaglio e che – anzi –, Feyerabend rappresenta il meglio dell’anarchia contemporanea.

Felice Accame

Note

  1. Cfr. P. K., Feyerabend, Ammazzando il tempo – Un’autobiografia, Roma-Bari 1994, pag. 161. Per una recensione dell’opera, cfr. F. Accame, L’autobiografia di Feyerabend, in “Working Papers della Società di Cultura Metodologico-Operativa”, 58, 1994.
  2. Cfr. P. K. Feyerabend, Ammazzando il tempo – Un’autobiografia, cit., pag. 204.
  3. Cfr. P. K. Feyerabend, ibidem, pag. 35.
  4. Fra i tanti esempi, cfr. P. K. Feyerabend, Contro il metodo, Milano 1973, pagg. 89-99. La correlazione fra Dingler e Popper non è casuale. Per verificare la protervia metodologica del secondo nei confronti del primo, cfr. F. Accame, Scienza, storia, racconto e notizia, cit., pagg. 99-100.
  5. Cfr. P. K. Feyerabend, Ammazzando il tempo – Un’autobiografia, cit., pag. 149.
  6. Cfr. P. K. Feyerabend, ibidem, pag. 161.
  7. Cfr. P. K. Feyerabend, ibidem, pag. 204.
  8. Cfr. P. K. Feyerabend, ibidem, pag. 171.
  9. Cfr. P. K. Feyerabend, ibidem, pag. 185.
  10. Cfr. P. K. Feyerabend, ibidem, pag. 119.
  11. Cfr. G. Vaccarino, Scienza e semantica costruttivista, cit., pagg. 327-328.
  12. Cfr. P. K. Feyerabend, Contro il metodo, cit., pag. 9.
  13. Cfr. P. K. Feyerabend, Ammazzando il tempo – Un’autobiografia, cit., pag. 203.
  14. Benjamin Péret (1889-1959), poeta surrealista, ex-comunista, volontario in Spagna nel 1936, ex-trotzkista, poi antigollista nel gruppo di Quatorze juillet.
  15. Cfr. A. Schwarz, Anarchia e creatività, Milano 1981, pagg. 76-77.
  16. Cfr. P. K. Feyerabend, Ambiguità e armonia, Roma-Bari 1996, pag. 39.