rivista anarchica
anno 37 n. 330
novembre 2007


PinelliPiazza Fontana

I funerali di Pinelli
di Franco Fortini

 

Un freddo pomeriggio milanese di tanti anni fa. La testimonianza di uno scrittore.

 

L’altra mattina ho attraversato il centro mentre da uffici e fabbriche la gente convergeva in piazza del Duomo per i funerali degli assassinati. Mi è parso di non aver mai veduto una scena simile. Tra via Manzoni e Santa Margherita i portoni versavano gruppi fitti di impiegati che uscivano e si dirigevano verso la Galleria e il Duomo. Pareva si stesse muovendo tutta la città. I negozi chiudevano, le banche abbassavano le saracinesche. Arrivavano a migliaia gli operai della zona Nord, infagottati nelle tute che celavano panni di casa; aggrondati in viso. Il freddo era molto duro, umido. Non ho voluto restare sulla piazza. Quando ho raggiunto Largo Cairoli fra la folla che si accalcava sui marciapiedi, ho visto passare tre o quattro furgoni funebri, diretti al nodo delle autostrade.
Oggi a scuola ho tenuto la mia terza lezione sul testo di Marcuse a una quindicina di allievi. Ho cominciato alle due e venti. Avevamo finito l’orario scolastico all’una. La presidenza ci ha concesso l’aula. Sono stati gli studenti a chiedermi di parlare dell’Uomo a una dimensione. Quella loro quasi incredibile volontà di impadronirsi del linguaggio di un filosofo della scuola di Francoforte, con Hegel alle spalle. Non hanno mai ascoltata una lezione di filosofia e vengono, quasi tutti, da famiglie operaie della più tetra periferia e dell’hinterland.
Stamani avevo scritto sulla lavagna un appello: si farà un’ora sola su Marcuse delle due previste perché c’è il funerale di Pinelli. Chi vuole ci venga. Poi ho detto – ma non so se ho fatto bene – che era meglio limitare la partecipazione. Quando alle tre e quaranta sono uscito ho capito che nessuno dei ragazzi avrebbe potuto venire. A quell’ora dovevano avviarsi al pullman e ai treni della Nord per tornarsene alle loro case. Ci sono quelli che abitano a un’ora e mezza di viaggio.

Milano, via Preneste. 20 dicembre 1969
I funerali dell’anarchico Giuseppe Pinelli

Seri ma non tesi

Ho percorso in auto i viali verso il ponte della Ghisolfa. C’era molto traffico, è l’ultimo sabato prima di Natale. Dopo via Bodio, sulla discesa del ponte che si prolunga verso occidente con un lungo nastro soprelevato di cemento m’è venuto addosso, accecandomi, il sole già basso, al tramonto, rosso tutto faville. Riconoscevo la Milano futurista, espressionista anarchica, degli Anni Dieci.
I raggi trapassavano un’aria polverosa, gelata. Foglie e carta. I piazzali convulsi, l’erba secca sulle aiuole spartitraffico.
La strada era nera di folla, fra le due pareti di case popolari. Donne, gli occhi rossi e lo scialle, si affacciavano. Qua e là, fotografi appostati.
Mi sono detto: quanta gente. Ma non era vero. Neanche un migliaio di persone. Quanti debbono aver avuto paura. C’è un mazzo di bandiere nere con la A in rosso. Due o tre bandiere rosse. Di quelle della Quarta Internazionale, credo. Molti, forse più, erano giovani; ma molti anche gli anziani e vecchi. Quando sono in mezzo a una folla non mi rammento di essere già, per i più, un vecchio.
La bara veniva avanti dal fondo della strada, su di un furgone identico a quello che giorni fa aveva portato via Umberto Segre. Poi, tra la gente che guardava dai marciapiedi e la gente che guardava dalle finestre, venivamo noi.
Cercavo con gli occhi Vittorio e Giovanni e così mi volgevo, camminando e guardando in faccia la piccola folla. Non si sentiva neanche lo scalpiccio. I visi erano seri ma non tesi. Una vecchia magra, gli occhi rossi di lacrime. Mi ha salutato. L’ho riconosciuta, stupito: è una comunista, di quelle che per vent’anni hanno fatto la Milano alto-borghese – che ci ha portati fin qui. Di altri comunisti del PCI, ne ho veduti pochissimi: vecchi i più, alcuni vecchissimi. Come mai sono qui, confusi con i marx-leninisti e gli anarchici? Sono, ora capisco, i nostalgici dello stalinismo, sempre più respinti ai margini del partito.
Poco dopo essere uscito sul viale – la folla si è fermata. Ho visto R., alto, già molti capelli bianchi, sua moglie, piccola e muta. Goffredo dice che domattina Enzo Paci parlerà al cinema Anteo. Il PCI non voleva dare il locale, aspettasse dopo le feste. “Dopo le feste – avrebbe risposto Paci – siamo tutti in galera”.
La polizia non permetteva al corteo funebre di proseguire. Insieme a N. sono arrivato a Musocco che era ormai crepuscolo. Faceva sempre più freddo. Abbiamo camminato svelti attraverso la pianura di croci e monumenti. È sterminata, sino all’orizzonte non vedi che cippi e croci.
Al campo 76 ci sarà stato un centinaio di persone un gruppo cupo sulla terra calpestata, sotto il cielo verde e viola. Su di un viale poco discosto, sotto grandi pioppi ignudi, una ventina di agenti in borghese guardavano i compagni del morto. Eravamo ai due lati di una trincea. Qui scavano con una benna, giudicando a occhio quante bare dovranno entrare in giornata. Quando siamo arrivati i becchini stavano calando la bara di Pinelli. Accanto alla sua ho visto calare, poco prima, un’altra cassa. Abbiamo alzato i pugni a salutarlo. Un frate ha cominciato a dire in latino una preghiera. Pregava per quell’altro e i parenti dello sconosciuto si allontanavano da quella gente strana, venuta a sovrapporsi alla loro pena. Qualcuno, con tono brusco e professionale, mise in mano a una vecchia un foglio, scandendo il numero di riferimento della bara e del campo.

Un lungo momento

Intanto sopravveniva altra gente. Guardavano verso la cassa, in fondo alla trincea. Dall’altra parte del fossato ho rivisto la testa candida di Giovanni. Scivolando sulla fanghiglia, facendomi largo tra i fotografi,– anch’io sono arrivato sul ciglio della fossa. Le bandiere nere si abbassavano. Un giovane con una corta barba ha detto con voce tranquilla alcune parole: “Pinelli è stato assassinato. Addio, Pino. Non dimenticheremo né te né quelli che ti hanno ucciso”.
È stato un lungo momento. Mi sono rammentato di quando, cinque anni fa, abbiamo messo in terra Raniero Panzieri, a Torino. La voce roca ha attaccato “Addio, Lugano bella”. Erano in molti a cantare ma a bassa voce e il ritmo era lento, davvero una marcia funebre. Che quelle parole potessero essere ancora attuali, faceva impressione e rabbia. Ripetizione, tradizione. Quel canto pareva somigliare a quelli di sconosciute sette, perdute entro le capitali moderne. M’è parso, per un attimo, di essere in una di quelle città degli Stati Uniti dove sopravvivono le memorie anarchiche del secolo scorso o dell’età di Sacco e Vanzetti. L’orgoglio della miseria e, più ancora, l’orgoglio della sconfitta.
Era davvero così? Guardavo i giovani che, non senza incertezza cantavano ora una Internazionale stonata; per un tratto, anch’io li ho accompagnati. Vent’anni fa i vecchi carrarini che, dopo il funerale di uno di loro, venivano in riva al Magra a cantare le canzoni del Gori, non erano che una curiosità. Oggi non è più così, i libertari hanno ritrovato, dopo il 1956, non solo i propri morti ma anche le ragioni. E quel che accade alle verità che diventano vittoriose solo dopo la morte, dissolvendosi. Nello squallore di questa fedeltà sento il medesimo odore di cripta che è di certe cappelle protestanti. Eppure quanto di quelle, anche nel loro gelo, non è passato nel cattolicesimo dei nostri giorni. L’anarchia ha fecondato così, senza che ce ne avvedessimo, una buona parte degli operai e degli studenti; e Bakunin si è presa la sua rivincita su Marx.

Particolare della lapide su cui si intravvede la poesia di Edgar Lee
Masters, Carl Hamblin, ripresa dall’Antologia di Spoon River

Il gelo del cimitero

Viviamo nelle paure di una identità irrigidita, di una fedeltà senza virtù. La fedeltà che retrocede a superstizione: questa può essere una delle facce del decadentismo. Le superstizioni sanno addobbare magicamente il dolore e la sconfitta. Il gelo del cimitero, la pietà dei canti stonati, delle bandiere sulla fossa ingiusta, la sera di noi gravati dal senso di un capitolo di storia che si chiude, di un triste futuro di persecuzione e di silenzi: tutto questo è stupenda scena della fedeltà, armonia della ripetizione: ma è anche inganno e conforto.
Veniamo via che è buio fitto. Vittorio Sereni, Marco Forti e Giovanni Raboni camminano con me sulla ghiaia del vialetto. Ci sorpassano coppie di giovani, nelle loro vesti militaresche, il braccio di lui intorno alla spalla di lei, carichi – così immagino – di rancore e amore. Che cosa sarà di loro? Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita una età, cominciata ai primi del decennio. È possibile il silenzio degli uomini dell’opinione, i difensori dello stato di diritto? Sì è possibile. La paura è veloce. Lo dico e i vicini sono della mia stessa opinione. Chissà che cosa ci porta il domani. L’alone di luce della città è davanti a noi in fondo a Viale Certosa e a Corso Sempione, oltre il Castello. Ci salutiamo, ci stringiamo le sciarpe al collo, ci separiamo, andiamo in cerca delle nostre auto sul piazzale.

Franco Fortini