rivista anarchica
anno 37 n. 324
marzo 2007


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Prima di loro il diluvio
La canzone salvata dai Cantacronache

Quest’anno si celebra il compleanno di un importante progetto, e vogliamo essere fra i primi a sottolinearlo.
So che si preparano pubblicazioni e spettacoli e che in particolare Giovanni Straniero (oltre che affermato giornalista, il nipote di Michele L.) sta preparando una bella serie di iniziative con prestigiosi editori, coinvolgendo (addirittura) importanti istituzioni.
Prima ancora però che possiate scoprire o ri-scoprire il fenomeno dei Cantacronache per il suo proprio lavoro, mi piace dedicare questo articolo alla situazione da cui nacquero. Ho sempre pensato che accanto all’indiscutibile bellezza di alcune cose del loro repertorio e all’enorme importanza storica del progetto in sé, particolarmente eroico fu il valore creaturale del loro intervento. Per questo – per me che scrivo – la data del 1957 corrisponde esattamente alla nascita di una moderna canzone d’autore in lingua italiana.
Cantacronache è un nome che suona arcaico, distante, irraggiungibile; questo nome viene citato come una citazione obbligatoria, viene pronunciato senza riflessione e spesso con un po’ di spocchia. Questo nome viene ancora rivestito di molti pregiudizi a destra e anche a sinistra: “Furono velleitari, pionieristici, distaccati dalla realtà. Furono dei borghesi illuminati, ma sostanzialmente distanti dalle vere radici e preoccupazioni popolari”, ecc..
No compagni. Io penso che furono seminali. E a maggior ragione sono imprescindibili.
Nell’inverno fra il ’57 e il ’58 questo gruppo un po’ bohème di intellettuali, musicisti e scrittori di belle speranze, si era stancato di quello che passava il convento, e mai frase idiomatica esprime più acutamente il controllo sulla musica – cosiddetta leggera – che un asfittico panorama culturale perbenista e ottuso riusciva a conservare… una specie di radiovaticana su tutte le onde.
La letteratura italiana viveva il pieno del suo fulgore, era l’epoca in cui erano vivi e attivi Fenoglio, Calvino, la Ginzburg, Sciascia, Silone, Vittorini,… Il cinema splendeva ancora dei bagliori del neorealismo e di tutti i suoi mostri sacri.
Giusto la canzone era confinata e negletta a razzolare sul fondo senza storia delle mamme, delle edere, dei papaveri e delle papere. Per questo è anche giusto tentare di vederci chiaro e capire come mai mentre – per restare nel campo della francofonia, che come sapete mi è particolarmente caro – altrove la canzone era già un genere maturo, d’autore direbbe Enrico De Angelis, invece qui in Italia questo genere era rimasto così indietro e tanto faticava ad affermarsi.
Agli inizi del ’900, l’Italia, da meno di mezzo secolo unificata, si trova in mano una bella tradizione profondamente radicata, erede com’è del melodramma e della romanza (il lied in versione nostrana), ma comunque altissima e feconda. Consideriamo anche come la straordinaria esperienza della canzone partenopea in quegli anni sia proprio all’apice del suo splendore per merito di una nutrita coorte di artisti quali Di Giacomo, Murolo (Ernesto, il padre di Roberto), E. A. Mario, Armando Gill.
Proprio questi poeti sono sostanzialmente pronti a convertirsi, preso atto della necessità – anzitutto commerciale – di una unificazione linguistica, nella canzone in italiano, prova ne sia che il padre dei due capolavori della canzone napoletana e italiana d’inizio secolo, rispettivamente Reginella e Signorinella, risponde al medesimo nome di Libero Bovio e che Armando Gill scrisse (e interpretò) Come pioveva.
Però sui primi timidi tentativi, ancora ovviamente datatissimi e retrò, di uscire dal tema sentimentale o patriottico e di affrontare descrizioni esistenziali e sociali (Addio tabarin e Scettico blu, quest’ultima condita persino di un pizzico – più enunciato che praticato – di esotismo musicale: blu si doveva leggere come un’italianizzazione di blues), si abbattè il Min. Cul. Pop., perversamente intelligentissimo!
Ben più che i libri degli intellettuali antifascisti, colti ma sostanzialmente inoffensivi sul piano sociale, quali Benedetto Croce lasciato libero di pubblicare durante il ventennio con la Laterza, l’occhiuto ministero sa che deve presidiare, con la più grande e meschina attenzione, i meccanismi di comunicazione popolare, che senza darlo a vedere corrono di bocca in bocca per strade e piazze, virtualmente inarrestabili: il cinema e soprattutto, per la sua facilità di diffusione, la canzone.
Il cinema dei cosiddetti telefoni bianchi trova ancora i suoi estimatori, e in ogni caso intrattiene un più virtuoso rapporto con i film prodotti all’estero, pur recando chiaramente le tracce di un pesante controllo. La canzone invece viene realmente distrutta, fa un balzo indietro perdendosi in un’arcadia stucchevole e irritante, e diseduca pesantemente l’orecchio del pubblico con l’ammorbante riproposizione di stilemi che terranno botta fino appunto agli anni ’60, per certi versi ancora fino a oggi.
Arriva la liberazione, la speranza, la rivincita (che in verità sul piano culturale appare decisamente meno tradita che sul piano politico). Le arti ne hanno una straordinaria rivitalizzazione, dicevamo – soprattutto la narrativa e il cinema –, per la canzone però il tempo sembra non passare.
Nasce il Festival di Sanremo, e pur con le frontiere aperte all’importazione del jazz, per non parlare di quello che avviene oltre il vicinissimo confine francese, Grazie dei fiori è una canzone che non sarebbe dispiaciuta alla trista memoria del Ministero della Cultura Popolare.
Qualcosa però doveva pur cambiare: nel ’58 sarebbe arrivato Modugno, con la sotterranea travolgente forza del canto popolare, un canto gutturale, mutuato dai cantastorie, dai pescivendoli salentini, che invece di tenersi le mani sul cuore sospiroso, le avrebbe spalancate nell’affanno sensuale di Volare!
Ma se di questa rivoluzione formale tutti ne ebbero contezza, del fatto che una schiera di anticipatori lavorava, anche sul piano dei contenuti, all’ombra della Mole, pochi lo sapevano.
Erano senz’altro tutti sinistrorsi, ma nemmeno troppo organici al partitone comunista: Michele L. Straniero proveniva dai cattolici del dissenso, e per tutta la vita sarebbe rimasto profondamente interessato al tema della religiosità popolare e ai problemi della fede; Fausto Amodei era un giovane socialista dalle idee piuttosto radicali e profondamente imbevuto dei temi del pacifismo alla Bertrand Russell, e quanto alla canzone, essendo Brassens il suo nume tutelare, molto dell’umanesimo anarchico di quest’ultimo si specchiava nella sua vocazione; Margot, al secolo Margherita Galante Garrone, la grande interprete del gruppo, era la figlia di Alessandro, il magistrato e storico antifascista.
Sergio Liberovici, musicista colto e raffinato, fu colui che nutrì il progetto con le sue intuizioni: “…l’idea di fare delle canzoni di valore critico-contingente… ma come le scrivo queste canzoni? Facilone, per grosso pubblico, tipo canzonette? Oppure tipo lieder? (…) A San Donaci, un paesino in provincia di Brindisi, i contadini protestano per la diminuzione del prezzo delle uve all’ammasso: abbandono delle campagne, cortei, comizi, polizia che spara sulla folla, morti per le strade e nei campi, tutto finito. L’episodio mi colpì enormemente e sentii l’esigenza di trasferire quella emozione in una composizione musicale; una composizione che non fosse però qualcosa di solito (almeno per me), come una cantata o un’opera lirica o un balletto, bensì un brano agile, scorrevole, in grado magari di raggiungere quelle stesse popolazioni del sud e di acquisire alle loro orecchie ed alle loro menti il valore di una testimonianza, di una concreta solidarietà (…)” (S. Liberovici, diario, settembre ’57).
Le linee guida erano chiare; i primi protagonisti, quelli più disponibili a sobbarcarsi la fatica e i contatti, c’erano. Cominciò febbrile la ricerca di nuove collaborazioni, cominciò a stendersi un progetto multiculturale che voleva attrarre giovani musicisti (Giacomo Manzoni e Piero Santi), scrittori (Calvino, Fortini), uomini di teatro (Parenti, Fo, Durano), ma anche grafici che disegnassero copertine e manifesti. Insomma, un tentativo di arte totale che rompesse gli schemi esistenti.
Il Cantacronache (gennaio 1962). Da sinistra: Sergio Liberovici,
Fausto Amodei, Michele L. Straniero, Margot

Il debutto discografico e l’attività concertistica del gruppo ebbe sviluppo a partire dall’anno successivo, dal ’58, e senz’altro a dire esattamente il quid dei Cantacronache, ad analizzare le loro opere, dedicheremo dei futuri articoli, ma volevo anticipare l’atmosfera generale, la contingenza storica, l’assenza di ogni cosa, la melassa commerciale da cui questi ragazzi fecero germogliare – nel silenzio e forse nell’incomprensione – un genere nuovo, che si caratterizzò per la sua vocazione a confrontarsi con la storia, a sporcarsi le mani con la realtà.
Ma cosa ce ne può fregare oggi? Parlare di Cantacronache oggi non equivarrà a fare un’operazione nostalgica?
Anche oggi ci troviamo immersi nella melassa e circondati da un infestante rumore che assomiglia molto al silenzio, anche oggi pare che a volersi muovere in quel senso si gettino colpi di spada nell’acqua. In meno dei Cantacronache abbiamo giusto la speranza. Però, sappiamo anche che dei Cantacronache ci sono già stati, e che l’esempio e la memoria sono gli stimoli per ricominciare

Alessio Lega
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