rivista anarchica
anno 36 n. 322
dicembre 2006 - gennaio 2007


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

L’aura fritta
e i suoi cuochi

 

1.
In Sinai, sul monte, Mosè ci salì due volte. La seconda volta stette a tu per tu con il Padreterno per quaranta giorni e quaranta notti – come quello che, poi, starà a San Vittore “a ciapà i bott” – in digiuno totale, mentre l’Altro cercava le dieci parole giuste per scrivere le due Tavole della Testimonianza. Quando ne discese, invece che smunto pallido e smagrito, Aaronne e tutti i figlioli d’Israele si trovarono di fronte ad un viso stranamente risplendente – tanto risplendente che temettero di accostarglisi. Aveva l’aura (Esodo, 34, 30).

2.
Quando Walter Benjamin, nella sua Piccola storia della fotografia, definisce l’aura, del “soffio” e del “venticello”, che pare fosse il designato della parola latina, non ce n’è più traccia. E anche della già annosa metaforizzazione che implica un passaggio dalla persona dotata di aura al credito che qualcun altro le concede. Secondo Benjamin, l’aura sarebbe “un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina”. Il suo carattere di sacralità risalirebbe alle origini di un’arte che, espressione del rito e del culto, ad un certo momento delle vicende umane sul pianeta, non sarebbe distinguibile dall’esperienza religiosa. Messa così, se da un lato l’aura rimane molto lontana da quell’ipostasi fisicalista del teosofo Rudolph Steiner – che diceva di “vederla”, tutt’attorno all’essere umano, come “una nube di forma press’a poco ovoidale (in media circa il doppio dell’altezza e quattro volte la larghezza) –, dall’altro lato, pencola ancora tra entità indipendente e costruzione dell’osservatore (stesso destino del “carisma” analizzato da Weber).

3.
La mia insofferenza nei confronti dei discorsi sull’arte tende a crescere nonostante la sua data di nascita. Negli anni Sessanta mi si tradusse nel problema della metodologia della critica (d’arte pittorica, letteraria o musicale – in ogni campo c’è il suo corrispettivo): in base a quali criteri a qualcosa veniva attribuito più valore che a qualcos’altro? Come mai questi criteri rimanevano perlopiù impliciti e come mai, laddove si tentava di esplicitarli, la loro formulazione prevedeva l’uso di metafore irriducibili, tautologie e definizioni in negativo? Detto in parole poverissime: i discorsi dei sistematizzatori dell’arte – discorsi interpretativi, discorsi classificanti, discorsi selezionanti, discorsi valorizzanti e svalorizzanti – facevano acqua da tutte le parti, non avevano senso alcuno nel parlare dei comuni mortali e tuttavia asserivano il potere di chi li faceva alla faccia di chi li subiva. Gli artisti non erano da meno dei critici.
Con il tempo, mi sono reso conto sia delle difficoltà insite in un’eventuale scienza estetica – contro la cui eventualità, peraltro, vegliava armato e verbosissimo il forte partito dell’ineffabilità dell’opera d’arte –, sia della funzione politica di questo stato di cose.

Mont Sainte-Victoire di Paul Cézanne

4.
Non avrei mai detto che fosse possibile, ma è mia ferma convinzione che, dagli anni Sessanta ad oggi, questo stato di cose è addirittura peggiorato. Faccio un esempio.
In un saggio intitolato La fuga dalla parola – in Linguaggio e silenzio, edito in Inghilterra nel 1967, tradotto nel 1971 e oggi, dopo varie edizioni, ripubblicato da Garzanti –, l’osannato intellettuale George Steiner si concede alcune affermazioni sull’uso delle metafore nel discorso estetico che, a mio avviso, costituiscono il lasciapassare definitivo allo sproloquio più aberrante. Ma, prima di soffermarmi sulla sua argomentazione, sarà bene inquadrare Steiner nei discorsi che gli sono congeniali.
Il fatto che, per lui, docente Wittgenstein, la filosofia sia “linguaggio in una condizione di scrupolo supremo” (Prefazione, 1966) e che, invece, “le scienze hanno aggiunto poco alla nostra conoscenza o al dominio delle possibilità umane”, potrebbe esser già sufficiente per capire di che pasta è fatto, ma, a scanso di equivoci, è sempre bene ribadire. Allora: Steiner beatamente sostiene che “c’è maggior penetrazione del problema dell’uomo (…) in Omero, in Shakespeare o in Dostoevskij, che in tutta quanta la neurologia o la statistica”, che “nessuna scoperta della genetica eguaglia o supera ciò che Proust sapeva del fascino o del fardello della discendenza” e che “gran parte della nostra condizione essenziale, interiore, è tuttora colta dal poeta”. Il tutto allietato da osservazioncelle dimostrative tipo quella che “nessun occhio occidentale, dopo Van Gogh, guarda un cipresso senza cogliere in esso il guizzo della fiamma” o quella che “chi ha letto la Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi nello specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente parlando, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell’unico senso che conti realmente”. Come si vede, nel suo linguaggio a ruota libera – come sempre in questi casi – c’è assertività fino alla protervia, tipica dell’estetologo normativo e misticheggiante, indifferente ai poteri che serve. Lo direi anche se non mi ritrovassi “ahimé-orientale” e “analfabeta metaforico” (che, per Steiner, a quanto pare, è l’unico analfabeta che “conti realmente”).
Nella Fuga dalla parola si parte dalla considerazione che “l’ineffabile si trova oltre le frontiere della parola”, il che pare perfettamente tautologico, e che “soltanto infrangendo i muri del linguaggio la pratica visionaria può entrare nel mondo della comprensione totale e immediata” – dove il registro mistico-delirante spadroneggia –, per approdare alla trita banalità conoscitivistica in virtù della quale “un ramo d’indagine passa dalla pre-scienza alla scienza quando può essere organizzato in termini matematici”, come se la versione in numeri di qualcosa possa garantire sulla sua correttezza. E qui ci siamo.
Il confronto “scienza-poesia-meglio la seconda della prima” gli serve per pararsi il sedere in quanto “critico”, ovvero per poter straparlare d’arte e quant’altro senza pagare il dazio di esplicitare un minimo di criteriologia e senza contrattare alcuna condivisione dei significati di ciò che dice. Sarebbe, allora, “arrogante” e “irresponsabile” richiamarsi al nostro modello attuale di universo (quanti, indeterminazione, costante di relatività, etc.) se non lo si sa fare nel linguaggio “adeguato” – ovvero in termini matematici. E pertanto “quando un critico cerca di applicare il principio di indeterminazione alla sua discussione dell’action painting o all’uso dell’improvvisazione nella musica contemporanea, non mette affatto in relazione due sfere di esperienza; sta semplicemente dicendo delle sciocchezze”. A questo punto vien voglia di rimangiarsi non dico tutto, ma almeno qualcosa sì. Vien voglia di scusarne i precedenti e considerarlo un bravo figliolo che, alla fin fine – nonostante tutto –, arriva da una conclusione sensata. D’accordo, coltiva un’idea di scienza conoscitivisticamente autocontraddittoria, prende il matematizzato per oro colato, vorrebbe imporre i propri canoni estetici urbi et orbi, ma, almeno, sa difendere il proprio orticello dall’assalto dei cretini più palesi.
Contrordine, compagni. Ciò che era scritto quarant’anni fa, oggi è superato. L’edizione odierna, infatti, è arricchita di una nota. Che dice: “non sono più tanto sicuro che sia proprio così. Ovviamente la maggior parte delle analogie tracciate tra l’arte moderna e gli sviluppi delle scienze esatte sono ‘metafore non realizzate’, finzioni di analogia che non hanno in sé l’autorità dell’esperienza reale. Malgrado ciò, anche la metafora illecita, il termine preso a prestito pur se frainteso, può essere parte essenziale di un processo di riunificazione. (…) Le volgarizzazioni, le false analogie, persino gli errori del poeta e del critico possono essere una parte necessaria della ‘traduzione’ della scienza nell’abbecedario quotidiano del sentimento. E il semplice fatto che i principi aleatori nelle arti coincidano storicamente con la ‘indeterminazione’ può avere un significato genuino. È la natura di tale significato che dev’essere sentita e mostrata”. In pratica, dunque, autorizza ogni straparlìo e si affida all’evidenziazione del “può” per alludere a particolari condizioni in cui lui o suoi accoliti eletti lo giustificano o non lo giustificano. Nell’“abbecedario del sentimento”, d’altronde, c’è posto soltanto per quella indefinitamente misteriosa sensibilità – un po’ filosofica da qualche anno a questa parte – che, rispetto al capire ed al farsi capire, ha tanto rivalutato il sentire e il mostrare.

La Gioconda, il celebre dipinto
di Leonardo Da Vinci

5.
La Gioconda di Leonardo da Vinci, la Strada di Delft di Vermeer, la Montagna Sainte-Victoire di Cézanne, l’Orinatoio di Duchamp, lo Shoot di Burden (costituito dal fatto che detto artista, nel 1971, si fece sparare ad un braccio, in pubblico, da una distanza di quattro metri e mezzo) e le masturbazioni pubbliche di Vito Acconci sono tutte opere d’arte – se non altro perché almeno l’autore le ha considerate tali. Chi voglia comprendere qualcosa della logica che guida l’arte contemporanea non può che prendere le mosse da questa constatazione. Cosa accomuna opere d’arte tecnicamente e concettualmente così diverse? Da Mercanti d’aura (Il Mulino, Bologna 2006) di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano giunge una risposta non banale che innesca, peraltro, ulteriori riflessioni. “Molte opere d’arte contemporanee consistono esclusivamente dell’aura da cui sono avvolte” e quest’aurea sarebbe costituita dall’“insieme di cornici sociali e cognitive che fanno dell’arte quello che è”. Nonostante l’evidente tautologia (ribadita anche dagli autori quando dicono che l’aura “è definita più che altro da se stessa”) di partenza, il saggio acquisisce via via diversi meriti.
Innanzitutto, la documentazione su cui il saggio basa le proprie tesi è ottima e resa disponibile nel migliore dei modi, intervallando nodi teorici a narrazioni che ben contestualizzano artisti, loro opere e “movimenti” artistici che, in un modo o nell’altro, hanno animato l’arte cosiddetta “contemporanea”. È anche grazie a questa documentazione che la chiarezza del discorso non viene mai meno, consentendo agli autori di evitare trabocchetti vari che la retorica altrui pone innanzi al loro percorso – come allorché non cascano in quelle tesi che sommando “massificazione dell’arte”, “riproducibilità meccanica delle immagini” e lavorìo indefesso delle avanguardie nei confronti dei linguaggi artistici vorrebbero sancire un presunto “funerale dell’aura” le cui condizioni sono invece ben lontane dal darsi.
In secondo luogo, va notato come importanti snodi dell’argomentazione siano risolti grazie ad un’attenzione piuttosto rara nei confronti di aspetti limitrofi del fenomeno artistico: il falso ed il suo mercato, la considerazione sociale del rapporto tra arte e follia, i processi di valorizzazione dei prodotti artistici dell’animale (il caso dello scimpanzé Congo – promosso nel 1958 dallo zoologo Desmond Morris – i cui quadri vennero messi in mostra, battuti all’asta e venduti ad alte quotazioni), nonché il rapporto spesso contraddittorio tra arte e cucina.
Dal punto di vista metodologico, poi, va riconosciuto il merito degli autori di saper ricondurre l’arte e l’aura correlata nell’ambito dell’analisi marxiana del feticismo delle merci. Mai perdono di vista il principio che “ciò che fa di una cosa un oggetto di valore non è il suo uso (…) ma il fatto di essere scambiato con altre cose, e soprattutto con l’equivalente universale, il denaro”. Il che, d’accordo, non spiega tutto quello che c’è da spiegare sui processi in virtù dei quali qualcosa acquista valore – sia il valore d’uso che il valore di scambio derivano da un operare mentale che, a certe condizioni, si fa sociale – ma, rispetto alla miseria delle categorie correnti, è sempre un progresso.
Ma il merito principale, infine, è la consapevolezza degli autori circa la necessità vitale dell’arte contemporanea di stare a bagnomaria in discorsi sull’arte medesima, disseminando più di un dubbio sagace sullo stato di sensatezza che caratterizzerebbe questi stessi discorsi.
Nonostante tutti questi pregi – che non sono pochi rispetto a saggi che trattano l’argomento –, a mio avviso, Mercanti d’aura non è privo di alcuni difetti. Ne citerò quattro in crescendo di gravità:
a) Il primo è dannatamente “umano”. Dal Lago e Giordano s’indignano troppo poco per quello che scoprono. Forse perché non prendono tutte le distanze necessarie dall’oggetto della loro analisi – tanto è vero che forniscono perfino una patente di “superiorità” a Warhol perché meglio di altri mostrerebbe di aver “riconosciuto la natura commerciale di qualsiasi arte”, nonostante il suo evidente cinismo e l’“erraticità” dei suoi “pochi” scritti.
b) Il secondo è più “professionale”. Il libro avrebbe avuto tutto da guadagnare se avesse tenuto presente lo sviluppo delle scienze e delle idee in genere – perché è indubbio, a mio avviso, che il mondo delle arti ne sia stato condizionato e che, in certi momenti, il condizionamento è stato più che in altri. Si pensi, per esempio, allo sviluppo della fisica dell’“infinitamente piccolo” e all’ossessione – non solo di Steiner – per il principio d’indeterminazione.
c) Non si occupano, poi, del modo con cui chi li precede in questi studi risolve, o rinvia, o vanifica del tutto il problema della definizione dell’arte, anche perché, programmaticamente, e qui il difetto non vorrei che fosse risultato di un eccesso di furbizia.
d) Evitano con cura – con troppa cura – di pestare i calli ad estetologi e filosofi.

6.
Fuggendo dall’ipostasi realista – in virtù della quale l’aura sarebbe un checché di fisico, empiricamente osservabile, quantificabile, distribuibile a dosi o altre amenità misticheggianti –, Dal Lago e Giordano parlano dell’aura come “effetto” e di un “incorniciamento cognitivo” che caratterizzerebbe l’opera d’arte. Messa così, tuttavia, sulla questione resta un margine di ambiguità ed una certa vaghezza. Da un lato, infatti, riferendosi ad un “effetto” si implica una “causa” – e, dunque, viene ad urgere la domanda: “effetto di che?”. Riportandoci nel mare di guai dal quale si riteneva di esser fuori. Dall’altro, l’incorniciare cognitivamente qualcosa si riconduce evidentemente ad un operare mentale, la cui individuazione, però, come oggetto di ricerca, non è presa in considerazione alcuna. Non vi si fa cenno neppure al livello del mero auspicio. Il duplice peccato rattrista perché – immune da estetologi e da filosofi – una soluzione alternativa è stata indicata già da tempo. Nell’ambito del suo ampio modello della funzione mentale, Silvio Ceccato, infatti, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, ha elaborato una teoria dell’operare estetico che implica sia la descrizione delle operazioni mentali che costituiscono checchessia come estetico, sia l’individuazione dei particolari stati di attenzione che costituiscono l’operazione specifica dell’incorniciamento in grazia del quale quel checchessia potrà, per l’appunto, essere processato come estetico. E non solo: Ceccato ha anche correlato queste analisi con una teoria operazionale del valore, aprendo così la via per la riconduzione del sistema dell’arte alla sua ben recondita natura politica.

L'Orinatoio di Marcel Duchamp

7.
Il denaro, si diceva, funziona da equivalente “universale” nello scambio. E l’arte aurizzata non sfugge alla regola, anzi, ne rappresenta una delle applicazioni più contraddittorie (di peggio mi viene in mente soltanto il fedele costretto a pagare per un posto in paradiso: è uno dei tanti risultati cui si può giungere sviluppando l’analogia che si può porre tra prete e artista dal punto di vista del loro peso a carico della comunità).
Mary McCarthy esemplifica benissimo il caso in cui il valore di scambio dell’arte coinvolge come contropartita non soltanto il denaro ma la vita stessa. In un suo romanzo del 1979, Cannibali e missionari (Mondadori, Milano 1982), la scrittrice americana racconta di una raccogliticcia “commissione per i diritti umani in Iran” (siamo ai tempi dello scià) che, tramite un dirottamento aereo, viene rapita da un gruppo terroristico internazionale, dandosi il caso che, sulla stessa rotta, viaggiasse anche un gruppo di ricconi collezionisti d’arte (“una categoria di persone peggiore dei dentisti e degli idraulici”). Con il che vengono “dirottati” anche i piani relativi alla contropartita per la liberazione degli ostaggi. Il capo dei terroristi, infatti, ha un’idea luminosa e finisce con l’imporla ai complici: non soltanto la liberazione di alcuni detenuti politici palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane, non soltanto denaro da distribuire ai contadini poveri, non soltanto riconoscimenti politici, non soltanto l’uscita dell’Olanda (dove si svolge la maggior parte della vicenda) dalla Nato, non soltanto salvacondotti, ma anche quadri famosi, eccelse proprietà dei collezionisti e, ad un tempo, patrimonio della civiltà borghese tutta. È così che, in cambio della vita degli ostaggi, i terroristi chiedono la consegna di opere di Rubens, Rembrandt, Goya, Vermeer, Tiziano e Giorgione, perché, mentre per il terrorista “l’azione era un’opera d’arte” e l’azione terroristica “era arte per amore dell’arte nella sfera politica”, la richiesta fa deflagrare le contraddizioni del sistema di potere internazionale. La società chiamata al ruolo di controparte, infatti, “aveva due talismani: uno morale, e pertanto ipocrita, onorato soltanto a parole, e l’altro materiale, onorato nella prassi quotidiana e venerato soprattutto sotto la forma di opere d’arte”. Per una volta – l’idea geniale è questa – il terrorista raggiungerebbe i suoi scopi, esibendo tutto il suo scherno per i valori del sistema capitalistico. Finirà malissimo, non ci sarebbe bisogno di dirlo.

8.
Una morale e una domanda, rubandole alla McCarthy. La prima: “arte e ricchezza sono compagni congeniali. Triste, ma vero”. La seconda: “può mai un esteta essere un brav’uomo?”.

Felice Accame

L’opera di Silvio Ceccato relativa all’estetica è compendiata ne La fabbrica del bello, edito da Rizzoli, Milano 1987. Buona parte delle argomentazioni di Mary McCarthy così come sono espresse nel romanzo, hanno fatto parte di una sua conferenza su I valori artistici e il valore dell’arte, tenuta all’Università di Aberdeen (se non vado errato) nel 1974. Della teoria dell’aura di Steiner (Rudolph) mi sono occupato ne Le metafore della complementarità, edito da Odradek, Roma 2006.