rivista anarchica
anno 36 n. 320
ottobre 2006


Ungheria 1956

I consigli operai
di Suzanne Körösi

 

Soffocati sul nascere, i consigli operai del 1956 non hanno avuto il tempo di indicare tutti i loro potenziali insegnamenti.


“La gente (in Ungheria) rifiuta di vivere come prima e neppure i dirigenti possono governare nello stesso modo. Tutto è pronto per un sollevamento. Chi lo dirigerà, dal momento che la classe operaia è disorientata e che il partito non è più all’altezza degli avvenimenti e ha perso la sua autorità sulle masse?”
Tanjug, agenzia d’informazioni jugoslava, Belgrado, 18 ottobre 1956. (1)

Questa informazione è stata data, cinque giorni prima dell’esplosione ungherese, dal direttore dell’Istituto Jugoslavo di Politica e di Economia Internazionale, che era andato a Budapest dal 10 al 17 ottobre per tenere delle conferenze sulle esperienze di economia socialista della Jugoslavia. Quello che sorprende, in questa constatazione, non è tanto la giustezza della previsione che si realizza nel giro di pochi giorni, ma piuttosto la falsa impressione del visitatore sul disorientamento della classe operaia ungherese.
La curiosità della popolazione operaia e intellettuale ungherese per l’esperienza dei consigli operai che funzionano in Jugoslavia dal 1950 entusiasma forse l’economista jugoslavo, ma, apparentemente, non gli permette di prevedere un orientamento analogo nelle aspirazioni sociali e politiche che incontra.
Tuttavia, nelle discussioni, il tema dei consigli operai era nell’aria già da mesi. Dopo la riabilitazione di László Rajik (in marzo), che era stato giustiziato sulla base di accuse prefabbricate, anche per la sua simpatia per la Jugoslavia; dopo la riunione del Circolo Petöfi (in giugno), dove la signora Rajik chiede (davanti a un grande pubblico) che vengano presi provvedimenti contro gli assassini del marito; dopo la destituzione di Rákosi, nota vedette della scena politica degli ultimi undici anni, “l’atmosfera politica era tesa, perché un vento di libertà aveva attraversato le fabbriche, contro la pressione soffocante del partito”. Lo stesso economista jugoslavo fa sapere, dalle colonne di “Borba” (quotidiano del partito) che, tanto gli operai di Csepel (il più grande distretto industriale dell’agglomerato di Budapest), quanto i professori e gli studenti della Scuola di Scienze Economiche, lo interrogavano vivacemente, tra le altre cose, sui consigli operai, e su “la possibilità di dirigere l’economia senza pianificazione centralizzata”. (2) Il soggetto era talmente preoccupante che lo stesso quotidiano jugoslavo riporta (il 20 ottobre), a proposito dell’arrivo degli alti funzionari del partito comunista ungherese a Zagabria: “Nel corso di un incontro durato ore, Ernö Gerö e i membri del Politburo, András Hegedüs e János Kádár hanno posto numerose domande concernenti il ruolo dei consigli operai e dei sindacati nelle fabbriche”. (3)
L’esempio dell’economia jugoslava, nella quale i consigli operai hanno una parte essenziale e, aggiungiamo, quello della Polonia, dove ugualmente sono stati introdotti consigli operai in alcune fabbriche, dovevano certamente giocare un ruolo molto importante nella riflessione degli operai e degli intellettuali che cercavano una strada per uscire dalle disfunzioni economiche da una parte e dalla profonda decadenza di valori, di norme democratiche, dall’altra. Tuttavia, non era questo il solo elemento che determinava la costituzione dei consigli operai, di cui abbiamo testimonianza già nel corso della prima settimana della rivoluzione.

Ungheria 1956. Manifestazione popolare

L’isolamento
comunista


La tradizione, la coscienza socialdemocratica, sopravvissute nel corso del decennio di oppressione, hanno probabilmente avuto un’influenza altrettanto rilevante. Io non posso qui approfondire la storia della socialdemocrazia ungherese; mi accontento di richiamare il fatto che durante il periodo tra le due guerre (e certamente prima della guerra mondiale ’15-’18) è il partito socialdemocratico ad esercitare la sua influenza su una grande maggioranza di operai qualificati. Mentre il partito comunista continuava ad essere isolato, a causa sia della sua azione negativa durante la Repubblica dei Consigli nel 1919, sia della politica settaria mantenuta fino all’inizio degli anni ’30, sia della repressione ch’esso doveva periodicamente subire durante tutto il periodo hortysta, il partito socialdemocratico ha potuto assicurare, al prezzo però di compromessi e concessioni, una continuità della cultura operaia, dell’organizzazione operaia e delle esperienze collettive della lotta economica. Anche se politicamente questo partito si è dimostrato spesso totalmente opportunista, ha rappresentato, assieme ai sindacati, che teneva oltretutto in gran parte sotto la sua influenza, la scuola in cui gli operai avevano l’opportunità di imparare i mezzi di autodifesa collettiva (scioperi, rallentamento del ritmo di lavoro, manifestazioni, ecc.).
Questi fattori, specifici delle condizioni ungheresi in quel periodo storico, non permettono di capire, da soli, la formazione dei consigli operai. Bisogna aggiungere, nella spiegazione, il carattere “universale” proprio della situazione rivoluzionaria.
Tutte le grandi crisi rivoluzionarie sono accompagnate dalla costituzione di consigli (di operai, di contadini, di soldati, di abitanti di taluni settori delle città e delle regioni). I consigli, costituiti durante la rivoluzione del 1848, durante la Comune di Parigi, durante la rivoluzione del 1905 e del 1917 in Russia, nel 1919 in Ungheria e in Baviera, a Pietrogrado e a Kronstadt nel 1921, altro non fanno che illustrare l’affinità tra rivoluzione e consigli. Ciò non significa, certamente, che l’una non possa marciare senza gli altri: i consigli operai vengono talvolta instaurati da una legge promulgata dall’alto (è il caso della Jugoslavia), movimenti per l’autogestione operaia vengono promossi in Canada, in Australia; casi di fabbriche occupate, e in seguito autogestite, sono conosciuti in Francia e in Inghilterra. Tuttavia, durante le crisi rivoluzionarie, è naturale che i lavoratori abbandonino le vecchie forme di produzione, che si mettano a sperimentarne di nuove, che rinuncino ai vecchi modi di comunicazione e si trovino riuniti per stabilirne di nuovi, infine, che formino i loro consigli.
La rivoluzione ha giocato il ruolo di rivelatore storico; ha dato prova di una radicalità di cui, senza dubbio, nessun movimento anteriore era stato capace; infine, ha manifestato una tale inventività che, venti anni dopo, dobbiamo ancora scrutare la strada che si apriva, per imparare a concepire i nostri compiti specifici”. (4)
L’autore di questo apprezzamento, Claude Lefort, è tra le poche persone che, dall’ottobre 1956, hanno intravisto la singolare importanza del messaggio che la rivoluzione ungherese introduce nella storia moderna. L’inventività è l’azione dei consigli operai.
Nella letteratura che tratta della rivoluzione viene dedicato molto poco spazio ai consigli operai. Alcune eccezioni, la rivista “Socialisme ou Barbarie” (pubblicata tra il 1949 e il 1965), la rivista “Etudes” (pubblicata a Bruxelles tra il 1959 e il 1963), uno studio di Balazs Nagy La formazione del Consiglio Centrale della Grande Budapest (1961) e un libro relativamente recente Ungheria 1956 scritto da Bill Lomax (1976).
La nascita dei consigli operai è anteriore al 4 novembre 1956, al secondo intervento sovietico (il primo intervento ha avuto luogo il 24 ottobre). La loro formazione è contemporanea alla rivoluzione stessa, contrariamente a ciò che si suppone generalmente, vale a dire che è stata provocata dall’occupazione. Per illustrare quello che viene detto sopra sul clima generale prerivoluzionario, nel quale l’idea di autogestione operaia, consigli operai, sono già ben presenti, citiamo la risoluzione del Circolo Petöfi adottata il 22 ottobre, alla vigilia della grande manifestazione iniziale: “... il Comitato Centrale e il Governo devono assicurare lo sviluppo della democrazia socialista con tutti i mezzi possibili, precisando le vere funzioni del partito, sostenendo le legittime aspirazioni della classe operaia, introducendo l’autogestione delle fabbriche e istituendo una vera democrazia operaia”. (5) È certo che l’esigenza de “l’introduzione dell’autogestione delle fabbriche” (che viene chiesta al partito) è la ripresa di una rivendicazione già formulata numerose volte. Quattro giorni più tardi (il 26 ottobre) Radio Kossuth (la radio nazionale) comunica la risoluzione del Consiglio Nazionale dei Sindacati, organo ufficiale centrale di coordinamento e di direzione dei sindacati, sui compiti dei consigli operai.
Budapest 1956.
Bandiera sovietica data alle fiamme

Proliferazione
di consigli operai


È difficile sapere se è un programma che viene proposto ai consigli che si stanno costituendo per canalizzare, all’ultimo momento, la collera della popolazione, o se, in qualche misura, è una standardizzazione, un recupero dei programmi che già esistono in maniera dispersa. (6) Ciò che è vero, comunque, è il fatto che il 25 ottobre la radio di Miskolc (città industriale del Nord-Est) annuncia l’attività di un consiglio operaio nella città, ed è a partire dal 27 ottobre che si apprende, dalle radio locali e da Radio Kossuth, di una formidabile proliferazione dei consigli operai in provincia e a Budapest.
Come esempio, citiamo il programma del consiglio operaio di Miskolc presentato da Radio Miskolc Libera il 28 ottobre alle 18.40:

    Noi chiediamo:
  1. Un governo provvisorio veramente democratico, sovrano e indipendente, che lotterà per un paese libero e socialista e al quale non parteciperà nessun ministro che abbia servito il regime di Rákosi;
  2. Questo governo non può venir costituito che da elezioni generali e libere. Poiché non possiamo arrivarci nelle condizioni attuali, proponiamo che Imre Nagy formi un governo provvisorio che preveda solo i ministeri essenziali...;
  3. Il primo atto di questo governo provvisorio, libero e indipendente, che si appoggi su di una coalizione del Fronte Popolare e del Partito Operaio Ungherese, sarà il ritiro immediato delle truppe sovietiche dal nostro paese, che devono non solo riguadagnare le loro basi, ma rientrare definitivamente in Unione Sovietica;
  4. Il nuovo governo iscriverà nel suo programma e realizzerà le rivendicazioni presentate da tutti i consigli operai e parlamenti studenteschi del paese;
  5. Il nuovo potere politico avrà solo due forze armate: la polizia e gli Honvéds (7), difesa interna. L’AVH (8), servizio di difesa dello Stato, deve essere abolito.
    Chiediamo inoltre:
  6. L’abolizione della legge marziale e la piena amnistia, dopo il ritiro delle truppe sovietiche, per tutti i combattenti della libertà e per tutti i patrioti che abbiano partecipato, in qualunque forma, al sollevamento;
  7. Elezioni generali in un periodo di due mesi con la partecipazione di differenti partiti”. (9)
Guardiamo, prendendo l’insieme dei programmi conosciuti, quali sono le rivendicazioni comuni:
  1. Rivendicazioni preliminari: a) Ristabilimento dei diritti democratici e di istituzioni borghesi che hanno funzionato fino al 1947, come il sistema multipartitico, il governo di coalizione, il parlamento, ecc. b) Ristabilimento dell’indipendenza nazionale di cui l’Ungheria ha goduto fino all’occupazione tedesca (1944). c) Mantenimento delle acquisizioni socialiste come la ripartizione delle terre, la nazionalizzazione dell’industria.
  2. Rivendicazioni per una società di tipo nuovo: d) Rottura con il sistema economico pianificato. e) Creazione e autorizzazione dei consigli operai che saranno proprietari collettivi delle fabbriche. f) Autorizzazione delle piccole proprietà fondiarie, artigianali e commerciali.

Vorrei fare alcune annotazioni su questi programmi: prima di tutto, tutti i consigli operai erano d’accordo nella rivendicazione di un governo di coalizione, dunque sull’esistenza dei partiti politici, ma, allo stesso tempo, essi insistevano all’unanimità sulla scelta di Imre Nagy come primo ministro. Questo attaccamento alla persona di Imre Nagy viene generalmente compreso erroneamente nella letteratura politica occidentale. Anche durante la settimana di sciopero generale che durò dal 24 al 31 ottobre tutti si indirizzavano ad Imre Nagy, era a lui che si chiedeva la formazione di un nuovo governo che completasse la rivoluzione. Imre Nagy era il simbolo e forse la garanzia di quello che il socialismo aveva di positivo per la popolazione.
Secondariamente, i consigli operai rivendicavano a sé la proprietà delle fabbriche, esigenza che superava la dimensione dei consigli operai jugoslavi (e polacchi) in cui la fabbrica rimaneva proprietà dello stato e in cui i consigli avevano il solo statuto di gerenti, e superava anche ogni altro tentativo di tipo controllo operaio.
Terza annotazione: nelle rivendicazioni dei consigli manca la presa in considerazione del problema del mercato. È forse con la libera concorrenza delle fabbriche dirette dai consigli operai che essi progettavano l’economia nazionale, oppure approvavano alcuni tipi di coordinamento, o addirittura di pianificazione? Non disponiamo di documenti che permettano di sapere se c’era almeno una riflessione su questi problemi e, nel caso ce ne fosse stata, quale soluzione raccogliesse il favore degli operai.
Per riassumere questa carrellata sulle rivendicazioni dei consigli operai, esse possono venir interpretate come un tentativo di tornare alle acquisizioni democratiche e socialiste del dopoguerra senza la presenza dell’esercito sovietico e con i consigli operai.
Uno dei vicepresidenti del Consiglio Centrale Operaio della Grande Budapest (formato il 14 novembre), Ferenc Töke, scrive, nella sua testimonianza pubblicata per la prima volta nel 1959: “Noi speriamo che il regime, una volta consolidato, possa istituire un sistema politico basato su due Camere. La prima, legislativa, assumerebbe la direzione politica del paese; la seconda si occuperebbe dell’economia e degli interessi della classe operaia. I membri della seconda camera verrebbero eletti tra i produttori, vale a dire tra i membri dei consigli operai, sulla base di democratiche elezioni”. (10)
Non si può sapere in quale misura questa concezione fosse diffusa. Si sa invece, che in numerose fabbriche gli operai favorevoli d’altronde alle libere elezioni, al sistema multipartitico, non hanno lasciato entrare i rappresentanti dei partiti comunista e socialdemocratico (ricostruito durante la rivoluzione); si sono addirittura verificati scontri tra gli operai e i rappresentanti di questi partiti. (11) Gli operai volevano mantenere la fabbrica fuori dall’influenza dei partiti politici. La ragione di questo atteggiamento, apparentemente contraddittorio, è duplice: da una parte difendevano il ricordo dell’epoca che aveva preceduto la presa del potere comunista, epoca in cui due partiti operai avevano la possibilità di organizzarsi all’interno delle fabbriche, situazione nella quale gli interessi immediati degli operai nelle questioni concernenti il salario, l’organizzazione del lavoro ecc., venivano a trovarsi spesso in secondo piano, subordinati ai punti di vista strategici e tattici di questi partiti. Ricordiamo qui Kronstadt, la parola d’ordine analoga dei consigli: “Soviet senza bolscevichi!”.
D’altra parte, e i due elementi sono legati, gli operai desideravano trovare una forma di rappresentatività democratica diretta, in cui i rappresentanti restano in qualunque momento in stretto contatto con i rappresentati, in cui i primi sono destituibili in ogni momento e rimpiazzabili dagli ultimi, tale da poter resistere al processo, fino a quel punto inevitabile, della burocratizzazione. (12) All’interno della fabbrica volevano essere i padroni esclusivi, senza il concorso dei partiti politici; è quel che è successo, per esempio, nella fabbrica di apparecchi telefonici di Budapest: “Abbiamo tentato di evitare la leggerezza fatale di trasformare tutto in un sol colpo, perché gli operai sapevano che uno dei vizi del regime rákosista era stato il cambiamento e il rimpiazzo continuo dei dirigenti tecnici. Abbiamo voluto vedere come funzionava il meccanismo dopo aver soppresso alcuni posti considerati importanti. Avremo più avanti la possibilità di rettificare gli errori di dettaglio, di sopprimere gli uffici sproporzionati, di soppiantare le spie e di dotare la fabbrica di quadri tecnici qualificati. Il nostro scopo era dunque di non mettere a soqquadro la vita della fabbrica da un giorno all’altro, ma di assicurare una transizione calma e graduale alla produzione normale. Nel loro memorandum, indirizzato al governo, gli operai hanno espresso il desiderio di diventare proprietari della fabbrica; volevano dirigerla come propria e mantenerla in buono stato. Il consiglio operaio non poteva prendere alcuna misura sconsiderata, perché avrebbe dovuto risponderne immediatamente di fronte ai lavoratori”. (13)
All’interno della fabbrica questa concezione propone una seconda separazione, quella tra i sindacati e i consigli operai, tenendo conto del fatto che gli interessi puramente economici e quelli della produzione non sono gli stessi. Gli operai che volevano cambiare a fondo le condizioni del lavoro non avevano l’intenzione di migliorare i sindacati “modificando”, “allargando” le loro funzioni; al contrario, accettavano che i sindacati fossero diventati quello che erano, vale a dire un corpo mediatore tra i progetti economici globali e la forza produttrice. Quello che desideravano era definire e delimitare l’autorità dei sindacati in quanto tali, ed imporre un altro corpo di fronte ad essi, quello che aveva la missione di rappresentare gli interessi della classe operaia.

Budapest 1956. “Russi a casa!”

I compiti
dei consigli operai


Il problema diventa complicato dopo la formazione dei consigli operai, visto che è proprio il Consiglio Nazionale dei Sindacati che prende una decisione proponendo la formazione dei consigli operai in tutti i posti di lavoro, determinando i compiti che essi devono soddisfare. Questa decisione fu molto importante: saranno i consigli operai ad elaborare il piano di produzione della fabbrica, definire i compiti relativi allo sviluppo tecnico; saranno i consigli di fabbrica a decidere del sistema di salariato, così come dello sviluppo dell’organizzazione sociale e culturale della fabbrica; saranno infine i consigli di fabbrica che definiranno gli investimenti, la manutenzione e gli utili, così come i turni di lavoro. Si dichiara che i consigli operai sono responsabili, davanti a tutti i lavoratori e davanti allo stato, di una gestione efficace (14). Ma a partire dal momento in cui i consigli si sono messi in marcia, appaiono conflitti tra la direzione, i sindacati e i consigli appena nati; in altri termini, tra il consiglio operaio centrato sul modello jugoslavo e il consiglio operaio creazione degli operai. “È per questo che era molto interessante vedere l’attività degli operai e la loro reazione alla decisione del Consiglio Nazionale dei Sindacati sui Consigli operai. Essi hanno dato un altro senso a questa decisione, contrario ai desideri del partito e dei sindacati. Beninteso, la direzione sperava di imporre i suoi candidati, ma gli operai non ci sentivano da questo orecchio e, soli, vennero eletti i candidati da loro presentati. Avevano preso seriamente la decisione che, in particolare, dichiarava che i consigli devono essere fondati dagli operai, questi ultimi devono giocarvi il ruolo preponderante”. (15)
Allo stesso tempo, il principio “che gli operai vengano rappresentati dagli operai”, sembra essere subordinato al principio della rappresentatività democratica diretta. È noto che nei consigli operai non tutti i membri erano operai; per esempio nella fabbrica di apparecchi telefonici, secondo la testimonianza di Ferenc Töke, il consiglio contava circa 25 membri di cui 19 operai manuali, gli altri erano impiegati degli uffici; nel Consiglio Centrale Operaio della Grande Budapest la grande maggioranza dei membri erano operai qualificati e, tra i membri, si contavano quattro ingegneri. “Il 90% (16) dei membri del Consiglio – nella fabbrica di apparecchi telefonici – apparteneva, d’altra parte, al partito, e parecchi tra loro erano militanti attivi. Ma gli operai avevano fiducia in loro, perché sapevano che avevano sempre difeso i loro interessi. Tutto quello che veniva loro chiesto, era un passato inattaccabile. È per questo che la vita dei candidati era stata accuratamente esaminata, ed erano stati imposti loro interrogatori serrati, davanti a tutti gli operai, al momento dell’elezione”. (17)
Malauguratamente, i consigli operai non hanno potuto portare a fondo i programmi che si erano proposti, perché, a partire dal secondo intervento sovietico, furono obbligati ad assolvere funzioni politiche abbandonando i compiti che essi rivendicavano a se stessi. “La situazione non fu identica durante la rivoluzione e dopo il suo soffocamento. Durante la rivoluzione, soprattutto dopo la chiarificazione del ruolo del governo Imre Nagy, non ci fu problema di un ruolo politico per i consigli operai. Era inteso che questo ruolo incombeva sui differenti partiti politici. Invece, dopo il 4 novembre 1956, si delineò una tendenza nella direzione del suggerimento di una funzione politica ai consigli operai, per un tempo indefinito. In effetti, non esisteva nel paese alcuna altra organizzazione nella quale gli operai potessero avere fiducia”. (18)

Budapest 1956. Assalto
a una sede dell’AVH-AVO,
la famigerata polizia
segreta ungherese

Con il secondo intervento sovietico comincia un nuovo capitolo nella storia dei consigli operai ungheresi. È la storia del Consiglio Centrale Operaio della Grande Budapest (fondato il 14 novembre), della sua lotta per il mantenimento delle acquisizioni della rivoluzione, è la storia del doppio potere e dello sciopero generale nazionale proclamato contro il governo di Kádár, e infine della soppressione dei consigli in tutto il paese, storia che continuerà fino alla fine dell’anno.
Soffocati sul nascere, i consigli operai del 1956 non hanno avuto il tempo di indicare tutti i loro potenziali insegnamenti. Forse torneranno a riproporsi. I ricordi di questi avvenimenti possono comunque rivelarsi utili.

Suzanne Körösi

Ripreso da “A” rivista anarchica n. 3 (73), anno IX, aprile 1979


Note

  1. Lasky-Bondy, La révolution hongroise (testi e documenti riuniti), Flon 1957, p. 14.
  2. op. cit., p. 14.
  3. op. cit., p. 17.
  4. Claude Lefort, La Première révolution antitotalitaire, in: 1956 Warsovie-Budapest. Testi riuniti da F. Kende e K. Pomian, Seuil 1978.
  5. Marie Nagy, Polonia-Ungheria (testi e documenti riuniti), EDI 1966, p. 177.
  6. È più che probabile che questa decisione sia stata formulata e proposta dai riformisti in seno al gruppo al potere per far accettare un modello di tipo jugoslavo. Tuttavia solamente l’apertura degli archivi potrà eventualmente confermare questa ipotesi.
  7. Era il nome dei soldati ungheresi durante la guerra per la liberazione del 1948.
  8. L’istituzione corrispondente al K.G.B. sovietico, la più odiata durante il periodo staliniano.
  9. Lasky-Bondy, op. cit., pp. 106-107.
  10. La testimonianza di Ferenc Töke è apparsa inizialmente sulla rivista “Etudes” del 1959; più tardi è stata ripresa in “traduzione riveduta, corretta e completata”. Questa versione fa da fronte alla nostra citazione, in Marie-Nagy, op. cit., p. 271. Devo sottolineare che questa testimonianza è stata registrata dopo la rivoluzione e può contenere elementi di riflessione nati o strutturati successivamente. Secondariamente, se la si accetta in modo condizionale, come rapporto di un tipo di riflessione autentica della rivoluzione, non va trattata che come un insieme di opinioni e di giudizi personali.
  11. Cfr. Le forze controrivoluzionarie negli avvenimenti del 1956 (pubblicazione del Servizio Informazioni del Consiglio dei Ministri della Repubblica Popolare Ungherese, vol. III, senza data).
  12. Testimonianza di F. Töke in: Marie Nagy, op. cit., p. 247.
  13. idem.
  14. Marie Nagy, op. cit., pp. 185-186.
  15. Marie Nagy, op. cit., p. 245.
  16. Non disponiamo di alcun dato statistico, su questo problema, che possa confermare questa osservazione.
  17. Marie Nagy, op. cit., p. 246. Testimonianza di F. Töke.
  18. Testimonianza di F. Toke in Marie Nagy op. cit., p. 249.
Budapest 1956. Imponente manifestazione di popolo

dalla rivista “Volontà” (aprile 1957)

Insegnamenti degli ungheresi

Questa nota (del 17 novembre, da “Freedom”) è superata nella cronaca ma rimane interamente viva e vitale nelle riflessioni – le quali permangono valide anche se per ora la tragedia del popolo ungherese pare conclusa nel silenzio della disperazione.

Il destino immediato dell’Ungheria ancora non è segnato. Nonostante il tradimento della Russia (non inaspettato) e il tentativo di soffocare nel sangue la rivolta, ancor sembra che l’impossibile stia accadendo. Gli ungheresi non hanno accettato l’inevitabilità della disfatta; essi stanno costringendo gli interventisti militari russi a combattere per ogni palmo di strada.
Nel momento in cui scriviamo (novembre 1956, N.d.R.) la massa degli armamenti sovietici non ha fatto altro che realizzare un’apparenza di ordine senza profondità. I carri armati russi controllano i ponti, i crocevia e le posizioni chiave di Budapest, ma in ogni strada laterale è tuttora il popolo in armi. Ed ogni notte la maggior parte dei carri devono ritirarsi dalla città, poiché la tattica sviluppata dagli ungheresi per combatterli rende loro troppo “calde” le ore notturne.
Le armi principali nelle mani dei russi sono ora i viveri e il tempo. Adesso è evidente che non vi sarà intervento delle potenze occidentali, i russi possono perciò permettersi di attendere che gli ungheresi tornino per fame al lavoro.
Poiché, sebbene gli invasori siano riusciti ad avere il sopravvento dal punto di vista militare, essi non sono stati capaci di persuadere i lavoratori ungheresi a tornare al lavoro. Lo sciopero generale in tutto il paese è stato effettivamente compatto per due settimane, e l’incapacità delle forze russe di usare la mano d’opera ordinaria del paese li ha seriamente impacciati. Finora soltanto una piccolissima minoranza di lavoratori si presentano al lavoro, e questi lo fanno solo per ottenere i viveri per le famiglie; è cosi che vengono tentati a ritornare.
Le ultime mosse del “comando”, mentre andiamo in macchina, sono che una deputazione di alti funzionari sovietici (si diceva che vi fosse Krusciov, Mikoyan e Suslov) sono arrivati a Budapest e stanno cercando di convincere Imre Nagy ad uscire dall’Ambasciata russa dove si è rifugiato, per formare un nuovo governo su base nazionale. János Kádár nominato da Mosca a sostituire Nagy quando l’Armata Rossa ritornò, è rimasto completamente solo. Egli è incapace di trovare qualcuno disposto ad appoggiarlo in un governo, se non quelli dell’odiata polizia segreta, i quali fecero in modo di sfuggire alla collera del popolo nelle prime settimane e tornarono a Budapest dietro i carri armati russi.
Kádár non ha nemmeno polizia civile – gli uomini sono in sciopero col popolo! – né esercito, né burocrazia. Egli ha soltanto i resti della polizia segreta ed i carri armati russi.
Anche Krusciov si rende conto che in questo modo non si può governare, e che l’unica probabilità che egli ha di salvare qualcosa dal caos è di riportare qualcuno che come Nagy sia accettabile dal popolo anche se comunista. Ma rimane da vedere se Nagy è disposto a presentarsi, mentre le forze sovietiche sono ancora nel paese, oppure se Krusciov ritirerà le sue forze prima che un governo fantoccio sia fermamente costituito.

La forza del popolo

Il solo fattore veramente determinante in tutta la confusa situazione è semplice: la forza del popolo.
Dal fumo e dalla polvere della battaglia sono emersi quattro fattori i quali hanno dato al popolo la forza di resistere al potere del Cremlino.
1. Il loro genio organizzativo.
Fin dal principio, giovani inesperti e lavoratori non addestrati si sono dimostrati capaci di organizzare la produzione e la distribuzione. Il collegamento tra le varie parti del paese, le comunicazioni radio con il mondo esterno, i trasporti, la distribuzione dei viveri, il pronto soccorso, tutto ciò e stato organizzato mentre la lotta armata sconvolgeva la vita ordinaria. Persone che prima non avevano mai avuto responsabilità si mostrarono all’altezza delle maggiori responsabilità sociali.
2. La loro solidarietà.
Tutti i settori della comunità si unirono alla lotta comune. Il tradizionale rigido individualismo del contadino, per esempio, si dimostrò né più né meno che avversione dell’uomo di campagna per l’esercizio dell’autorità da parte della città poiché quando gli abitanti della città si sollevarono contro il governo si accorsero che i contadini non indugiavano ad unirsi a loro. Contadini che due settimane prima avevano dichiarato agli esattori governativi di non aver più scorte di prodotti, venivano in città e consegnavano i viveri ai comitati di studenti e di lavoratori, alle massaie e agli ospedali.
Fin dall’inizio, l’esercito fu parte del popolo. E così pure la polizia civile. Studenti e professori universitari, intellettuali e lavoratori, vecchie massaie e bambini, tutti si univano con tutto il cuore nella lotta comune.
3. Il loro eroismo.
È impossibile dire se i numerosi racconti dell’eroismo individuale arrivati dall’Ungheria siano o non esagerati. Sono stati citati molti episodi di ragazzi decenni con granate nelle cinture che si buttavano sotto i carri armati. Ma è ammesso ufficialmente che più di cento carri armati sovietici sono stati distrutti solo a Budapest. Ciò non sarebbe stato possibile senza il più alto grado di coraggio da parte di giovani in gran parte male addestrati e scarsamente armati. È evidente che ancora una volta l’immenso slancio dello spirito generato dalla rivoluzione ha prodotto un comportamento e scoperto coraggio che si possono descrivere soltanto come eroici.
4. Scontento tra le Truppe Sovietiche.
Un’arma che può essere usata da un popolo rivoluzionario, ma non da un esercito di Stato, è l’appello alla coscienza dei soldati nemici. Una delle ragioni per cui le massicce forze sovietiche in Ungheria sono state incapaci di schiacciare la ribellione è stata evidentemente che i soldati russi non hanno il cuore di combattere una simile lotta.
Sono arrivati molti resoconti di carristi che si rifiutarono di combattere. Alcuni sono passati con gli ungheresi, altri hanno appiccato il fuoco ai propri carri. Almeno un caso è stato riferito d’un intero equipaggio di carro armato fucilato dagli ufficiali per essersi rifiutato di sparare.
Non appena raggiunsero l’Ungheria, le forze sovietiche videro che ciò che era stato detto circa la “controrivoluzione fascista” era falso.

Tutti i fattori che assicurano il successo di una rivoluzione popolare sono stati presenti in Ungheria. Noi speriamo soltanto che gli ungheresi avranno tratto gli insegnamenti che emergono da tutto ciò. Che i governi sono impotenti senza l’appoggio del popolo; che il popolo si può organizzare per condurre la società, sempre che decida in questo senso.*
Qualunque regime succeda a quello attuale in Ungheria, vi saranno molti che non dimenticheranno mai gli insegnamenti che essi stessi dimostrarono così bene.

Freedom

* Insegnamenti che restano validi per tutti i popoli, s’intende, non solo per gli ungheresi ed anche – e quanto – per noi (nota della redazione di “Volontà”).

Ripreso da “Volontà” n. 7, anno X, 1° aprile 1957