rivista anarchica
anno 36 n. 319
estate 2006


editoria

Un’altra “A” è possibile?
di Fulvio Abbate

 

Dal 1971 la nostra rivista è la prima in Italia: in ordine alfabetico. Ora il femminile Anna, nel suo restyling, punta sulla sua prima lettera: che è anche la nostra. Come la mettiamo?

 

Quando, negli anni Settanta, ero ragazzino e rivoluzionario, mi piaceva andare in giro con il basco e la stelletta, proprio come nel poster (anche se allora si diceva ancora manifesto) di Ernesto Che Guevara. Lo indossavo uscendo di casa, pensavo così: ora me ne vado a spasso, e tutti mi guarderanno e penseranno che sembro il Che. E invece no. Nessuno ci faceva caso, peggio, non c'era davvero anima viva che riuscisse ad associare il mio berretto alla rivoluzione, al comunismo, al cosiddetto “guerrigliero eroico”, alla mia scelta, a Guevara. Proprio niente, nessuno m'inculava di pezza. Il massimo fu quella volta che, in spiaggia, uno, un ragazzo del mio quartiere, uno con il nasone e un costume da bagno nero marca “Speedo” da competizione, un frequentatore della sala per biliardi “Sirio”, fissando la stelletta, mi disse: “ma che c'hai, lo special acceso?”
Ovviamente si riferiva allo “special” del flipper, lo stesso che s'illumina quando il gioco s'impenna insieme al punteggio, perché era quello infatti il suo orizzonte, il suo mondo, il suo unico comunismo possibile. Devo dire che ci rimasi molto male. Ma come – pensai – mi vesto da vero rivoluzionario che va in Bolivia a combattere contro gli sfruttatori, e nessuno mi riconosce nei miei panni? Sbagliavo evidentemente, non dovevo prendermela; quello, il frequentatore del club “Sirio” di via Marche era ignorante, io però ero peggio di lui: ero un immenso coglione. Sì, nel senso che pretendevo un riconoscimento, là dove non c'era modo di ottenerlo, volevo un premio di identità da parte di un contesto umano e culturale e antropologico che ignorava del tutto la questione. Per questo ero un super-coglione.
Come quando, in altri contesti, magari un po' più borghesi, tu citi Hermes (nel senso del dio postino Mercurio) e quelli pensano invece ai foulard di seta con i nodi, i gigli d'oro e le carrozze, lo stesso che potrebbe sfavillare alle cene sociali del Rotary di Roma o anche di Catanzaro, dove alla fine i convitati si passano il piatto da firmare.
Questa premessa davvero penosa serve comunque a spiegare che non occorre prendersela quando qualcuno non riconosce il tuo nome, la tua identità, la tua faccia, non sa leggere le tue generalità, i tuoi meriti, le tue scelte di libertà.

Pensate infatti a quelli che si vedono in continuazione storpiare proprio le generalità o lo stesso cognome. Un mio amico si chiamava Dario eppure lo chiamavano Diario. Un altro si chiamava Gualtiero e invece lo chiamavano – giuro – Quartiere. Io mi chiamo Fulvio e ancora adesso talvolta mi sento dire Fluvio (o anche Furvio, o addirittura Flavio o Claudio, tutte varianti pronunciate con convinzione, come fossero, nel migliore dei casi, sinonimi!). Abbate invece diventava, sempre nel gioco delle parafrasi, Mario Abbate (il riferimento riguardava un cantante napoletano degli anni Sessanta) oppure Abbate Faria, e questo per via dello sceneggiato Il Conte di Montecristo con Andrea Giordana e, appunto, quel vecchio con la barba imprigionato nella stessa cella di Edmond Dantès, che nel romanzo si chiama appunto Faria, è l'abate Faria.
Si sarà capito che la fantasia è cosa rara, rarissima nel mondo, così come un concetto, un dono, un talento, una dote che i semplici chiamano invece “originalità”.
Questo giornale si chiama “A” da quando, sempre personalmente, andavo al liceo, e infatti, come da qualche parte ho raccontato, ne ricordo perfino il primo numero fresco di tipografia, ne rammento le copie mentre venivano diffuse davanti al cancello di scuola: la grande lettera (la A, ovviamente) cerchiata, il sottotitolo “Rivista anarchica”, il primo piano delle gambe con gli stivali a rappresentare l'autorità e il potere, e lì accanto l'omino con l'ascia che inizia il suo (doveroso, almeno secondo alcuni) lavoro di demolizione...
Questo giornale, fra l'altro, è regolarmente registrato al tribunale (“di Milano in data 24.2.1971”), ma al di là della carta bollata e dei numeri di protocollo non è difficile supporne l'esistenza, visto che contribuisce al dibattito delle idee e della libertà da trenta anni e oltre. E invece da qualche settimana se vado in edicola trovo un suo omonimo, trovo un'altra “A”.
Si tratta di un settimanale “femminile” che una volta si chiamava “Anna”. Mentre adesso, in nome di un legittimo “restyling” editoriale, ha scelto di cambiare nome. Liberissimi.
S'intende infatti che soltanto un ingordo, un bambino, un maniaco ossessivo, un figlio unico viziato e prepotente potrebbe rivendicare la “proprietà” della prima lettera dell'alfabeto, (e non sarebbe certo un gesto particolarmente libertario e neppure, giusto per giocare al ribasso, liberale) a maggior ragione se teniamo conto dell'esistenza di un terzo incomodo come il periodico “A – Abitare”. Dov'è allora il problema?



La fantasia è cosa rara

Il problema riguarda la modalità del battesimo della nuova “Anna” o “A”, quella diretta da Maria Latella, una giornalista non sprovveduta, una che conosce il mondo. E qui entra l'autobiografia: qualche giorno fa chi scrive si trovava ospite della trasmissione di Maurizio Costanzo, Tutte le mattine per parlare di un proprio libro. A un certo punto, ecco che c'è Maria Latella in collegamento telefonico per lanciare il primo numero della sua “A”. Io sto lì, e non ce la faccio proprio a far finta di niente, e così, accanto ai doverosi auguri di buon principio per la pubblicazione, provo a spiegare sia a lei sia ai telespettatori a casa che nel nostro paese esiste già una rivista con quel nome, già, e si chiama “A – rivista anarchica”... E qui nonostante il telefono, intuisco che questa precisazione preoccupa la direttrice, rischia appunto di farla impallidire dietro la cornetta. Soprattutto per una ragione di marketing. Intuisco nella voce di Maria un timore, un tremore: già, che si possa confondere la sua “A” con quell'altra, con questa che state leggendo (ossia l'originale), e ancora intuisco il suo timore che si possa confondere l'Amicizia con l'Anarchia, la Seduzione (nel senso di come potrebbe parlarne, metti, una Carla Bruni o un Flavio Briatore) con la Sedizione, la Sfilata (di moda) con il Corteo, con la Manifestazione, la simpatia dei divi con la rabbia degli sfigati che “non fanno tendenza” da molti anni ormai...
Un timore, carissima Maria, che dovrebbe riguardare semmai gli addetti al marketing, e non una professionista comunque progressista, moderna, spigliata, anticonformista, sufficientemente libera dalle preoccupazioni del buon gusto “borghese” come sei tu.
O sbaglio? Devo pensare che il potere, e dunque l'esercizio del suo ruolo, cancella perfino l'ombra d'ogni ironia, e in questo caso soprattutto la verità oggettiva dell'anagrafe?
Sarà proprio vero che la fantasia è cosa rara, rarissima nel mondo, insieme a quel dono che i semplici, gli zii, i nonni, chiamano invece “originalità”?

Fulvio Abbate

 


Fulvio Abbate è nato a Palermo nel 1956 e vive a Roma.
Scrittore, ha pubblicato i romanzi Zero maggio a Palermo (1990), Oggi è un secolo (1992), Dopo l'estate (1995), La peste bis (1997), Teledurruti (2002). E il reportage Capo d'Orlando. Un sogno fatto in Sicilia (1993), Il rosa e il nero (2001), Il ministro anarchico (2004), C'era una volta Pier Paolo Pasolini (2005), vicini alla formula del racconto-documentario, il pamphlet Sul conformismo di sinistra (2005), e infine, nel 2006, Reality – Come ci sentiamo in questo momento. È commentatore de “l'Unità”.
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