rivista anarchica
anno 35 n. 313
dicembre 2005 - gennaio 2006


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

L’anima e il progetto
Un altro delirio (estivo) su Léo Ferré

E ci siamo attardati fino alla tarda estate del terzo anno (sarà il terzo? Perdo i riferimenti, mi si accavallano le date) di articoli a cadenza mensile sui cantautori (principalmente) francofoni per la rivista anarchica…e, a parte uno scritto d’occasione (la recensione di un libro, peraltro meraviglioso, a cura di Mauro Macario), non mi sono mai occupato di Léo…
E si che Léo è senz’altro la base, l’origine, la sintesi di tutto ciò di cui mi occupo su queste pagine…l’alma matrix verrebbe da dire parafrasandolo.
Ferré il grande, Ferré l’immenso…il mare in tempesta inaffrontabile, l’uomo che scuote le coscienze con le parole, con la musica, con la musica delle parole, coi significati delle sue note.
Immensa senza dubbio, e fuor di metafora, la sua opera: più di 350 canzoni, libri di poesia, poemi e poemetti di tematica politica, ideologica, esistenziale, sensuale; un romanzo confessione che è forse la più lunga delle sue canzoni; opere sinfoniche, sinfonie, musiche per film, musiche per cantare le poesie francesi di Baudelaire (3 dischi e vari scampoli a lui dedicati), di Rimbaud e Verlaine (un disco a testa), di Apollinaire (un poema musicato in forma di oratorio lirico inciso ben due volte e tante canzoni), di Luis Aragon, l’unico contemporaneo affrontato con sistematicità, cosa che stupisce tanto di più, vista l’ortodossia comunista di quest’ultimo e il fatto che semmai Léo si fosse un tempo legato d’amicizia fraterna con Breton, irriducibile avversario di Aragon; ma le ragioni di Léo e la sua coerenza saltavano oltre tutti gli steccati possibili di partiti e assembramenti, per attingere…per attingere…
A cosa?
Ecco, è questo che è veramente difficile spiegare…perché fin qui, come quasi tutti coloro che ne parlano, ho cercato di dare contezza della quantità nella qualità, dello stupore di trovarsi di fronte a tale monumento, eppure tutto ciò è straordinario ma è ancora niente…altri artisti hanno lavorato e compiuto una mole di materiali francamente sovrumani: basti pensare alle circa 800 canzoni (e che canzoni!) di Theodorakis.

Léo Ferré

Allora come affrontare il nocciolo della questione Ferré? Come riuscire a trattare l’elemento unificante e che lo fa unico, al di là della quantità e della qualità dell’eccezionale stile poetico, musicale e interpretativo? Come far entrare il lettore, l’ascoltatore occasionale, l’interessato, i miei compagni nel PROGETTO di Léo?
Sì, perché a rendere Ferré un autore folgorante, a far saltare tutti gli schemi è il suo progetto, la sua opera magmatica che è un progetto vivente, vivo ancor oggi e vivo per sempre (se ha senso questa parola), come l’IDEA stessa.
È questo progetto che fa dire a Rocco, il bassista che suona con me, e che è un colto e squisito musicista cresciuto alla scuola della confutazione di ogni idea pre/post/tardo-romatica, un artista nato per demolire l’ARTE, e che quindi ha in sommo sprezzo la parola “genio”, che Léo Ferré è un genio!
Ora lui potrà negare questa affermazione fatta in un momento di debolezza, ma io l’ho sentita con queste mie orecchie…e vi assicuro che c’è di che stupire anche un budino emotivo come il sottoscritto, in eterna affannosa ricerca di un’altra meraviglia e abituato, a proposito di arte e artisti, a dire “sublime” ogni tre parole e mezzo.
Ebbene, se persino Rocco dà del “genio” a Ferré, cosa posso fare io? Saltellare? Abbaiare il mio entusiasmo? Pubblicare un articolo intitolato Léo e far seguire al titolo solo un immenso campo di punti esclamativi, tipo:
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Dubito che l’attenta redazione della nostra rivista, pure ormai rorida di benevolenza e santa pazienza nei miei confronti, me lo farebbe passare.
Eppure è lo stupore e la meraviglia a dominare colui che si approssima e comincia a intravedere, poi scorge, poi attraversa, senza mai riuscire a dominarla, quest’anima del paesaggio intero dell’opera ferréiana, questo progetto di cui si trova qualche impressione d’insieme in quelle frasi per cui Ferré è diventato uno degli autori di aforismi e slogan più illuminanti che conosca: la musique dans la rue (La musica nelle strade), à l’ecole de la poesie on apprends pas, on se bat! (alla scuole della poesia non si impara, ci si batte!), le desordre c’est l’ordre moins le pouvoirs (il disordine è l’ordine meno il potere).
Appunto, la musica nelle strade è uno slogan che sintetizza quella ricerca.

Dunque un percorso da innamorato della grande musica, di Beethoven, di Ravel (autori su cui peraltro Ferré si esercitò direttamente in un riuscito disco di direzione orchestrale) nel tentativo di liberare la loro musica per restituirla alla rivolta.
Il progetto, durato una vita, di sottrarre alla nobiltà melomane, che ha racchiuso il potenziale rivoluzionario del linguaggio della musica alta nei teatri borghesi e nei conservatori, perché la forma della rivolta sia restituita a chi ha significati rivoluzionari da praticare. Nella strada, necessariamente.
L’arte di Ferré è stata quella di comporre, all’origine, canzonette in cui inoculare sterzate brusche dalla sostanza popolare verso suggestioni classiche.
Poi via via allargare tali suggestioni verso un corpo a corpo con un linguaggio letterario che anch’esso si originava dalla filastrocca, mezza canzone della mala mezzo nonsense surrealista, per vertere al poemetto in versi e musica liberi, all’illuminazione oltre la forma.
Oppure tutt’il contrario? Forse Léo è colui che parte dalla canzonetta per allargarne i confini per violentarne gli esiti verso orizzonti sempre più ambiziosi, diventando in effetti uno di quegli artisti che possiamo a ragione chiamare a buon diritto “padri di tutta la canzone d’autore”, e che per questo le fa assumere un respiro classico in un confronto serrato coi “classici” della letteratura e della musica?
O ancora si deve partire da Léo l’anarchico, Léo che parla, da libertario, di se, di noi e del mondo e tiene in equilibrio continuo spirito e materia, saggezza e follia per i suoi dischi in cui si alternano continuamente attacchi espliciti con nomi e cognomi ben in evidenza ai potenti della terra e canzoni di ardua comprensibilità ma bellissime proprio per la loro oscurità di pensiero e abbacinante chiarezza di sentimento (penso a La memoire et la mer). Per rendere non contingente (e dunque insuperabile nel tempo) un discorso eminentemente politico serviva proprio un autore di tale libertà formale: una libertà che può esistere solo dove la conoscenza della propria materia, musicale e letteraria, è già immensa, e che appunto proietti in uno schermo a permanenza eterna immagini in movimento eppur solide.
Non se n’esce: Ferré è il trionfo dei contrari, la coerenza della libertà, la rivoluzione fattasi poesia e musica e canto. L’origine e la sperimentazione, il modello di riferimento e l’orizzonte ideale cui tendere.
Non se n’esce: c’è da procurarsi quei quaranta dischi e ascoltarli religiosamente, arrivare alla fine e ricominciare perché qualcosa, quasi tutto, è già sfuggito.
Non se n’esce: c’è da farsi sorprendere da un’unica canzone, magari cantata da una delle decine di interpreti che si dedicano o si sono dedicati al suo repertorio, da leggere o sentire per caso una frase sola che illumini…da vederlo, perché no, in video mentre arringa una folla in teatro con frasi da poeta che, razionalmente parlando, vogliono dire ben poco.
Non se n’esce, non con un articolo come questo, non con un delirio di fine estate…forse, se mi va bene, qualcuno di voi può entrarci…però vi avverto, poi sono fatti suoi: non se n’esce.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

 

canzone d’autore

Per ricordare un poeta ci vuole un fiore
Per fare tutto ci vuole un fiore

Qualche parola su Sergio Endrigo

Sergio Endrigo era un uomo di enorme tenerezza. Era candido e sincero e gentile. Sul palco non era né nevrotico né piacione.
Forse non era un cantante, a maggior ragione negli ultimi anni in cui pur conservando il suo bel timbro era stato tradito dall’intonazione: era un uomo che canta, cosa ben diversa, cosa ben più rara.
Quest’uomo che canta arrivava sul palco (coi calzini bianchi) e non faceva nulla per preservare una leggenda, sgranava qualche chiacchiera e delle canzoni, quelle sì leggendarie.
Poi, finito il concerto, cercava di uscire magari sbagliando il lato del palco e intrappolandosi nei drappeggi del sipario (giuro che l’ho visto! Umanissimo).
Finalmente libero raggiungeva il suo camerino e il suo toscano.
Niente di più naturale che andare a chiacchierarci assieme, per continuare quel dialogo aperto dal palco. Le star vivono dei riflettori. Gli uomini son fatti per parlarci. Poi scegliete voi…

Endrigo non era un malinconico, o peggio ancora un cupo, al contrario era terribilmente ironico, reattivo e anche piuttosto incazzoso quand’era il caso. Questa cosa, evidentissima non appena gli si passava affianco, forse stupirà quei tanti che ancora credono alla favola del “principe dei malinconici” che chissà perché gli era rimasta attaccata addosso.
Eppure le sue canzoni d’amore, che effettivamente sono generalmente malinconiche, anche in tempi in cui era raro (leggi proibito) anche solo accennarvi, presentavano dei chiari spunti erotici di vera vitalità (W Maddalena). Eppure, fra i primi, aveva fatto degli album di canzoni per bambini, forse le uniche del genere a essere rimaste saldamente nella memoria collettiva (un titolo per tutti: Ci vuole un fiore). Eppure, della sua generazione e al suo grado di popolarità, è stato forse il primo a cantare di tematiche esplicitamente politiche (Perché non dormi fratello, Camminando e cantando, La ballata dell’ex).
Endrigo era uno di quelli che il successo vero l’aveva conosciuto, la più assoluta popolarità gli era stata affianco per una decina d’anni. Poi questo paese che non conosce il rispetto di se stesso lo aveva emarginato in un ingiusto oblio.
Pazzesco! A maggior ragione perché forse Endrigo le sue cose più belle le ha fatte proprio in quei dischi così poco noti che sono Mari del sud (con una copertina di Hugo Pratt che già da sola è un capolavoro!), Sarebbe bello, Qualcosa di meglio, ecc…
Forse la cosa più intensa che si possa dire di Endrigo l’ha detta il suo collaboratore storico, quella persona meravigliosa che è Sergio Bardotti: Endrigo per lui era Don Chisciotte, il galantuomo generoso che s’imbarcava in ogni operazione, magari all’apparenza folle e anticommerciale, che gli si proponesse, per gusto, per stare assieme, per amicizia o per dare una mano a qualcuno.
Una volta Endrigo durante un intervista televisiva disse che per parlare davvero ai bambini serviva essere un pazzo o un poeta e non essendo lui né l’uno né l’altro aveva chiesto l’aiuto di Vinicius De Moraes o di Rodari.
Io credo che Endrigo sia stato un folle e un poeta mascherato da persona tranquilla per troppa dolcezza.
Quanto ai pazzi, quelli saremmo noi se lasciassimo ancora più a lungo nel dimenticatoio le sue splendide e indispensabili canzoni.

Alessio Lega