rivista anarchica
anno 35 n. 313
dicembre 2005 - gennaio 2006


America Latina

A come America Latina (e Anarchia)
Intervista di Moésio Reboucas a Daniel Barret

 

Qualcosa si muove in Brasile, Uruguay, Argentina, ecc. Da un punto di vista libertario.


Questa è una conversazione avvenuta tra Moésio Reboucas, dell’Agenzia di Notizie Anarchiche (ANA) del Brasile, e Daniel Barret, anarchico di Montevideo, Uruguay.

Dato che qui in Brasile sono in pochi a conoscerti, ti chiedo di parlarmi un po’ di te, del tuo percorso anarchico, di cosa stai facendo in questo momento…

Prima di tutto è necessario chiarire che Daniel Barret non è altro che uno pseudonimo di uso relativamente recente. Con questo nome pubblicai nel 2001 un opuscolo sui fatti di Genova, in cui venne assassinato Carlo Giuliani e continuai poi ad usarlo anche in lavori successivi: in occasione dell’invasione dell’Afghanistan, sul sollevamento popolare in Argentina, sulla situazione del movimento anarchico internazionale, su Cuba, ecc… In quel momento – luglio 2001 – ero già convinto del fatto che il movimento anarchico avesse iniziato ad affrontare una nuova fase e, dato che noi non accumuliamo meriti per nessun curriculum, volli confrontarmi con il mio stesso rinnovamento personale, di cui il nome non è altro che la sua espressione simbolica; l’espressione nominale e minore di questa aspirazione libertaria di crearci e ricrearci permanentemente non solo al di fuori ma anche contro gli spazi gerarchicamente istituzionalizzati. Lo uso indubbiamente solo per i lavori scritti e per le relazioni al di fuori dell’Uruguay che ho affrontato a partire da quella data.
Nel frattempo, dato che non diamo mai un taglio netto con la nostra storia né tanto meno dobbiamo farlo, trovo opportuno dire che il mio alter ego è un militante un po’ meno giovane. La prima volta che scoprii di essere anarchico avevo 15 anni, verso il 1967, e posso dire che, in termini generazionali, mi sono formato in quel territorio in cui si combinavano, in modo non del tutto coerente, le influenze della presenza giovanile degli ultimi anni ‘60 e quella della guerriglia latinoamericana con l’ammirazione per le gesta rivoluzionarie dell’anarcosindacalismo spagnolo. Durante tutto questo tempo ho sviluppato attività militanti in organizzazioni sociali – studentesche, di quartiere, sindacali, ecc… – e simultaneamente in diversi raggruppamenti più specificatamente anarchici; ma mettersi ora a parlare e a enumerare queste esperienze sarebbe lungo e tedioso.
Oggi non posso più portare avanti, per ovvie ragioni, l’attività studentesca; anche se l’idea non mi dispiacerebbe assolutamente. Conduco invece una ridotta attività sindacale in un contesto burocratico che non dà luogo a eccessive aspettative e mantengo invece una presenza molto entusiasta nei luoghi in cui vivo; il più vecchio dei miei amori, il Cerro, un quartiere operaio di Montevideo di lunga, forte e riconosciuta tradizione libertaria. Attualmente però non appartengo pienamente a nessuno dei nuclei anarchici che esistono in Uruguay anche se partecipo alle puntuali attività di alcuni di loro; e, naturalmente, anche alle attività comuni e coordinate. E questo perché penso che sia più proficuo dedicare tempo, energie e riflessioni a tendere ponti tra le differenze alternative piuttosto che rafforzare una di loro in particolare. Ammetto che questo possa essere ritenuto molto discutibile ma per me rappresenta un punto fermo per le circostanze attuali e spero di poterlo sviluppare più approfonditamente nel corso di questa conversazione.

Tu sei ottimista nei confronti dell’anarchismo o delle varie forme di anarchismo?

Decisamente sì; anche se bisogna chiarire che in questo caso l’ottimismo è molto più di uno stato d’animo. Quando prima parlavo di un tempo nuovo per il movimento anarchico volevo riferirmi fondamentalmente a uno scenario internazionale che da un po’ di tempo a questa parte ha allargato le possibilità di sviluppo delle correnti libertarie. I primi anni del decennio iniziato nel 1990 furono caratterizzati da una reazione galoppante e la caduta del “socialismo realmente esistente” sfociò in una rampante ed assurda corsa sfrenata del liberalismo; fenomeno che, nei momenti di maggior delirio, fece parlare perfino della “fine della storia”.
Ma l’estensione delle politiche inaugurate dal binomio Thatcher-Reagan negli anni ’80 dovette rapidamente far fronte a una sconfitta dopo l’altra: in Europa Orientale, nel sudest asiatico, in America Latina e perfino, anche se in modo meno spettacolare, nei paesi centrali. Negli anni ’60 e ’70 una crisi di tali dimensioni sarebbe stata canalizzata e capitalizzata, anche se non totalmente almeno in grande misura, dalle diverse correnti marxiste leniniste.
Ma verso la fine dello scorso secolo questo non era ormai più possibile perché il collasso del “socialismo reale” non solo privava i movimenti rivoluzionari del paternalismo protettore dell’Unione Sovietica ma anche del marxismo leninismo come concezione pseudo-scientifica e mediamente seducente. Tutto ciò delimita due tendenze decisamente marcate ed alla fine entrambe confluiscono – anche se con altre tendenze meno esuberanti, naturalmente – e lasciano dietro e davanti a sé un enorme vuoto che l’anarchismo si propone di colmare a suo modo e all’interno delle sue possibilità. Schematicamente, si può dire che tutto ciò acquisisce il proprio simbolico riconoscimento internazionale a Seattle, nel dicembre del 1999, e si trasforma nello scenario principale dell’attuale risveglio anarchico.
Ma questa constatazione ottimista impone alcune precisazioni. In primo luogo, parlare di un risveglio anarchico non vuol dire che ci troviamo di fronte a un’imminente rivoluzione di carattere libertario né tanto meno di fronte alla veloce conversione in questa direzione del movimento sociale; vuol dire piuttosto che abbiamo davanti a noi a uno scenario propizio allo sviluppo e allo spiegamento di minoranze attive capaci di estendere il raggio di influenza delle nostre proposte e delle nostre pratiche.
In secondo luogo, quello che si è ora aperto è un campo di opportunità, che non si realizzano però spontaneamente, ma attendono ancora un movimento anarchico in condizioni di assumerle come proprio obiettivo. Infine, questo lieto risveglio non dovrebbe appannare la percezione delle nostre debolezze e carenze ma, al contrario, dovrebbe stimolarne un’adeguata presa di coscienza e un successivo lavoro su di loro. Assumere o meno questi elementi collettivamente costituisce, forse, la differenza tra consolidare l’ottimismo o farlo sfociare in una nuova delusione.

Manifestazione anarchica in Brasile

Risveglio anarchico

Sono d’accordo con te quando parli di questo risveglio anarchico a livello planetario, chiaramente senza cadere nell’arroganza. E si può notare questa crescita in diversi ambiti, dall’aumento anno dopo anno delle attività anarchiche, al germoglio di gruppi in luoghi senza alcuna tradizione anarchica, alla pubblicazione di libri, alle manifestazioni e, curiosamente, all’aumento dei prigionieri anarchici nel mondo. Non lo posso affermare con certezza, ma negli ultimi trent’anni non ci sono mai stati tanti prigionieri anarchici nel mondo quanti ce ne sono oggi. Ma sento che l’anarchismo potrebbe trovarsi in una situazione decisamente migliore, prima di tutto se avesse più risorse, poi, per la qualità della gente che si unisce al movimento, per il grado dell’impegno, per la dedizione…
Un esempio che cito sempre è quello dei punks. Ne esistono a migliaia, in ogni luogo, ma effettivamente, per mancanza di contenuto, non hanno nessun peso nella società, sono “solo numeri”.
Con questo non voglio riferirmi a tutti i punks, anche se però alla grande maggioranza di loro. Quando parlo del grado d’impegno, mi riferisco alla gente che si definisce anarchica, ma che non ha il coraggio di lottare nella propria quotidianità, in nessun aspetto della vita, solamente “tra le quattro pareti”.
È incredibile che possano esistere anarchici che vedono un problema sotto il loro naso ma che non muovono un dito per cercare di trasformare questo problema, non si muovono, anzi, alcuni di loro riescono anche a scrivere tesi, articoli o libri su questo problema. (risa). Che ne pensi?

Dividiamo la risposta in due parti. Come prima cosa non mi sembra che ci sia troppa discussione in merito al risveglio anarchico, che può essere constatato per lo meno su sei piani diversi: le presenze nelle grandi concentrazioni del movimento internazionale “anti-globalizzazione” o “alter-mondista”; la proliferazione di gruppi con una composizione principalmente giovanile; il relativo recupero dell’influenza in spazi più o meno “tradizionali” di attuazione sociale; la moltiplicazione delle attività editoriali classiche e in formato web; la fioritura di incontri di discussione e di scambi di ogni tipo; e, indubbiamente, la rinnovata preoccupazione degli organismi di repressione che ormai non vedono più il movimento anarchico come un aspetto pittorico e poco preoccupante, ma come un fattore reale di “perturbazione”. Niente di tutto ciò accadeva su questa scala e a livello mondiale 10, 15 o 20 anni fa, ed è per questo che possiamo parlare di un risveglio libertario e intenderlo come un fenomeno storicamente recente.
Ma analizziamo le cose con calma. Credo che la maniera più adeguata e meno traumatica di considerare quello che tu giustamente segnali sia la seguente. Essendo il risveglio anarchico un fenomeno recente, il movimento che lo incarna non può che essere giovane, ancora carente di un’esperienza storica prolungata e della temperanza o dell’abitudine al fuoco che ne derivano. In circostanze di questo tipo, il movimento che ne scaturisce non può essere altro che accidentale e vario, dove trovano luogo sia gli impegni più profondi che le mere concessioni alla moda. Accettandolo in questo modo – anche se a denti stretti e senza applaudirlo o peggio ancora auspicarlo –, gli anarchici che lo sono solo all’interno delle quattro pareti domestiche risultano essere preferibili ai nemici dichiarati.
Sono d’accordo con te che questo è un problema che dovremmo affrontare ma dobbiamo farlo adottando una prospettiva storica. Un movimento anarchico agguerrito e capace di far sentire la sua voce in ogni occasione che lo necessita non sorge da un giorno all’altro né tanto meno da un anno all’altro. Osserviamo le esperienze che ci può offrire la nostra storia. La risposta che diede l’anarcosindacalismo spagnolo nel luglio del 1936 non iniziò la sua gestazione né nel luglio né nel maggio dello stesso anno, ma nel 1868, anno in cui avvenne la formazione del primo nucleo internazionalista. Tra una data e l’altra ci furono insurrezioni, incarcerazioni, morti, sofferenze, decisioni incorruttibili e un’interminabile successione di atti eroici. Ma anche se la storia non si ripete mai testualmente possiamo ugualmente sentire e affermare che ci troviamo in un nuovo e simile inizio e che il movimento che oggi abbiamo di fronte ai nostri occhi deve pagare il prezzo che gli corrisponde. Sia come sia, io credo e spero che sarà così.

Seguendo il ragionamento della domanda precedente, tu sei d’accordo con l’idea secondo cui alcuni “anarchici” sono più pericolosi dei nostri avversari, il sistema in generale, dato che per loro è meglio distruggere un anarchico piuttosto che il nemico? Parlo di questo a causa delle lotte intestine che avvengono nell’universo anarchico, che, lo vogliamo o no, sono anche una causa della nostra non eccessiva efficienza nell’insieme della società.

No, non penso che alcuni anarchici siano più pericolosi dei nostri avversari ma non sottovaluto nemmeno il peso dei problemi interni. Sovente infatti sono decisamente deplorevoli ma devono anche essere collocati nella prospettiva storica di cui parlavamo poco fa. Uno degli aspetti più noti dell’attuale risveglio anarchico è che il movimento non può contare su di un paradigma di organizzazione e azione ampiamente esteso e accettato come quelli che per un paio di volte si sono verificati nella nostra storia. È un momento di ricerca e di confusione che ha dato luogo anche ad alcune scoperte e ad alcune riscoperte. Allora, ogni volta che quelli che hanno realizzato queste scoperte e riscoperte vi ci si soffermano sopra come se si trattasse della soluzione definitiva alle nostre lacune, vengono sviluppati un discorso e una pratica parziali rispetto ad altri nuclei anarchici, cosa che non fa altro che rafforzare un clima generale internamente turbolento; anche se questo non si manifesta in tutti i paesi con la stessa intensità.
Credo che tutto ciò si pone in questo modo proprio come risposta libertaria alla stessa frammentazione della società e anche perché ci troviamo in un momento di grande fermento. Penso anche che qualcuna di queste differenze interne al movimento anarchico venga ampliata artificialmente e non sopravvivrà all’attuale momento storico. La linea di fuga di questo punto di conflitto si trova secondo me in un lavoro di rinnovamento teorico-ideologico e politico-pratico che non contestualizzi nuovamente il movimento anarchico in un tempo e in alcune società che ormai non esistono e che non torneranno più, ma qui ed ora. Chiaramente però, una cosa è dirlo e un’altra è farlo; e farlo non dipende più da una o numerose menti ispirate ma da un movimento che faccia parte delle lotte che distinguono questa epoca in cui ci è toccato vivere.

Un altro termometro che possiamo individuare in questo “risveglio anarchico” è quello delle citazioni nei grandi giornali delle parole “anarchia”, “anarchico”, “anarchismo”, “libertario”. Chiaro, sovente si tratta di commenti dispregiativi, ma altre volte no, anzi, al contrario, sono perfino belli. Negli ultimi anni ho collaborato quotidianamente con il giornale più grande del Brasile, “A folha de Sâo Paulo”, ed ho notato che è molto comune menzionare la parola “anarchico”, “libertario”… soprattutto negli allegati culturali. Lo stai notando anche in altri luoghi come per esempio in Uruguay o in Argentina?

Sì, senza dubbio. Facciamo nostra una frase di Oscar Wilde: “Non è bello che parlino male di me, ma non sarebbe molto peggio se non dicessero nulla?” Pertanto, celebriamo le campagne contro di noi che possono essere scagliate dai grandi mezzi di comunicazione.
Non importa se generalmente esagerano e se ci viene attribuita un’influenza che ancora non abbiamo e non ci interessa troppo nemmeno che molte delle affermazioni lì contenute non dimostrino altro che una straordinaria ignoranza. La cosa sicura è che si è cominciato a parlare con maggiore frequenza e maggiore energia dell’anarchismo e del movimento che lo incarna.
Questo è sintomatico e ci pone all’interno delle polemiche da cui fino a pochi anni fa eravamo esclusi. E la stessa cosa avviene ormai non più solo nei grandi mezzi di comunicazione ma anche nelle pubblicazioni della sinistra marxista. In questi ambiti si è già iniziato a parlare di una corrente libertaria latinoamericana come alternativa “deviata” dei movimenti sociali e che si nega ad adottare la “scienza del proletariato” o a costruire il “partito dell’avanguardia”. Che parlino pure! È molto meglio di quanto avveniva alcuni anni fa quando semplicemente venivamo visti come dei fiori esotici o come dei pezzi da museo.
Se non ti annoio troppo ti do un’altra prova di quello che sto dicendo. Quando le università latinoamericane erano egemonizzate nelle scienze sociali dal pensiero marxista, l’anarchismo era un argomento che veniva trattato solo nei corsi di storia o in quelli di letteratura; come se noi anarchici non potessimo dedicarci ad altro che alle biografie mitizzate.
Oggi questo sta lentamente cambiando ed è possibile trovare esperienze come quelle del Nucleo Sociale Libertario nella PUC di San Paolo o il corso di “Introduzione al Pensiero Anarchico Contemporaneo” che ha iniziato a tenersi proprio quest’anno all’interno del corso di laurea di Sociologia dell’Università Maggiore di San Simón a Cochabamba o la ricettività che si è trovata nella UCV di Caracas.
Credo che anche questo sia un segno dei nuovi tempi e di una parte in più del nostro campo di opportunità.

Santiago del Cile

Il ruolo di Internet

Probabilmente il Brasile è il paese latinoamericano che ha il maggior numero di professori e professoresse anarchiche, tanto nelle università quanto nelle scuole superiori. Ci sono anche centinaia di studenti universitari anarchici. Ma siccome le contraddizioni fanno parte della vita, e quindi anche dell’anarchismo, non abbiamo nessuna organizzazione o rete di professori anarchici, né di studenti universitari a livello nazionale.

Non dovresti preoccupartene troppo, Moésio, sarebbe meglio piuttosto armarsi di molta pazienza. Il movimento anarchico sta attraversando un momento avverso e allo stesso tempo favorevole che non ha ancora risolto alcune questioni che, in altre circostanze, non avrebbero richiesto più di due minuti di attenzione. D’altra parte, il Brasile è un paese che ha dimensioni continentali e non deve sembrare facile coordinare immediatamente persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza tra di loro. Credo che in paesi come il Brasile – e lo stesso vale per l’Argentina e per il Messico, per lo meno – bisognerebbe partire da raggruppamenti locali che prima o poi finiranno per incontrarsi; sempre e quando abbiano un motivo o la necessità di farlo. Attualmente è bello sapere che ci sono centinaia di militanti anarchici in queste realtà, in fondo alcuni anni fa non c’era nemmeno questo. Che questi militanti convergano sicuramente fa parte dei nostri desideri, e, soprattutto, parte di un lavoro ancora da intraprendere.

Il logo della Comunidad del Sur, la storica comunità anarchica uruguayana (www.ecocomunidad.org.uy)

Un altro evento positivo per l’anarchismo è stata la nascita di nuovi mezzi elettronici, come Internet, ad esempio. Secondo me, anche se con qualche riserva, gli anarchici si sono appropriati in maniera eccelsa di questo strumento, sotto vari aspetti. D’altra parte, anno dopo anno è sempre maggiore il numero di dossier di argomento anarchico, o antiautoritario, nel mondo. Sei d’accordo con me?

Sì, naturalmente. Ti racconto un aneddoto che oggi mi fa sorridere. Alcuni anni fa – non troppi, dato che mi sono dedicato molto tardi all’uso degli strumenti informatici –, la primissima volta che usai un motore di ricerca inserii con ansia e un certo timore la parola “anarchismo” e trovai che c’erano all’incirca duecento riferimenti da poter consultare. Rimasi due notti sveglio per l’emozione! Due giorni fa per curiosità ripetei l’esperimento e ora il risultato è di 186.000 riferimenti mentre, per stabilire un confronto ragionevole, il termine “leninismo” arriva solamente a 67.200. E ormai questo non mi suscita nessun tipo di commozione! Ossia, il cambiamento è stato prodigioso e l’“invasione” anarchica in Internet ha raggiunto livelli impressionanti.
Anche se, sicuramente, credo che ci sono per lo meno due cose da risolvere a questo livello: in primo luogo, ispessire concettualmente e praticamente le nostre comunicazioni, che a volte corrono il rischio di cadere in banalizzazioni; e, in secondo termine, non confondere la nostra presenza nella realtà virtuale con la nostra presenza nel mondo delle relazioni “materiali” che sono quelle che si devono perseguire perché hanno un’importanza maggiore su tutte le altre cose.
Ma attorno a tutto questo c’è un concetto di trascendenza ancora più grande. Internet mette nelle nostre mani il modello d’organizzazione più adeguato alla nostra epoca: il modello della rete. Teoricamente, la rete può venire instaurata su diversi regimi di comunicazione – può funzionare con i segnali di fumo e con il tamtam dei tamburi, per fare due esempi – ma nessuno di questi permette di raggiungere tali livelli di velocità, volume e portata insieme al perdurare della stessa scrittura.
Questo, e solo a mo’ di preambolo, conduce alla loro minima espressione due classici problemi delle organizzazioni anarchiche: quello di chi dovrà occuparsi delle relazioni e quello di chi avrà sotto la propria responsabilità i compiti di “stampa e propaganda”. Che senso ha discutere di simili argomenti in un regime di comunicazione aperto e pluridimensionale in cui tempo e spazio si dilatano e si contraggono secondo l’occasione? La linearità sequenziale e la territorialità fanno parte della logica di funzionamento del potere e mettere loro fine oggi è immediatamente possibile; almeno, in un senso limitato.

186 mila? Se mettiamo la parola “anarchismo” in altre lingue, possiamo arrivare molto più in là. (risa) Sto seguendo il cammino anarchico nel mondo cibernetico e ho notato che all’inizio la gran parte delle informazioni anarchiche trovate su questo mezzo erano solo sciocchezze, un orrore, ma oggi è completamente diverso. Oggi possiamo addirittura sentire la gran Radio Libertaire francese! (risa)

Sì, certamente bisognerebbe aggiungere le voci in inglese, in francese, in italiano, ecc… e ne avremmo moltissime di più. Ma ci deve importare più la qualità della quantità e sono d’accordo con te che c’è anche un superamento in questo senso; quello che corre parallelo ad alcuni elementi di ordine tecnico, come la possibilità di utilizzare servers di maggiore capacità, ma dipende soprattutto dall’arricchimento della discussione e dall’elaborazione del movimento avvenute negli ultimi anni.
In ogni modo, oggi abbiamo alcune pagine emblematiche dal punto di vista della circolazione di informazioni come A-infos (www.ainfos.ca) in Canada o forum di discussione come A las barricadas (www.alasbarricadas.org) in Spagna. Alcune altre pagine stanno portando avanti un interessante compito di promozione organizzativa e di interconnessione tra regioni dove il movimento è ancora incipiente in termini storici come Alternative Network for Eastern Europe (http://www.alter.most.org.pl/fa/) e Gaizao – Radical Voice of East Asia (http://gaizao.org/anarchist.php). E anche in America Latina può essere annoverata una crescita del fenomeno, con esperienze promettenti – almeno per quanto ne so io – in Messico, in Brasile, in Venezuela e in Cile. In ogni modo, prima di compiacerci nella soddisfazione, penso che sia importante sognare le molte altre cose che ci rimangono da fare; in questo campo come in moltissimi altri.

Come consideri alcuni testi scritti da marxisti, o ex marxisti come Manuel Castells, Michael Albert, un messicano di cui ora non ricordo il nome, che mettono in risalto l’anarchismo attuale, la sua validità? La cosa curiosa è che alcuni di loro gravitano attorno, frequentano il FSM (Forum Sociale Mondiale). O come tu dici le nostre file sono aperte e demilitarizzate? (risa)

Molti anni fa Cornelius Castoriadis sosteneva che, dopo essersi formato nelle file del marxismo rivoluzionario, in un certo momento dovette pianificare l’abbandono del marxismo per poter continuare a considerarsi un rivoluzionario. Oggi buona parte dell’intellettualità marxista – tanto in Europa quanto in America Latina – si è incamminata con armi e bagagli verso le file della socialdemocrazia quando non verso le botteghe del neoliberismo. Altri persistono nella celebrazione rituale del dogma come se non fosse successo nulla e continuano ad osservare il mondo dalla coperta della corazzata Potemkin.
Ma i più lucidi e autocritici non hanno altre alternative – se vogliono continuare ad essere rivoluzionari – che percorrere una strada simile a quella che percorse primo fra tutti Castoriadis e avvicinarsi almeno a posizioni libertarie. Tutto ciò è coerente con quanto abbiamo detto fino ad ora e forma parte di questo nuovo risveglio anarchico.
Ma, allo stesso modo, le condizioni del lavoro intellettuale “puro” sottintendono quasi sempre una buona quantità di contraddizioni con il modus operandi anarchico. L’intellettuale riconosciuto come tale è generalmente un professore universitario, uno scrittore “di successo” o un artista, ed è abituato a muoversi in spazi che gli garantiscono la sua centralità perfino a livello architettonico; sulla sua figura devono convergere tutti gli sguardi e tutti gli ascolti.
Pensa, ad esempio, ad un anfiteatro secondo il classico modello semicircolare greco e anche a un auditorium o a una sala da teatro. Per questo motivo il Forum Sociale Mondiale è una tentazione troppo forte per questo tipo di persone: è Eva che offre ad Adamo la mela dell’albero della conoscenza!
Per concludere: effettivamente credo che sia un problema, ma non lo ritengo uno dei più urgenti ed importanti. Mi si permetta, però, di citare e ricordare ora un intellettuale di enorme rilievo che seppe andare contro queste “cattive abitudini” e che era capace di spostarsi di centinaia e migliaia di chilometri solo per bere del vino con i suoi amici e imparare le cose più importanti dalla gente più semplice: René Lourau.

René Lourau?

René Lourau era un sociologo francese, professore presso l’Università di Parigi, morto prematuramente nel 2000. Mi piacerebbe ricordare che nel maggio del ‘68 René era il giovane assistente di Henri Lefebre e che sviluppò velocemente una produzione intellettuale propria, diventando uno dei pilastri dell’analisi istituzionale; una corrente che annovera esponenti in Brasile, in Argentina e in Uruguay. René ovviamente visitò questi paesi e vi coltivò molte amicizie.
Ma mi è venuto immediatamente in mente il suo esempio perché mi sono ricordato dell’occasione in cui René tenne una conferenza in un locale della CNT spagnola un quarto di secolo fa e invitò i presenti a domandarsi se la stessa disposizione della sala non era anche, inconsciamente, una concezione del sapere che implicava una distribuzione asimmetrica della capacità di parlare e di essere ascoltato.
Ma fortunatamente non è l’unico esempio di questo tipo a cui possiamo fare ricorso, ne abbiamo a disposizione molti altri. Pensa, per porre un altro caso, a George Brassens che cantava queste strofe: Je vivais a l’écart de la place pubblique, serein, contemplatif, ténebreux, bucolique; un Brassens che visse sulla propria pelle le conseguenze del successo artistico convenzionale senza per questo smettere di essere un militante della segreteria culturale della Federazione Anarchica Francese.

La celebre frase di Elisée Reclus su uno striscione a Santiago del Cile

Nel ’36, in Spagna, c’era un anarchico, di cui non ricordo il nome, che disse che gli anarchici erano numericamente molto pochi, allora per questo motivo ogni anarchico doveva moltiplicarsi, valere per due, per tre… (risa). Che ne pensi?

Beh, non ho presente la citazione e preferisco approfittare della domanda per riflettere per un momento sul carattere della militanza libertaria. Malatesta diceva che non metteva la sua condizione umana a servizio dell’anarchia ma che era un anarchico perché questo era a servizio della sua condizione umana. Penso perciò che un militante anarchico non ha motivo di moltiplicarsi ma deve essere sé stesso in ogni istante del giorno.
Questa è già di per sé una sfida enorme senza bisogno di aggiungerci nulla: cercare di essere coerenti nel nostro lavoro, nel nostro studio, nel nostro quartiere; con i nostri vicini, i nostri figli, i nostri amori. Ricordando inoltre che in qualsiasi altra attività che intraprendiamo dovremmo esserne sempre interamente responsabili, senza accettare “specializzazioni” sterilizzanti e ancora meno scissioni tra i “quadri” che decidono e quelli che semplicemente eseguono. Per concludere il discorso: io non parlerei pertanto di moltiplicazione, ma della permanente e interminabile costruzione etica di noi stessi; cosa che già presa isolatamente mi sembra sufficiente.
Ora ricordo, lo disse Federica Montseny. Il suo ragionamento è che eravamo pochi rispetto ai nostri avversari, e quindi avremmo dovuto compiere il lavoro di due anarchici, moltiplicarci, duplicarci… in fondo credo che avesse ragione, e questo potrebbe venire applicato anche al giorno d’oggi. Infine…
Sì, credo che in fondo, sul piano sentimentale, stiamo dicendo la stessa cosa. Forse l’unica discrepanza è che preferisco – anche per ragioni estetiche – essere me stesso, unico ed indivisibile, prima di moltiplicarmi per due, per tre o quattro. Forse è meglio provare a dirlo con un’allegoria. Euclide definiva la retta come una successione infinita di punti in una stessa direzione mentre Eraclito – la Grecia aveva già fin da molto presto le sue geometrie alternative – lo faceva dicendo che la retta non era altro che la scia lasciata da un punto nella sua traiettoria.
Ammettendo che ognuno di noi è quel punto di Eraclito, trasformeremo ora le rette in curve, segmenti di curva, semi-curve o curve a punti e vedremo che questo è un modo in più di mettere in pratica quello che anticamente si chiamava “propaganda del fatto”; un qualcosa che, se ben osservato, non dà cattivi risultati e ci permette di avanzare nel cammino dell’auto-costruzione etica.

Manifestazione di lavoratori della Zanon, fabbrica argentina di ceramica interessata da un processo di autogestione

Attività libertaria

Anche tu sei convinto che questo risveglio dell’anarchismo in America Latina sia iniziato con Seattle, o altri fattori, come il “cacerolazo” in Argentina, hanno avuto anch’essi il loro peso?

Parlare della mobilitazione di Seattle o del sollevamento argentino del dicembre 2001 vuol dire riferirsi ad avvenimenti chiave ed emblematici; che, in più, sono facilmente identificabili per quasi ogni osservatore. Indubbiamente questi momenti non sono tutto ma bisogna interpretarli come formidabili condensazioni di tendenze che operano nel sottosuolo della politica; tendenze di cui bisogna seguire le tracce e decifrarle fin da prima degli stessi avvenimenti.
La caduta del Muro di Berlino non diede luogo alla sconfitta del “socialismo reale”, né le mobilitazioni di Seattle sono la spiegazione ultima della sconfitta del Consenso di Washington, ma entrambe risultano essere le conseguenze non migliorabili di tali eventi, e, nell’ultimo caso, anche il momento di presentazione “ufficiale” nella società di un movimento di proporzioni planetarie; un movimento che, insisto, 20 anni prima avrebbe avuto caratteristiche diverse, quando una densa trama di organizzazioni internazionali egemonizzate dai Partiti Comunisti pro-sovietici lo avrebbe indirizzato in un modo totalmente diverso.
Il sollevamento argentino, nel frattempo, è anche una conseguenza – sicuramente insostituibile nella sua forza e nella sua capacità di irradiazione, – di tendenze che vi ci sfociano all’interno e che sono molto lontane dall’essere scomparse o essere state risolte.
Nello stesso modo, io non credo che il risveglio anarchico latinoamericano si spieghi esclusivamente con gli avvenimenti di Seattle o successivamente con quelli dell’Argentina, ma che risponde, in ultima istanza, a navigazioni sottomarine e di minore visibilità. Ma non c’è alcun dubbio che è stato assolutamente possibile interpretare entrambi gli avvenimenti con una lettura libertaria, e, in questo modo, ne sono state straordinariamente rafforzate le tendenze sottostanti.
Io non ho affatto condotto un minuzioso ed analitico approfondimento in questo argomento e non posso essere esatto nel dato, ma mi sembra evidente che una buona parte dei gruppi anarchici latinoamericani dei nostri giorni si sia formati in seguito alle mobilitazioni di Seattle.
E in Argentina, dove l’influenza anarchica diretta fu molto scarsa nel dicembre del 2001, si sono formati gruppi a Bariloche, a Paraná, a Mendoza, a Neuquén, ecc; luoghi in cui non c’era attività libertaria organizzata. Perché è successo tutto questo? Perché il discorso e la pratica di impronta anarchica offrono spiegazioni e risposte a eventi tali come la crisi della rappresentazione politico-partitica, le esperienze di autogestione, le assemblee popolari, ecc. E lo stesso avvenne in Bolivia dopo l’ottobre del 2003 fino al punto in cui la pubblicazione alternativa di maggior diffusione nella ribelle città di El Alto fu per un certo periodo un modesto giornale anarchico. Questo è il campo di opportunità di cui parlavo e da noi dipende niente meno che saper approfittarne o meno.

Che corrente dell’anarchismo consideri oggi maggiormente sensata? Io vedo soprattutto un enorme spazio per far crescere l’“anarchismo verde”, come in effetti sta avvenendo. (risa)

È naturale che l’incorporazione di considerazioni ecologiche al nucleo del pensiero libertario è oggi un imperativo importante. Ma indubbiamente credo anche che questo dovrebbe essere delimitato a livello teorico. Per me l’ecologia radicale è quella sociale di Murray Bookchin, o di Taxis Fotopoulos, o di Joan Martínez Alier, ad esempio, ma sicuramente non la deep ecology che si porta avanti nei paesi anglosassoni e che ci introduce in un farraginoso e incontrollabile terreno di imprecisioni teorico-ideologiche. Secondo la prima corrente acquisiamo, tra le altre cose, la possibilità intellettuale di esercitare una critica di fondo del produttivismo alla cieca mentre la seconda ci porta a un fraterno incontro con una Brigitte Bardot di ultra destra e al presupposto profondamente sbagliato secondo cui le balene azzurre sono importanti quanto il Movimento dei Senza Terra.
Fatte queste precisazioni, ti direi che preferisco definire l’argomento da un punto di vista diverso.
Se spieghiamo di fronte a noi la cartina geografica dell’attuale movimento anarchico, potremmo notare piacevolmente che i gruppi organizzati su una qualsiasi particolare tematica – medio ambiente, genere, contro-cultura, anti-militarismo, carceri, ecc… – hanno un peso e una gravitazione molto maggiori rispetto ad altri periodi storici.
A loro volta, questi gruppi sono reciprocamente indipendenti fra loro e non sembrano più essere, come nei tempi passati, “commissioni di lavoro” di organizzazioni anarcosindacaliste o federazioni specifiche, ma pretendono di essere di per sé “completi”.
Allora, osservata la situazione dal punto di vista di quel necessario rinnovamento di cui parlavo bisogna concludere che i risultati sono ambigui: da un lato questi gruppi sono veicoli reali di rinnovamento e di attualizzazione ma mettono anche un limite ai loro traguardi. La rinnovazione teorico-ideologica e politico-pratica che io intendo come imprescindibile deve realizzarsi su un livello maggiore di astrazione e per questo dovremmo essere capaci di abbracciare qualsiasi particolarismo senza lasciarci colonizzare da nessuno.
Questo rinnovamento deve essere un discorso-pratica appoggiato su due contenuti che di per sé non hanno nessuna novità: la ri-creazione di una critica del potere e la ri-creazione di un’etica della libertà capaci di sovvertire realmente la rete sociale di cui fanno parte. I particolarismi, nel frattempo, possono e devono essere ingredienti imprescindibili del rinnovamento ma nessuno di loro può contare – né l’anarchismo “verde” né nessun altro – sulla virtualità di risolverlo completamente.

Brigitte Bardot? No! (ride) Il problema è che l’“anarchismo verde” è poco diffuso, ma vi ci puoi trovare correnti di tipo primitivo, anti-civilizzazione, indigeno, vegano, fino all’ecologia sociale. Sinceramente non conosco nessuna di queste correnti che ho appena citato di fondo anarchico che abbia una certa relazione con Brigitte Bardot o con l’estrema destra, o con le ONG; anzi, assolutamente al contrario. Per la verità, la gran parte di queste correnti sono influenzate dalla pratica e dal pensiero selvaggio, dai popoli originari. Ma sono d’accordo quando parli dei particolarismi, non esistono davvero le lotte parcellari, perché le lotte si completano e si estendono, qualcuna di più altre di meno, no?

Sì, siamo d’accordo: nemmeno io conosco anarchici che abbiano condotto qualche lotta in coordinazione con Brigitte Bardot; ma, proprio per questo, perchè i loro anticorpi ideologici risiedono nell’anarchismo e non nella deep ecology. Ho voluto semplicemente riferirmi ad una certa logica di ragionamento e forse sarebbe meglio chiarire in quali termini. Penso che bisogna distinguere una teoria incentrata sulle relazioni con la natura e che finisce, senza dubbio, adottando inflessioni libertarie da un’altra in cui una ri-definizione delle relazioni con la natura si pone come conseguenza di una critica radicale del potere nella società.
Queste differenze di costruzione ideologica danno luogo, non sempre ma in alcuni casi, a diversi ordini di priorità. E possono dar luogo anche a pratiche diverse. È per questo che credo che la formazione ideologica debba porsi sul livello dell’astrazione proprio nelle relazioni del potere nella società, tra le persone. Ma, in ogni modo, questa è una questione teorica altamente complessa che sicuramente non siamo in condizione di risolvere né qui né ora.
Inoltre mi piacerebbe fare un’ulteriore precisazione sul tema del particolarismo nella sua relazione con il rinnovamento teorico-ideologico e politico-pratico.
Come si deduce dalla sua stessa formulazione, questo rinnovamento ha due dimensioni che devono camminare insieme ma che devono anche essere differenziate ad effetti analitici.
In questo senso bisogna dire che esiste un “momento” teorico il cui livello di astrazione non può essere coperto da nessun particolarismo; ma c’è anche un “momento” pratico che può gettare le radici sono nel locale, nel luogo in cui si vive, nell’immediato, nella concreta esperienza di lotta di ogni collettivo libertario. Pensando contrariamente, cadremmo in quell’assurdità tanto frequente nelle file trotskiste per cui ognuno dei suoi militanti crede di formare parte del Partito Mondiale della Rivoluzione ma nessuno sa dove questo Partito si trovi in concreto. Pertanto, uno dei lavori di creazione che abbiamo davanti a noi è quello di fondere concretamente entrambi i livelli.

E la corrente che si sta “esaurendo” con la velocità del tempo?

Fino ad ora non c’è niente che dimostri che qualcuna delle molte correnti libertarie si esaurisca completamente. Osserviamo la mappa di questo risveglio anarchico nel mondo e in America Latina e vedremo che anche le correnti più tradizionali – anarcosindacalismo e “piattaformismo” – negli ultimi tempi sono cresciute. Vediamolo con la seguente immagine: l’estensione dei suoi servizi e dei “circoli di qualità” non finì con le fabbriche né tanto meno la rivoluzione industriale fece sparire completamente a suo tempo il lavoro rurale ma tutto questo, con il passare del tempo, assume storicamente un nuovo significato.
La stessa cosa avviene con le correnti anarchiche tradizionali: sono poste in un contesto diverso da quello per cui vennero pensate originariamente, perdono una parte importante della loro pertinenza, sono prive della mistica esclusivista che qualche volta pretesero di avere, ecc.; ma non scompaiono, né tanto meno devono farlo, almeno per il momento. Perdono piuttosto la loro condizione di paradigma libertario esclusivo: ossia, non possono concepirsi come modelli sicuri ed efficaci o come il desideratum ideologico indiscutibile ma si rafforzano accettando un contesto che le supera ampiamente.
Ma questo si costituisce, inoltre, come una delle chiavi del suo rinnovamento: la sua chiave organizzativa. Bisognerà ricorrere ancora una volta alla prospettiva storica per valutarlo.
Tanto l’anarcosindacalismo quanto le specifiche federazioni – siano esse di radice malatestiana o piattaformiste – sono il risultato delle loro rispettive esperienze storiche e non modelli a priori che sarebbe stato possibile trovare fin dall’inizio dei tempi. Finirono però per trasformarsi in modelli di organizzazione ed azione che offrirono, ognuno nella sua circostanza di tempo e luogo, una certa cornice di certezze.
Il problema è che ormai non possono più svolgere lo stesso ruolo, proprio perché la nostra circostanza storica è diversa. Il nostro passato deve essere assunto come lezione e non come tradizione inviolabile e per questo ci conviene più deformare che ripetere. Io credo allora che una delle sfide del rinnovamento consiste nel produrre – non in una sala di lettura ma nel seno delle lotte sociali del nostro tempo – il modello di organizzazione e azione più adeguato alle nostre proprie circostanze.
L’anarcosindacalismo classico e il piattaformismo non possono più sperare di essere il modello stesso ma hanno cose importanti da dire in questo complicato processo di costruzione.

Trama più complessa

È divertente, molti dicono che l’anarcosindacalismo è sorpassato, ma se prendiamo la CNT spagnola, o la USI italiana, notiamo che negli ultimi tempi stanno crescendo. Sono sempre più coinvolte nei conflitti sociali, lavorativi… E che lo vogliano o no, le organizzazioni anarchiche più grandi sono anarcosindacaliste.

Sì, questo è assolutamente vero; sicuramente la maggiore organizzazione di matrice o di intenzione libertaria attuale è la CGT spagnola, con all’incirca 100.000 iscritti. Ma è proprio lì dove devono essere analizzati i limiti del paradigma classico e le ragioni per cui non si può più aspirare ad essere un modello esclusivo di organizzazione ed azione.
Questo l’ha già individuato chiaramente un gruppo della CGT e fu per questo che diedero vita alla Rete Libertaria del Mutuo Appoggio, per disporre di uno spazio di elaborazione e riflessione che si mantenesse relativamente immune dai condizionamenti in cui si muove il sindacalismo attuale e, suppongo, essendo coscienti che questi stessi condizionamenti mettevano sotto giudizio alcune delle tradizioni più radicate; come, ad esempio, la concorrenza alle elezioni nei comitati di impresa sotto la supervisione statale e la non accettazione di funzionari stipendiati.
Ma, a sua volta, tali cose fanno parte di una trama più complessa a cui intervengono anche le forme di contrattazione proprie degli Stati benefattori, i decenni del sindacalismo limitato e negoziatore, i cambiamenti nella composizione e nel profilo della classe lavoratrice, o, forse in misura maggiore, l’alta disoccupazione strutturale generata dai cambiamenti tecnologici. E, quello che a noi più interessa sottolineare, è la perdita di centralità culturale del lavoro.
Io insisto che questo non conduce alla sparizione dell’anarcosindacalismo ed è evidente. Ma ritengo anche che questo non può più essere considerato l’unico modello da seguire in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza concepibile. In ogni caso, la situazione ci invita ad analizzare caso per caso: ci saranno circostanze e luoghi in cui l’anarcosindacalismo continuerà ad essere una pratica opportuna e troverà condizioni favorevoli al suo sviluppo e ci saranno altre circostanze e altri luoghi dove la cosa più raccomandabile sarà cercare modi di azione diversi. Credo che, in questo terreno, la cosa più importante sia non attenersi ad una regola fissa e immutabile, mentre invece sarebbe opportuno provare le forme di organizzazione e di azione più adeguate ad ogni tipo di situazione. E penso che questo è quanto stanno facendo in questi ultimi anni i diversi movimenti anarchici “nazionali” in lungo e in largo di tutto il pianeta.

Sulla CGT esistono delle controversie, ma lasciamo questo dibattito ad altri. (ride) Oggi, quale esperienza nell’universo anarchico, o libertario, sottolineeresti? La Federazione Municipale di Base, a Spezzano Albanese, in Italia, è un buon esempio di idee e di pratiche? Faresti qualche particolare esempio in America Latina?

Sì, sono d’accordo con te. Il riferimento alla CGT è stato fatto solo per esemplificare i condizionamenti sociali e storici dell’anarcosindacalismo ma passando attraverso la stessa polemica; una polemica che – spero – dovrebbe trascendersi per il corso degli avvenimenti e per le prossime esperienze di lotta. Con lo stesso spirito ti direi che preferisco non sottolineare nessuna esperienza in particolare in America Latina. Sicuramente le singole esperienze sono un apporto e alcune lo saranno state più di altre, ma sono convinto che la cosa realmente importante oggi sia lo sviluppo del movimento nel suo insieme.
A volte abbiamo la tendenza a sopravvalutare l’importanza delle esperienze che si sviluppano con un certo successo ma tutta la storia ci sta dicendo che sono passeggere o sono o diventeranno limitate se non si incorporeranno a una corrente più vasta che le faccia esprimere su un piano più grande. I nostri maggiori obiettivi costruttivi ottenuti continuano ad essere la “makhnovcina” e le collettività libertarie in Catalogna e in Aragona; e non dobbiamo dimenticarci che contro la prima si schierò la Russia, contro la seconda la Spagna. Sarà sempre sicuramente preferibile che ci siano frammenti di libertà piuttosto che non ce ne siano; ma è migliore un “mondo” di libertà.

Noam Chomsky è considerato come uno dei principali intellettuali del mondo, e 13 anni fa quando gli chiesero quale fosse la responsabilità degli intellettuali rispose: “dire la verità e rendere pubbliche le menzogne”. Nel 2004 andò per la prima volta a Cuba, per tenere una conferenza, e in quell’occasione incontrò il dittatore Fidel Castro. In quel periodo alcune decine di cubani dissidenti erano stati incarcerati, altri erano invece stati sommariamente assassinati. Secondo quanto riporta la grande stampa la sua conferenza si è mossa solamente attorno alle critiche e agli attacchi agli Stati Uniti, e non è stata detta nessuna parola sul regime dittatoriale cubano.
D’altra parte è normale trovare dichiarazioni di Chomsky che elogiano il PT (il Partito dei Lavoratori, oggi al potere) brasiliano, tra le altre idee che ha, a mio parere, sbagliate. Una volta parlai con un anarchico degli Stati Uniti, e mi disse che Chomsky era molto contraddittorio, che appariva solo sui media per fare dichiarazioni sulla politica americana, internazionale… ma che non aveva mai visto questo signore in un’assemblea anarchica, ossia, nel calore di una manifestazione. Sarà poi questo allora il profilo dell’intellettuale di cui ha bisogno l’anarchismo?

Chomsky è compreso nelle leggi generali che abbiamo nominato prima a proposito degli intellettuali; ma, nel suo caso, forse vale la pena realizzare alcune specificazioni. Cominciamo a dare una cornice al suo lavoro intellettuale. Chomsky è un linguista di vastissima reputazione e ha anche realizzato una straordinaria e documentatissima successione di denunce sulle politiche di governo degli Stati Uniti; e tutto ciò è di grandissimo merito. Ma – oltre alla sua concezione secondo cui il linguaggio è una pratica sociale di libertà; argomento che sfortunatamente non ha poi sviluppato – Chomsky non è stato un pensatore libertario originale; e, almeno per quanto io sappia, non sembra nemmeno che mantenga nessi stabili con il movimento anarchico nordamericano. Penso che la base della sua attuazione è la convinzione che nel mondo esiste un solo, unico ed esclusivo mostro: le agenzie governative degli Stati Uniti; che mostruose lo sono veramente. Questo è il suo spazio di coerenza e, stando in questi termini, i suoi interventi politici sono regolati normalmente da questo principio tipicamente leninista dell’addensamento di forze di fronte al principale nemico comune; qualcosa di simile a quanto, in un momento dato, venne chiamato nelle file libertarie “dottrina del male minore”. Per questo, le posizioni di Chomsky distrattamente simpatiche verso i movimenti nazionalisti in America Latina, Africa ed Asia sono abbastanza sfortunate se le si pensa dal punto di vista delle politiche che possano sviluppare i nuclei libertari di ognuno di questi posti; qualcosa che non sembra interessare troppo a Chomsky o gli interessa meno di vincolarsi a qualsiasi cosa appaia come vagamente anti-imperialista. D’altra parte, io scarterei l’ingenuità come ipotesi ed è troppo probabile che il Chomsky più anarchico si sappia utilizzato – dal governo cubano o dal Social Forum Mondiale, ad esempio –, lo accetti come parte di uno scambio di servizi ed abbia scelto di convivere con un certo margine di ambiguità e di imprecisione.
In ogni modo, per rispondere alla tua concreta domanda, io ti direi che non è di questo tipo di intellettuali di cui ha bisogno il nostro movimento. Per dirlo in termini simili a quelli già usati quando affrontammo il tema delle relazioni tra anarchismo ed ecologia, io credo che siano preferibili gli anarchici intellettuali agli intellettuali anarchici perché le attitudini si definiscono realmente a partire da come si concepisce e da dove ognuno costruisce sé stesso.
Ma questo non è niente di più di un gioco di parole perché in realtà non si potrebbe parlare di anarchici intellettuali e non bisognerebbe nemmeno fomentare la centralità spettacolare di compagni il cui ruolo esclusivo consiste nel pontificare dai vari pulpiti del sapere. Questo non implica la promozione dell’anti-intellettualismo – che io ritengo pericoloso – ma porre innanzi, davanti agli intellettuali di “professione”, il lavoro di riflessione e di elaborazione a fondo dall’interno dei movimenti e delle loro lotte; che fu esattamente il percorso di Bakunin. Gli intellettuali di “professione”, nel frattempo, continueranno ad esistere e sarà meglio poter disporre criticamente della loro informazione sistematizzata, dei loro metodi e dei loro strumenti e che il movimento sappia servirsi degli stessi secondo i suoi stessi obiettivi e i suoi stessi fini.

Mi piacerebbe che tu parlassi del seguente pensiero di un indios Yaqui: “Un uomo saggio vive agendo e non pensando a come dovrebbe agire e inoltre pensando meno a quello che penserà quando l’azione sarà terminata. Un uomo saggio sceglie il cammino che ha nel cuore e lo segue”.

(Silenzio sepolcrale e poi risa). Sei “crudele” con me Moésio, ma cercherò lo stesso di risponderti. La prima cosa che mi viene in mente è che questa frase può essere compresa solamente all’interno del rispettivo universo culturale e io sono solo nelle condizioni di tradurla con i miei codici personali; cosa che già di per sé implica una deformazione del suo senso originario e profondo. C’è un detto italiano che lo esprime meravigliosamente bene: “Traduttore, traditore!” Ti dirò però che un po’ mi sorprende la logica binaria che lì si realizza e la scissione tassante tra il pensare e l’agire; cosa che, curiosamente, è propria della razionalità che ci è stata fatta adottare. Fatte queste eccezioni, penso che posso darti due risposte divergenti.
Da un lato, in una linea di continuità con la logica che ho seguito in questa intervista, ti direi che non è possibile agire senza essersi rappresentati mentalmente, anche se in forma approssimativa ed imperfetta, l’azione e gli obiettivi verso i quali ci si orienta. E anche se l’azione adotta la forma di un “riflesso”, questo “riflesso” è stato pensato e stabilito come risposta ad un passato impreciso; di modo che il pensiero propriamente detto sembri limitato a stabilire improvvisamente una relazione di identità con situazioni simili già vissute. Inoltre, quanto più complessa è la situazione e maggiore l’esperienza accumulata, tanto più grande e più complessa sarà la carica di pensiero impiegata in ogni nuovo diagramma d’azione.
Ma, in definitiva, è molto difficile stabilire una netta linea divisoria e il fatto che noi ci pianifichiamo il tema in questi termini risponde a questa logica binaria di cui ti parlavo. Probabilmente il nostro stesso e delimitato discorso prima o poi si estenderà e potremmo dire che stiamo “pensando-agendo” o “agendo-pensando”; qualcosa che oggi va oltre alle nostre condizioni di possibilità. Nel frattempo, ci dobbiamo accontentare di sapere che il solo fatto di immaginare una società contro il potere rappresenta la vetta conosciuta delle nostre capacità di distruzione e creazione.
Ma è anche possibile articolare una risposta diversa, più vicina alla nostra sensibilità spontanea. Pensa, ad esempio, alla seguente frase di Rafael Barrett, una delle mie fonti più costante di ispirazione etica: “Siamo in cammino, non sappiamo verso che luogo, ma non possiamo fermarci”. Ed è realmente così. Esistono queste basi di pensiero secondo cui stabiliamo un quadro di relazioni tra i mezzi e i fini come razionalizzazione della pratica; ma c’è anche qualcos’altro. Noi anarchici sappiamo approssimativamente cosa vogliamo e, facendo tentativi, quali sono le strade che ci porterebbero verso questa direzione. Però non abbiamo nessuna certezza riguardo a un ipotetico “traguardo finale”; sempre nel caso in cui questo finale esista.
E questo ci dovrebbe paralizzare? Evidentemente no! Perché? Perché la stessa pratica libertaria è di per sé un obiettivo e il solo fatto di avere una strada propria costituisce sia una meta che una vittoria. Ossia: penso che l’anarchismo e le sue pratiche rispondono a una loro propria logica e alla loro propria razionalità ma il principale fondamento libertario non è niente di più di un’intuizione e di un desiderio, un assioma e un punto di partenza. Detto in un altro modo: l’anarchismo è anche enigma, sorpresa, caso, passione, mistero, slancio e poesia. E forse, in un mondo sorretto dal calcolo contabile come il padre putativo di ogni sapere, sia questa l’ultima spiegazione del perché continuiamo ad essere anarchici e siamo giorno dopo giorno sempre meno soli.

Pensare localmente

La gente interessata come può fare per ricevere i tuoi opuscoli? Quali sono i titoli che sono usciti fino ad oggi?

Mi crei in un problema, Moésio, perché sono “obbligato” a essere coerente con quanto ho appena detto. (Risa). Io non credo di avere un’opera nel senso convenzionale del termine e mantengo solo l’abitudine di ordinare per iscritto le mie idee; idee che non ho mai considerato concluse né degne di una speciale considerazione. Sicuramente mi interessa che come idee siano tenute in considerazione piuttosto che ignorate. Ma la mia più grande aspirazione è che queste idee si incorporino al movimento stesso e siano soprattutto momenti di una riflessione collettiva. Inoltre credo di non aver ancora affrontato i problemi di maggiore profondità teorica, cosa che mi preoccupa e considero come un debito verso i miei compagni e verso me stesso; un debito che, detto un po’ come scusa, non è solo mio ma del movimento nel suo insieme. Nel frattempo in tutti questi anni credo di aver solamente sviluppato una scrittura d’occasione che non sopravvive molto oltre alle circostanze che la videro nascere. Accettando queste caratteristiche, puoi ben capire che non ho mai fatto un elenco dei miei lavori; forse poco più di un centinaio di articoli pubblicati in diversi luoghi, con diversi nomi e adottando molte volte una firma collettiva.
Probabilmente la gran parte di questi scritti non ha molta utilità al giorno d’oggi e io stesso non saprei come fare per riunirmi con le loro espressioni tangibili. In ogni caso, e per non essere troppo antipatico nei tuoi confronti, posso dirti che qualcuno degli articoli più recenti si può ancora trovare nella pagina web di “El Libertario” del Venezuela www.nodo50.org/ellibertario.
Ma tutte queste disattenzioni da parte mia non dovrebbero essere assunte come un modello ma tutto il contrario. Credo che dovremmo dare priorità all’elaborazione teorica e dedicarci realmente a produrre idee nuove su questo terreno.
Personalmente la ritengo una necessità, ma fino ad oggi continuo ad essere un attivista – un po’ malmesso e senza l’agilità di un tempo – e non ho saputo dedicarle una dedizione totale. E questa carenza può diventare drammatica in America Latina dove credo che avanzino le dita di una sola mano per contare i lavori originali orientati in questa direzione; come, ad esempio, la Sociología de la dominación di Alfredo Errandonea (Uruguay) o la Bitácora de la utopía di Nelson Méndez e Alfredo Vallota (Venezuela).
Penso che dobbiamo elaborare un pensiero specifico sulla regione in cui ci muoviamo, penso che il rinnovamento teorico-ideologico è una priorità urgente e penso inoltre che questo momento di auge non possa durare all’infinito e che forse non abbiamo ancora molto altro tempo da perdere.

Quali sono, secondo te, i problemi teorici che si presentano oggi per l’anarchismo?

All’inizio, credo che sia meglio iniziare sfumando e non realizzando un esercizio di sterile masochismo. Da un lato, e ancora nonostante una generica situazione di carenza, il movimento anarchico ha avanzato verso il suo rinnovamento teorico e potrebbero citarsi alcuni esempi di cui ora non è possibile abbondare; e dall’altro, bisogna anche ricordare che la teoria in astratto non è tutto e che molti dei nostri problemi continuano ad essere affrontati e risolti con la pratica. Ma continuano ad esserci alcune lacune, gli sforzi di rinnovamento sono ancora isolati nella loro sfera intellettuale senza articolarsi organicamente con le zone di maggior temperatura antagonista e chissà possa risultare interessante definire un “programma” di lavoro in tal senso.
Cerchiamo di rivivere, ad esempio, l’atmosfera intellettuale in cui prende corpo il movimento anarchico originale. Lì troveremo l’influenza – diretta o indiretta, cosciente o incosciente, in proporzioni variabili secondo i casi – del kantismo, del positivismo comptiano, dell’evoluzionismo e della dialettica hegeliana: un’influenza che si esercita tanto sulle forme di produrre il pensiero teorico quanto sulle proprie rappresentazioni della società e del cambiamento sociale.
Questo è il substrato da cui pensarono Proudhon, Bakunin e Kropotkin, perché lì risiedevano le epistemologie proprie della loro epoca e lì rimanevano delimitati i confini e le possibilità stesse del pensare. In forma molto approssimativa si può dire che si tratta di un pensiero “centralista”, arborescente, gerarchico, binario, ecc…. mentre alcune tendenze del nostro tempo mirano, al contrario, all’adozione di un’alternativa “localista”, ramificata, caotica, complessa, ecc…. Infine, non credo che sia possibile approfondire queste cose in un’intervista e, come mia giustificazione personale, ti dirò che una buona selezione di testi sul tema è contenuta in Il pensiero eccentrico, libro realizzato in Italia, nel 1992, dal gruppo editoriale “Volontà”.
Ma le forme di pensiero condizionano fortemente gli oggetti del pensiero. Facciamo un esempio privilegiato e domandiamoci se oggi ci sembrerebbe soddisfacente poter fare affidamento su di una teoria dello Stato complessa e autosufficiente. La risposta che io mi do è negativa e che oggi dovremmo disporre, invece del precedente, di una teoria del potere che lo concepisse come un non-luogo e come qualcosa che non si esaurisce in posizioni istituzionalizzate di dominio o in certi simboli chiave. I parigini abbatterono la colonna Vendôme nel 1871 e 130 anni dopo gli abitanti di Buenos Aires hanno bruciato le poltrone del Congresso, ma niente di tutto ciò produce un’alterazione reale delle forme di circolazione del potere nella società. La rivoluzione non può più essere intesa come la presa del Palazzo d’Inverno, nella sua versione leninista, ma nemmeno come la sua distruzione o come la sua mitica sostituzione con un “potere popolare”.
Questi problemi sono di fondamentale importanza ma non sono gli unici. Siamo carenti anche di una visione più o meno completa del processo di “globalizzazione”, di un’attualizzazione ragionevole della vecchia lotta di classe, di una concettualizzazione in profondità dei nuovi movimenti sociali, di un modello di organizzazione e azione adeguato alla nostra epoca e ampiamente accettato, e di questo passo potremmo andare avanti all’infinito.
Ma, ti ripeto, non voglio lasciare di me un’immagine pessimista: penso che i problemi teorici sono reali e sarebbe stato preferibile averli risolti in minima parte o che il movimento in quanto tale adottasse un “programma” di lavoro in tal senso. Anche così, capisco che la stessa pratica ottiene i suoi traguardi, esplora e apre percorsi inediti. Ci muoviamo secondo una logica di sperimentazione e di prova capace di produrre e offrire i suoi propri risultati.
Probabilmente questo è sufficiente nell’attuale momento di ebollizione attraverso cui stiamo passando e, sul piano personale, mi sta bene il fatto che non mi stia bene ed aspettarmi qualcosa di più.

Ragionando per assurdo, se tu fossi uno scienziato, che Frankenstein anarchico creeresti? Quali sarebbero i personaggi anarchici di questo collage?

La domanda mi coglie di sorpresa e non mi ero mai posto le cose in questi termini ma accetto comunque la sfida.
Immaginiamoci, allora, che sia possibile combinare Bakunin, Malatesta e Buenaventura Durruti.
Il nostro Frankenstein anarchico avrebbe, pertanto, quella intuizione intransigente e selvaggia della libertà, quella dismisura distruttivo-creatrice, quella capacità di rompere tutti gli schemi istituzionali pre-concepiti e, simultaneamente, inventare mondi nuovi dietro a una barricata che ci avrebbe lasciato Bakunin. Malatesta, nel frattempo, aggiungerebbe al nostro Frankenstein una sistematizzazione “realista” e la sua insuperabile perseveranza nello stabilire dialoghi libertari con le persone più umili. E Durruti dovrebbe dotarlo di quell’attivismo nomade che aveva sempre l’intima particolarità di pensarsi non come un’impresa di isolato eroismo né come una spinta elitaria ma come parte di un movimento organizzato che fu sempre all’origine delle sue decisioni.
Ma, inoltre, il Frankenstein del nostro tempo è un ermafrodita a disposizione della tecnologia disponibile e dovremmo dotarlo di alcune necessarie qualità femminili di Louise Michel e di Luce Fabbri. Louise collaborerebbe con la sua capacità di proiettare il suo essere sovversivo oltre alle barriere culturali, di modo che se a Frankenstein toccasse come a lei il carcere nell’esilio della Nuova Caledonia potrebbe organizzare nuovamente una rivolta degli indios canacas. E Luce si incaricherebbe di dare a Frankenstein l’ingrediente della sua serenità, della sua apertura mentale, della sua tolleranza e della sua vocazione a tendere rispettosi ponti tra i libertari di ogni colore.
E, dato che stiamo lasciando volare liberamente la nostra immaginazione, perché non permettere a Frankenstein di ripercorrere le profondità filosofiche che percorsero Michel Foucault e Gilles Deleuze, anche se non furono anarchici nel senso stretto del termine? Perché non dotarlo della caratteristica vagabonda di Liber Forti e di Víctor García? Perché non permettere che incorra nell’assurdo e nell’ironia al vetriolo di Antonin Artaud, di Luis Buñuel e di Gorge Brassens? Perché non pensare che Frankenstein non invecchierà mai e avrà sempre l’età in cui fu assassinato Salvador Puig Antich? E perché non tante altre cose che ora mi sfuggono? In definitiva, Moésio, con tutte le loro ricchezze, le loro diversità, le loro contraddizioni e le loro incertezze da risolvere.

Stiamo concludendo questa conversazione, e sicuramente è mancata qualche domanda, ma c’è qualche domanda che non ti ho fatto a cui tu invece avresti voluto rispondere? (risa) Grazie di tutto, della pazienza, della generosità…

Manchi quello che manchi, Moésio, posso assicurarti che in questa conversazione ho potuto sfogarmi a lungo e su una grande quantità di argomenti. Inoltre sarebbe poco elegante da parte mia rimproverarti l’assenza di una domanda. In ogni modo, mi piacerebbe chiudere dilungandomi un momento su un’idea di cui non ho parlato molto e che, per caso, ho utilizzato nella mia prima risposta e nell’ultima: “tendere dei ponti”.
Abbiamo visto, anche approfonditamente, che il movimento anarchico sta attraversando un nuovo periodo di risveglio e abbiamo riscontrato i suoi punti di forza e di debolezza. Tra questi ultimi mi piacerebbe sottolinearne uno che ritengo essenziale ed è che il movimento si starebbe rassegnando a vivere in uno stato di irrimediabile centrifugazione.
Siamo privi, come è già stato detto, di un modello comune di organizzazione e di azione e questo ha dato luogo a una forte dispersione quando non a diverbi inspiegabili e fratricidi. Credo che questo obbedisca alla sovrapposizione delle correnti e concezioni che non sempre riconoscono la pertinenza delle altre e per l’occasione trasportano le differenze teorico-ideologiche e politico-pratiche, erroneamente, sul terreno delle questioni etiche. Questa situazione non dovrebbe prolungarsi un minuto di più e dovrebbe essere sostituita da un clima di rispetto, di riconoscimento e di reale discussione delle alternative esistenti.
Il momento è pieno di fermento ma porta con sé anche una buona carica di confusione. Sono ancora molti i cambiamenti che dobbiamo affrontare e non sembra immediatamente possibile che ci siano accordi che diano luogo a federazioni totalmente includenti di livello nazionale. Ma sono immediatamente possibili sia l’accettazione reciproca degli uni e degli altri sia l’ammissione che l’attuale diagramma del movimento è già di per sé l’annuncio di un qualcosa di nuovo.
Noi anarchici non possiamo essere ostaggio del nostro passato perché il nostro orientamento basico non può fare altro che dirigersi verso il futuro. E tendere ponti verso questo futuro richiede che tendiamo dei ponti prima di tutto tra di noi e che sviluppiamo la nostra coscienza e la nostra vocazione al movimento, qui ed ora, recuperando nel contesto e nella pratica delle reti l’imprescindibile esercizio della solidarietà.
Infine, Moésio, ti sono infinitamente grato per questa conversazione e attraverso te invio un fraterno ed enorme abbraccio libertario a tutti i compagni del Brasile.
Daniel Barret: agencakrat@hotmail.com.

Moésio Reboucas

(traduzione dal castigliano di Arianna Fiore)