Nella sostanza, le 
                    previsioni che si facevano sull’esito delle elezioni 
                    in Germania sono state rispettate. Anche se la Merkel ha perduto 
                    molto del suo elettorato potenziale e Schröder è 
                    riuscito a risalire parzialmente la china, limitando i danni, 
                    il Paese tocca con mano la difficoltà di ottenere un 
                    governo che, oltre la stabilità, garantisca la soluzione 
                    non contraddittoria dei suoi molteplici e sofferti problemi. 
                    
                    L’accordo per una coalizione CDU/CSU-SPD, dai contatti 
                    sinora avvenuti tra i due schieramenti, si dimostra più 
                    difficile di quanto non sperassero i fautori di questa formula. 
                    I nodi politici, a parte le rivendicazioni al diritto al cancellierato, 
                    sono di natura strutturale e lasciano spazi esigui alla trattativa. 
                    
                    In realtà vengono in conflitto due modi contrapposti 
                    di interpretare le emergenze e progettarne il governo. 
                    La Merkel ritiene che occorra accentuare il fattore privatistico 
                    dell’economia ed è, quindi, per un neoliberismo 
                    che lascerebbe briglia sciolta alle dinamiche del mercato, 
                    trasferendo sul lavoro gli oneri di una concorrenza spietata 
                    e indifferente ai danni che arrecherebbe al sistema di salvaguardie 
                    per i ceti più svantaggiati: il cancelliere uscente, 
                    pur convinto che alcune riforme occorrano (quella sul sistema 
                    pensionistico e su alcune voci dello stato sociale), non intende 
                    cedere su una certa progressività del sistema fiscale, 
                    sul sostegno ai giovani che si affacciano con poca fortuna 
                    al mondo della produzione ed a coloro che dal mondo del lavoro 
                    vengono prematuramente espulsi. 
                    È evidente che le opzioni della Merkel siano le più 
                    agevoli da perseguire: tutto il mondo occidentale è 
                    orientato verso un sistema liberistico che favorisca un’economia 
                    senza troppi “lacci e laccioli”, che finisca col 
                    premiare l’accumulazione, la speculazione e le grandi 
                    rendite parassitarie: uno sviluppo, insomma, poco sensibile 
                    alle esigenze delle fasce più deboli della società. 
                    
                    Prevale la legge dei numeri: nessuno mette ormai in discussione 
                    la fatale dinamica della produzione capitalistica, che reclama 
                    profitti (e profitti da perseguire con ogni mezzo), un costo 
                    del lavoro sempre più basso e la cancellazione di quelle 
                    tutele per i ceti più deboli che sono certamente costose 
                    e che si tende a scaricare sulla fiscalità generale. 
                    
                    Tutto ciò è normale e a me sembra francamente 
                    illusorio combattere battaglie settoriali, ignorando i dati 
                    di fondo del problema, che sono i modi e la qualità 
                    della produzione, le logiche della distribuzione dei beni 
                    e della redistribuzione delle risorse. 
                    Ci sono leggi del capitalismo che non si possono esorcizzare 
                    inventando correttivi che non correggono. In un’economia 
                    aperta o, se volete, globalizzata, non c’è spazio 
                    per i se o i ma: o si riesce a stare sul mercato o si perisce, 
                    e questo vale per il bottegaio dell’angolo come per 
                    l’economia di una nazione o addirittura di un continente. 
                  
                  
 
                  
                   
 
                    Leggi, ritenute ineludibili 
                  Sono queste le ragioni che hanno messo in difficoltà 
                    Schröder ed il governo rosso-verde da lui presieduto. 
                    Sono queste le leggi, ritenute ineludibili, che mettono alle 
                    corde tutta la sinistra occidentale moderata e riformista. 
                    
                    C’è una parte della Germania, quella dell’Est, 
                    che tarda a decollare e che grava al passivo sul bilancio 
                    del Paese, in un regime di risorse sempre più scarse. 
                    Certo, sono fondate le obiezioni mosse alla Merkel ed al suo 
                    impianto di governo della nuova legislatura, ove dovesse sciogliersi 
                    a suo vantaggio il nodo della governabilità: alla lunga, 
                    la filosofia di rendere sempre più ricchi i ricchi 
                    (e a questo tendono tutte le misure messe a punto dai suoi 
                    collaboratori), finisce per impoverire l’intero contesto. 
                    
                    Difficilmente, infatti, il moltiplicarsi del valore dell’accumulazione 
                    indurrebbe gli investitori a scommettere su un paese che arranca: 
                    molto più semplice correre meno rischi e scommettere 
                    dove i soldi si possono moltiplicare più in fretta. 
                    
                    Le enormi quantità di denaro che confluiscono in quell’area 
                    definita di “capitali vaganti o speculativi”, 
                    che tanti danni hanno provocato alle economie nazionali nel 
                    Sud-Est asiatico, in America latina e non solo, sono in massima 
                    parte originarie di economie nazionali in difficoltà. 
                    
                    Giuste, quindi le obiezioni dei socialdemocratici tedeschi 
                    alla Merkel, ma, allo stato, non emergono misure correttive 
                    praticabili. Il fatto è che, non solo in Germania, 
                    ma in tutta l’economia occidentale la coperta si è 
                    fatta sempre più corta. Il dato più significativo 
                    in questo senso è che, a parte poche aree che ancora 
                    resistono (il Regno Unito, l’Irlanda e i Paesi del Nord 
                    d’Europa), a soffrire non sono più soltanto quelli 
                    che una volta si definivano i proletari, ma i ceti medi, cioè 
                    la spina dorsale di ogni comunità nazionale. 
                    La Germania è il paese che esporta di più di 
                    tutto l’Occidente industrializzato: c’è 
                    da chiedersi come mai l’ingresso di queste cospicue 
                    risorse non riesce a compensare gli squilibri lamentati. Non 
                    è difficile spiegarlo. A fronte di un’esportazione 
                    che tiene, c’è la realtà di una forza 
                    lavoro di ben cinque milioni di unità espulsa dai luoghi 
                    della produzione o non impiegata. 
                    Di tale forza lavoro, una percentuale non rilevante è 
                    lasciata inattiva per realizzare maggiori profitti per le 
                    imprese, il resto – per effetto delle nuove tecnologie, 
                    per le delocalizzazioni, per il collasso di industrie a forti 
                    componenti di lavoro umano – è di difficile o 
                    impossibile collocazione. 
                    Occorrerebbe che una parte rilevante dei capitali di rientro 
                    fosse destinata a moltiplicare le iniziative produttive per 
                    allargare la base dei consumi interni e per innalzare il livello 
                    contributivo, da impiegare nel settore dei servizi e delle 
                    attività socialmente necessarie. Ma i capitali disponibili 
                    per mettere in moto un tale meccanismo virtuoso sono in larghissima 
                    misura in mano a privati, i quali, come abbiamo visto, hanno 
                    obiettivi assai diversi, obiettivi che rarissimamente comprendono 
                    investimento a lunga scadenza e con esiti incerti. 
                  
                   
 
                    Un paese da farsa 
                  Parliamo della Germania ma, come avrete capito, potremmo 
                    cambiare soggetto a piacimento. Il nostro, l’Italia, 
                    dico, è un paese da farsa, ma, se togliamo le incrostazioni 
                    costituite da governi-burletta e da un capitalismo precario, 
                    piagnone e, spesso, malavitoso, i problemi sono gli stessi 
                    che lamenta la Germania. Abbiamo su per giù lo stesso 
                    livello di disoccupazione strutturale, e i pochi dati che 
                    lo compensano sono i dati illusori di un’occupazione 
                    precaria e senza diritti. Il sistema pensionistico soffre 
                    per il mancato apporto di giovani contribuenti. 
                    Il ceto medio è in sofferenza. I consumi interni, che 
                    sono i rivelatori principali del benessere della comunità, 
                    si riducono sempre di più. Se a ciò si aggiunge 
                    l’indebitamento complessivo dei nostri conti, si può 
                    facilmente dedurre che la nostra sofferenza (non dissimile, 
                    nelle voci principali, da quella tedesca) è una sofferenza 
                    non contingente ma strutturale: è la logica del capitalismo 
                    maturo che provoca la depressione, e le eventuali misure correttive 
                    servono solo ad arginarne i sintomi più eclatanti, 
                    non ad eliminarne le cause profonde. 
                    Così in Germania il declino dell’SPD e il prevalere 
                    dei democristiani non risolve il sostanziale immobilismo che 
                    caratterizza la politica tedesca degli ultimi anni. 
                    In teoria, le soluzioni per formare un governo che possa godere 
                    di una maggioranza sufficiente, ci sono: lasciando fuori gioco 
                    la sinistra estrema di Lafontaine, sono possibili coalizioni 
                    diverse: quella, fortemente auspicata, tra democristiani e 
                    socialdemocratici, oppure l’altra che prevede lo spostamento 
                    a destra dei verdi (democristiani, liberali e verdi), oppure 
                    ancora quella che vedrebbe i socialdemocratici apparentarsi 
                    con liberali e verdi: sono tutte combinazioni che avrebbero 
                    i numeri per governare. 
                    Ma la politica non è fatta di soli numeri: per governare 
                    occorre un programma condiviso, che si sottragga agli agguati 
                    parlamentari e assicuri alle leggi un iter agevole e rapido. 
                    E qui io credo che cascherà l’asino. Qualunque 
                    sia la coalizione che prevarrà, al suo interno saranno 
                    costrette a coesistere sensibilità politiche assai 
                    diverse, se non opposte. E noi qui in Italia sappiamo cosa 
                    questo significhi. 
                    Infine, la soluzione più trasparente che la sinistra 
                    (anche quella moderata) potrebbe perseguire è quella 
                    di rinunciare alla prospettiva (defatigante e corrosiva) di 
                    divenire minoranza della maggioranza, come prospettato dalla 
                    vagheggiata Grande Coalizione, e di chiamarsi fuori dal governo, 
                    magari assicurando un’opposizione non preconcetta. Da 
                    questa posizione potrebbe meglio condizionare le scelte della 
                    Merkel, ove questa riuscisse a reperire una maggioranza al 
                    Bundestag. 
                    In prospettiva, in questo caso, all’orizzonte si profilerebbero 
                    nuove elezioni, in attesa delle quali la sinistra potrebbe 
                    riannodare le fila di un discorso coerente e condiviso al 
                    suo interno, possibilmente aperto al confronto con la sinistra 
                    europea. Ma questa sarebbe una soluzione all’italiana, 
                    assai ostica per la mentalità tedesca.