rivista anarchica
anno 35 n. 312
novembre 2005


Germania

Un esito scontato
di Antonio Cardella

 

La Merkel non ha stravinto e Schröder non ha perso più di tanto. Restano aperti i molteplici e sofferti problemi del Paese.


Nella sostanza, le previsioni che si facevano sull’esito delle elezioni in Germania sono state rispettate. Anche se la Merkel ha perduto molto del suo elettorato potenziale e Schröder è riuscito a risalire parzialmente la china, limitando i danni, il Paese tocca con mano la difficoltà di ottenere un governo che, oltre la stabilità, garantisca la soluzione non contraddittoria dei suoi molteplici e sofferti problemi.
L’accordo per una coalizione CDU/CSU-SPD, dai contatti sinora avvenuti tra i due schieramenti, si dimostra più difficile di quanto non sperassero i fautori di questa formula. I nodi politici, a parte le rivendicazioni al diritto al cancellierato, sono di natura strutturale e lasciano spazi esigui alla trattativa.
In realtà vengono in conflitto due modi contrapposti di interpretare le emergenze e progettarne il governo.
La Merkel ritiene che occorra accentuare il fattore privatistico dell’economia ed è, quindi, per un neoliberismo che lascerebbe briglia sciolta alle dinamiche del mercato, trasferendo sul lavoro gli oneri di una concorrenza spietata e indifferente ai danni che arrecherebbe al sistema di salvaguardie per i ceti più svantaggiati: il cancelliere uscente, pur convinto che alcune riforme occorrano (quella sul sistema pensionistico e su alcune voci dello stato sociale), non intende cedere su una certa progressività del sistema fiscale, sul sostegno ai giovani che si affacciano con poca fortuna al mondo della produzione ed a coloro che dal mondo del lavoro vengono prematuramente espulsi.
È evidente che le opzioni della Merkel siano le più agevoli da perseguire: tutto il mondo occidentale è orientato verso un sistema liberistico che favorisca un’economia senza troppi “lacci e laccioli”, che finisca col premiare l’accumulazione, la speculazione e le grandi rendite parassitarie: uno sviluppo, insomma, poco sensibile alle esigenze delle fasce più deboli della società.
Prevale la legge dei numeri: nessuno mette ormai in discussione la fatale dinamica della produzione capitalistica, che reclama profitti (e profitti da perseguire con ogni mezzo), un costo del lavoro sempre più basso e la cancellazione di quelle tutele per i ceti più deboli che sono certamente costose e che si tende a scaricare sulla fiscalità generale.
Tutto ciò è normale e a me sembra francamente illusorio combattere battaglie settoriali, ignorando i dati di fondo del problema, che sono i modi e la qualità della produzione, le logiche della distribuzione dei beni e della redistribuzione delle risorse.
Ci sono leggi del capitalismo che non si possono esorcizzare inventando correttivi che non correggono. In un’economia aperta o, se volete, globalizzata, non c’è spazio per i se o i ma: o si riesce a stare sul mercato o si perisce, e questo vale per il bottegaio dell’angolo come per l’economia di una nazione o addirittura di un continente.

Leggi, ritenute ineludibili

Sono queste le ragioni che hanno messo in difficoltà Schröder ed il governo rosso-verde da lui presieduto. Sono queste le leggi, ritenute ineludibili, che mettono alle corde tutta la sinistra occidentale moderata e riformista.
C’è una parte della Germania, quella dell’Est, che tarda a decollare e che grava al passivo sul bilancio del Paese, in un regime di risorse sempre più scarse. Certo, sono fondate le obiezioni mosse alla Merkel ed al suo impianto di governo della nuova legislatura, ove dovesse sciogliersi a suo vantaggio il nodo della governabilità: alla lunga, la filosofia di rendere sempre più ricchi i ricchi (e a questo tendono tutte le misure messe a punto dai suoi collaboratori), finisce per impoverire l’intero contesto.
Difficilmente, infatti, il moltiplicarsi del valore dell’accumulazione indurrebbe gli investitori a scommettere su un paese che arranca: molto più semplice correre meno rischi e scommettere dove i soldi si possono moltiplicare più in fretta.
Le enormi quantità di denaro che confluiscono in quell’area definita di “capitali vaganti o speculativi”, che tanti danni hanno provocato alle economie nazionali nel Sud-Est asiatico, in America latina e non solo, sono in massima parte originarie di economie nazionali in difficoltà.
Giuste, quindi le obiezioni dei socialdemocratici tedeschi alla Merkel, ma, allo stato, non emergono misure correttive praticabili. Il fatto è che, non solo in Germania, ma in tutta l’economia occidentale la coperta si è fatta sempre più corta. Il dato più significativo in questo senso è che, a parte poche aree che ancora resistono (il Regno Unito, l’Irlanda e i Paesi del Nord d’Europa), a soffrire non sono più soltanto quelli che una volta si definivano i proletari, ma i ceti medi, cioè la spina dorsale di ogni comunità nazionale.
La Germania è il paese che esporta di più di tutto l’Occidente industrializzato: c’è da chiedersi come mai l’ingresso di queste cospicue risorse non riesce a compensare gli squilibri lamentati. Non è difficile spiegarlo. A fronte di un’esportazione che tiene, c’è la realtà di una forza lavoro di ben cinque milioni di unità espulsa dai luoghi della produzione o non impiegata.
Di tale forza lavoro, una percentuale non rilevante è lasciata inattiva per realizzare maggiori profitti per le imprese, il resto – per effetto delle nuove tecnologie, per le delocalizzazioni, per il collasso di industrie a forti componenti di lavoro umano – è di difficile o impossibile collocazione.
Occorrerebbe che una parte rilevante dei capitali di rientro fosse destinata a moltiplicare le iniziative produttive per allargare la base dei consumi interni e per innalzare il livello contributivo, da impiegare nel settore dei servizi e delle attività socialmente necessarie. Ma i capitali disponibili per mettere in moto un tale meccanismo virtuoso sono in larghissima misura in mano a privati, i quali, come abbiamo visto, hanno obiettivi assai diversi, obiettivi che rarissimamente comprendono investimento a lunga scadenza e con esiti incerti.

Un paese da farsa

Parliamo della Germania ma, come avrete capito, potremmo cambiare soggetto a piacimento. Il nostro, l’Italia, dico, è un paese da farsa, ma, se togliamo le incrostazioni costituite da governi-burletta e da un capitalismo precario, piagnone e, spesso, malavitoso, i problemi sono gli stessi che lamenta la Germania. Abbiamo su per giù lo stesso livello di disoccupazione strutturale, e i pochi dati che lo compensano sono i dati illusori di un’occupazione precaria e senza diritti. Il sistema pensionistico soffre per il mancato apporto di giovani contribuenti.
Il ceto medio è in sofferenza. I consumi interni, che sono i rivelatori principali del benessere della comunità, si riducono sempre di più. Se a ciò si aggiunge l’indebitamento complessivo dei nostri conti, si può facilmente dedurre che la nostra sofferenza (non dissimile, nelle voci principali, da quella tedesca) è una sofferenza non contingente ma strutturale: è la logica del capitalismo maturo che provoca la depressione, e le eventuali misure correttive servono solo ad arginarne i sintomi più eclatanti, non ad eliminarne le cause profonde.
Così in Germania il declino dell’SPD e il prevalere dei democristiani non risolve il sostanziale immobilismo che caratterizza la politica tedesca degli ultimi anni.
In teoria, le soluzioni per formare un governo che possa godere di una maggioranza sufficiente, ci sono: lasciando fuori gioco la sinistra estrema di Lafontaine, sono possibili coalizioni diverse: quella, fortemente auspicata, tra democristiani e socialdemocratici, oppure l’altra che prevede lo spostamento a destra dei verdi (democristiani, liberali e verdi), oppure ancora quella che vedrebbe i socialdemocratici apparentarsi con liberali e verdi: sono tutte combinazioni che avrebbero i numeri per governare.
Ma la politica non è fatta di soli numeri: per governare occorre un programma condiviso, che si sottragga agli agguati parlamentari e assicuri alle leggi un iter agevole e rapido. E qui io credo che cascherà l’asino. Qualunque sia la coalizione che prevarrà, al suo interno saranno costrette a coesistere sensibilità politiche assai diverse, se non opposte. E noi qui in Italia sappiamo cosa questo significhi.
Infine, la soluzione più trasparente che la sinistra (anche quella moderata) potrebbe perseguire è quella di rinunciare alla prospettiva (defatigante e corrosiva) di divenire minoranza della maggioranza, come prospettato dalla vagheggiata Grande Coalizione, e di chiamarsi fuori dal governo, magari assicurando un’opposizione non preconcetta. Da questa posizione potrebbe meglio condizionare le scelte della Merkel, ove questa riuscisse a reperire una maggioranza al Bundestag.
In prospettiva, in questo caso, all’orizzonte si profilerebbero nuove elezioni, in attesa delle quali la sinistra potrebbe riannodare le fila di un discorso coerente e condiviso al suo interno, possibilmente aperto al confronto con la sinistra europea. Ma questa sarebbe una soluzione all’italiana, assai ostica per la mentalità tedesca.

Antonio Cardella