rivista anarchica
anno 35 n. 312
novembre 2005


cyberspazio

Open non è free
di Ippolita
comunità scrivente

 

Comunità digitali, Free Software, Open Source e altro in un libro, scritto ad otto e più mani, pubblicato da Elèuthera.


Questa prefazione – come di consueto, del resto – è in realtà una postfazione, nel senso che è stata scritta dopo il libro stesso. Il fine è parlare fuori dai denti, rendere il discorso il più possibile comprensibile, ampliare le prospettive, dare delle indicazioni utili al lettore, soprattutto quello non specialistico e alieno a concetti come software, computer, internet.
Questo libro traccia dei percorsi e delle linee di fuga in una materia complessa: la scrittura di codici informatici, l’agire quotidiano di legioni di coder e hacker di vario tipo. Il mondo digitale, la tecnocultura pervasiva, la matrice – tutte immagini di gran moda – devono molto a questi individui manipolatori di codici, ovvero coloro che detengono il potere tecnico di intervenire direttamente sui processi di creazione dei codici che modellano le realtà.
Tuttavia, malgrado il loro enorme potere, raramente queste persone se ne fanno carico, difficilmente lo gestiscono, in pochi prendono posizioni dal punto di vista politico, o per meglio dire al di fuori dei mondi digitali. Si tratta di una minoranza.
I media di massa ripropongono regolarmente, e in maniera concertata, banalizzazioni ridicole dell’attivismo digitale. Questo atteggiamento di sufficienza e spettacolarizzazione rende difficile una cartografia anche solo vagamente oggettiva di quanto si muove nelle reti: i pirati informatici sono uno spauracchio utile al pensiero totale, non importa di quale colore politico, e funzionale alle risposte preconfezionate. Per correre ai ripari, per difendersi da questa malvagia incarnazione piratesca, sono stati costituiti corpi polizieschi internazionali con giurisdizione anche virtuale, sono state lanciate campagne sulla sicurezza informatica, sequestrate migliaia di macchine in tutto il mondo, arrestate centinaia di persone; i superstati, dagli USA alla UE, fanno a gara nell’approvare corpus di leggi liberticide (DMCA, Digital Millennium Copyright Act, del 1998; EUCD, European Union Copyright Directive, del 2001) (1) che finalmente permettano loro di prendere il controllo delle reti.

Più controlli, più paranoia

Un effetto lampante di questa politica è stata la criminalizzazione, avvenuta nell’indifferenza generale, di larghe fasce della popolazione che ha accesso alle reti: tutti quelli che scaricano materiali protetti da copyright, audio, video, testi, qualsiasi cosa, al momento compiono un illecito penale, alla faccia della riproducibilità tecnica! Questi tentativi, in parte già riusciti, di imbrigliare, irreggimentare, castrare la libertà creativa delle reti informatiche riguardano dunque la vita concreta di tutti. Tutti usano carte di credito e bancomat, cellulari e computer, pochi si preoccupano della costante chiusura di orizzonti, delle continue limitazioni delle libertà sulle reti, che guarda caso corrispondono a tagli drastici delle libertà civili più tradizionalmente intese: più controlli ovunque, più paranoia per tutti, più polizia, più armi (naturalmente, «nel vostro interesse», «per la vostra sicurezza»). I mondi digitali, di cui la rete di internet è la manifestazione più nota, non sono completamente altro dai mondi reali: sono semplicemente differenti, spesso in movimento più rapido e convulso, ma sostanzialmente riflettono e a volte anticipano i movimenti che si verificano fuori di essi. Perciò la mitizzazione manichea dell’hacker come individuo pericoloso che si muove in un territorio senza leggi (magari!), onnipotente, quasi fosse un essere distribuito con terminali senzienti in ogni capo del mondo, in rapporto con oscure comunità di supertecnici, è un’immagine decisamente nostalgica di soluzioni facili, desiderosa di stabilire confini chiari e netti, di separare i buoni dai cattivi.
Il mito fortemente modellato dalla cultura cyberpunk rappresentava gli hacker come individui pericolosamente interfacciati con la realtà, tra il virtuale e il reale, con il giubbotto di pelle e gli occhiali a specchio.
Effettivamente, gli hacker creano codici e aprono nuove strade nella tecnosfera, ma non hanno gli occhiali a specchio, forse non li hanno mai avuti. Hanno una passione per i codici, per le macchine, un desiderio di capire come funzionano e di comunicarlo agli altri. Creano comunità molto stratificate e spesso fortemente gerarchizzate, dove la meritocrazia ha un ruolo centrale, ma difficilmente parlano «al mondo»: nel complesso, da un punto di vista meramente politico, sono neutri, non schierati, non attivi.
Una delle ragioni di questa disaffezione per la vita reale, la real life schematicamente contrapposta alla virtual life (campo di azione e di costruzione della propria individualità per un numero sempre più imponente di individui) risiede probabilmente nelle caratteristiche stesse dei mondi e dei linguaggi digitali.
Il cyberspazio, la matrice digitale, già di per sé è fatta di codice. La scrittura e l’uso di codici informatici può dunque sembrare del tutto autoreferenziale, interna all’espansione della matrice stessa, senza relazioni con la realtà non-digitale. La realtà esterna, invece, non è completamente codificata, perdurano enormi sacche che resistono a qualsiasi tentativo di codifica. Mentre scrivere codice crea, di fatto, e completamente, la realtà della matrice, e si configura in quanto azione omogenea alla natura stessa della matrice, usare una lingua naturale non crea tutta la realtà, è un’azione eterogenea, perché crea solo il mondo condiviso da chi comprende quel linguaggio (2).
Inoltre, se paragoniamo i linguaggi informatici alle lingue naturali, l’aspetto che più ci preme sottolineare è la radicale differenza di finalità e funzionalità: una lingua naturale viene codificata a posteriori, viene scritta una grammatica da esperti dopo che la lingua viene utilizzata; invece un linguaggio digitale viene pensato per raggiungere un determinato scopo: per scrivere interfacce grafiche, per mettere in relazione altri programmi scritti in linguaggi differenti, per programmare una macchina a basso livello, ecc.
La finalità è dettata a priori, anche se ovviamente si possono aggiungere usi e funzionalità impreviste. Finalità e funzionalità: il fine di un codice è che funzioni. Poi ognuno lo userà a modo suo.
L’attitudine hacker è tutta qui: ho un bisogno o desiderio, applico la mia passione per soddisfarlo, scrivo un codice che funzioni a quel fine. Banalizzando: ho un computer, un microfono, un telefono, desidero parlare con un amico lontano, scrivo un codice, un programma che metta in relazione gli elementi tecnologici per raggiungere il mio scopo. La politica diventa personale al massimo grado: uso il mio potere tecnico per raggiungere i miei obiettivi in maniera funzionale.
Abbiamo imparato molto dallo stile hacker. Abbiamo imparato a giocare e a condividere, a immaginare nuovi possibili usi della tecnologia.
Vorremmo dare qualcosa in cambio, influenzare come siamo stati influenzati: condividere un immaginario radicale. Smetterla una buona volta con la strategia della resistenza e della difesa di minuscoli interstizi di libertà, di piccole aree autogestite a fatica connesse tra loro, sempre pronti a cambiare aria se la repressione alza il tiro; abbandonare le strategie di pura sopravvivenza, le economie di autosussistenza, e cominciare ad ampliare le aree di libertà.
La creazione di TAZ (Temporary Autonomous Zone) è solo il primo passo, ma non basta: deve diffondersi come un virus, moltiplicarsi in una miriade di progetti. I mezzi ci sono: la tecnica è nelle mani di chi la sa usare, e adesso è il momento di promuovere un uso sovversivo della tecnica.
Negli anni Ottanta gli hacker venivano processati e sbattuti in prima pagina (e, spesso, cooptati subito dopo dai servizi più o meno segreti per spiegare a ottusi funzionari come usare le macchine) perché osavano penetrare nei sistemi delle grandi compagnie telefoniche americane. Era ridicolo, visto che chiunque sapesse leggere e usare i manuali tecnici delle compagnie, non certo segreti, avrebbe potuto fare altrettanto.
Ma diffondere le conoscenze e le informazioni, nell’età in cui l’informazione è il bene più prezioso, l’unica vera moneta di scambio e fonte di potere, è già di per sé sovversivo. Oggi gli hacker detengono senz’altro il potere tecnico per costruirsi le loro reti telefoniche o reti di qualsiasi altro tipo, senza chiedere il permesso a nessuno, negoziando invece con i soggetti interessati i possibili scenari.
Dovrebbero solo sporcarsi di più le mani con la vita reale, prendere la parola e imparare a parlare anche a persone che non hanno la loro competenza tecnica. Non è facile, non è automatico, non ci sono ricette di sicuro successo. L’incomprensione è sempre dietro l’angolo, la traduzione può risultare oscura e inefficace. Però si può giocare, e metterci tutto il proprio desiderio. Non sarà comunque fatica sprecata.

Non restare a guardare

Questo libro, quindi, è un’azione diretta, un modo di chiamarsi in causa, di non restare a guardare il divenire vorticoso della tecnocultura, ma di metterci su le mani. È stato scritto a otto mani, attraverso strumenti di open publishing in rete (3), da una comunità scrivente che si è costituita in diversi mesi di lavoro comune; ma, in pratica, sono molte di più le mani che sono intervenute: ognuno con le sue competenze, abbiamo dovuto confrontarci e cercare di capirci fra di noi, mediare e trovare linguaggi condivisi, prima di poter dire qualcosa.
Questo libro non è solo un libro perché continua sulla rete, nei percorsi che si sono aperti man mano che ci guardavamo intorno, chiedendo a chi ne sa di più, ma magari non ha tempo, voglia e capacità di raccontare agli altri. Questo libro è un’autoproduzione di un autore collettivo che ha coagulato intorno a sé degli interessi precisi, una volontà chiara di immergersi nella realtà, consapevoli dei propri mezzi tecnici.
Fra tante azioni, ci sono state anche parecchie riflessioni. Innanzi tutto, su chi siamo e cosa vogliamo, sui nostri desideri. Sul modo di relazionarci fra di noi, nei confronti degli altri, delle comunità di cui facciamo parte. Sul primato del processo, del metodo, rispetto ai risultati. Nessuna indagine sociologica, economica, linguistica che pretenda di essere oggettiva: ma tutto questo, e molto altro insieme, in un divenire fluido.
Ogni capitolo può essere letto a sé: si susseguono una discussione sull’uso dei codici (Introduzione), una panoramica storica dell’emergere dei concetti di Free Software e Open Source (cap. I), una disamina delle licenze software (cap. II), un’analisi delle comunità digitali (cap. III), un approfondimento sulle relazioni tra Open Source e mercato (cap. IV), una focalizzazione sulle possibilità di azione degli individui (cap. V).
Un altro livello di lettura, più immediato rispetto alla narrazione, è quello grafico; infatti, sono state inserite delle infografiche, cioè oggetti grafici, mappe di vettori senza alcuna legenda che evidenziano le connessioni fra le comunità digitali e fanno il punto sulle relazioni tra Free Software e Open Source, per facilitare il posizionamento del lettore nel discorso del testo. In rete, oltre al libro completo liberamente scaricabile, rilasciato sotto una licenza Creative Commons (4), si trovano sitografie, link e approfondimenti vari aperti a contributi futuri.
In questo libro tanto eterogeneo vi sono molte carenze e molti punti di forza, nessuno sviluppato a fondo: questo perché la teorizzazione perfetta, le teorie piene e lisce, senza alcun punto debole, perdono subito contatto con la realtà e si traducono in pratiche catastrofiche, autoritarie, non condivise.
Preferiamo abbozzare, rilasciare una versione alfa, e attendere contributi. Questo libro è pensato come un software modulare: abbiamo dei desideri da realizzare, vorremmo far funzionare e implementare le nostre reti, quindi abbiamo pensato di scrivere delle librerie, dei pezzi che possano essere riutilizzati in altri contesti, dei brani di codice che possano servire da collegamento tra diversi tipi di comunità e soggetti eterogenei: hacker, tecnici, attivisti, utenti a qualsiasi livello delle tecnologie informatiche.
L’ordito e la trama della tela che possiamo tessere sono molto più complesse di quanto non possa restituire un libro, ma un libro è quello che ci serve per iniziare a costruire. Questa struttura modulare è funzionale inoltre all’intervento esterno: chiunque può scrivere la sua implementazione, proporre migliorie, ideare e realizzare un suo plugin che svolga funzioni specifiche.
Annoveriamo tra i punti deboli, quelli che possono facilmente essere attaccati, almeno tre linee di fuga che ci piacerebbe seguire, o meglio che qualcuno seguisse.
Innanzi tutto, un discorso sul mondo del lavoro. Elaborare cioè pratiche di autoformazione e la condivisione delle competenze come modello di autodifesa digitale, esportabile in qualsiasi campo, anche al di fuori dell’ambito qui affrontato: prospettive di biosindacalizzazione dei soggetti precari, per i quali le tattiche del welfare tradizionale (e di qualsiasi presunto welfare «alternativo») sono del tutto obsolete e inappropriate.
Inoltre, le tematiche legate all’ergonomia. A partire dal software e dal rapporto uomo-macchina, progettare oggetti, servizi, ambienti di vita e di lavoro, affinché rispettino i limiti dell’uomo e ne potenzino le capacità operative, con la massima attenzione al comfort, all’efficacia, alla sicurezza. Buone pratiche per vivere con un certo stile, per usare le tecnologie e non esserne usati. Infine, immaginare nuovi modi per attraversare i livelli delle realtà in cui viviamo, nuove declinazioni collettive e individuali, che prendano forma, diventino azioni concrete e di quando in quando riescano, attraverso pratiche di scrittura comunitarie, a fermare il tempo e il flusso dell’azione, a teorizzare, a individuare nuove vie di fuga, per spingere al massimo i propri desideri.

Controllo morbido

Una precisazione: in questo libro si accenna appena a Microsoft, perché sparare sulla Croce Rossa è troppo facile e persino noioso. Le posizioni monopolistiche e di chiusura pressoché totale dei codici del colosso di Redmond non possono nemmeno essere prese in considerazione tanto sono lontane dallo spirito hacker. Se addirittura l’antitrust americano si accorge che qualcosa non va, non ci vuole un grande intuito.
È più interessante prendere in considerazione il sottile slittamento di significato che ha portato la pratica del Free Software a diventare più semplicemente Open Source, un movimento che sostituisce la pratica della libertà con una meno imbarazzante «apertura»: come ricompensa, viene appoggiato da governi e da Corporations come IBM e Sun, insomma da poteri forti che ora si fanno improvvisamente paladini dello sviluppo dei metodi di condivisione e apertura elaborati nelle comunità digitali.
Perché non avvalersi della collaborazione appassionata di persone a cui piace il lavoro che fanno, invece che costringere persone poco motivate a produrre merci che non gli interessano? Il controllo morbido, l’insistenza sulla creatività e sul lavoro di équipe, le pacche sulle spalle, le gratificazioni sono da tempo patrimonio delle tecniche aziendali: si realizzano prodotti migliori in minor tempo e a costi inferiori. Per molti settori, persino i militari preferiscono usare lo sviluppo aperto, piuttosto che la chiusura, per perfezionare i loro strumenti di dominio e sterminio.
Vogliamo allora mettere il dito sulla piaga, evidenziare le incapacità politiche del Free Software, l’insufficienza della GPL, la necessità di estendere il copyleft e insieme l’ipocrisia, molto redditizia in tutti i sensi (ma che nonostante tutto ha dato una scossa al monopolio Microsoft), che ha portato al successo del termine Open Source. Infine: se questo libro vi darà delle risposte e lo chiuderete colmi di sicurezze e gratificazioni, avremo fallito. Speriamo che questo libro vi deluda: siamo certi che non sia abbastanza e perciò speriamo che vi spinga a dire la vostra, ad agire in prima persona, magari a prendervi uno spazio di elaborazione e scrittura collettiva, usando e migliorando gli strumenti che qui abbiamo testato. Questi strumenti e molti altri sono a disposizione, fra l’altro, presso il server Ippolita (www.ippolita.net), che incidentalmente è anche l’autore di questo libro. Solo così il meccanismo della delega, almeno per una volta, sarà accantonato: confidiamo nell’assunzione diretta di responsabilità, per la creazione di dinamiche impensate di autogestione.

Ippolita
comunità scrivente

ippolita.net
info@ippolita.net


Note

  1. Alcuni approfondimenti in italiano: EUCD http://www.softwarelibero.it/progetti/eucd/; DMCA http://www.annozero.org/nuovo/pages.php?page=Sklyarov+DMCA.
  2. Il discorso qui accennato è ovviamente assai più complesso. La realtà è idiota, nel senso etimologico del termine di proprio, privato, particolare; questo aspetto è assolutamente alieno alle codifiche totalizzanti che rendono invece la matrice digitale una sequenza, per quanto gigantesca, di impulsi discreti, di zeri e di uno.
  3. Matthew Arnison, L’open publishing è la stessa cosa del software libero, Indymedia FAQ #23, http://italy.indymedia.org/news/2002/07/64459.php. Lo strumento principale che abbiamo usato è un wiki, un software collaborativo per scrivere, che potete trovare qui: www.ippolita.net.
  4. In particolare abbiamo scelto una licenza Creative Commons copyleft di tipo by–nc–sa 2.0, ovvero: «Tu sei libero: di distribuire, comunicare al pubblico, rappresentare o esporre in pubblico l’opera; di creare opere derivate. Alle seguenti condizioni: by: (attribuzione): devi riconoscere la paternità dell’opera all’autore originario; nc: (non commerciale): non puoi utilizzare quest’opera per scopi commerciali; sa: (condividi sotto la stessa licenza): se alteri, trasformi o sviluppi quest’opera, puoi distribuire l’opera risultante solo per mezzo di una licenza identica a questa. Maggiori informazioni: http://www.creativecommons.it.