Il MLC – Movimiento Libertario Cubano – 
                    presenta alla discussione collettiva le proprie riflessioni 
                    sulle dichiarazione dell’EZLN presentate nel luglio 
                    2005 nello stato del Chiapas, Messico. 
                  Il 1° gennaio 
                    1994 era entrato in vigore il NAFTA, l’accordo sul libero 
                    scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico e nel corso di quell’anno, 
                    guastando i piani dei potenti, dalle profondità dimenticate 
                    della selva Lacandona erano entrate in scena anche “la 
                    fiamma e la parola” dei ribelli zapatisti. Fino a quel 
                    momento tutto il mondo pareva procedere senza manifestare 
                    una forte opposizione o ribellione nei confronti della “fine 
                    della Storia” e lo faceva con la “globalizzazione” 
                    e il neoliberismo, ovvero (per non dimenticare e supporre 
                    erroneamente che quelle parole spieghino tutto) con l’attuale 
                    modello egemonico adottato dal sistema di controllo dello 
                    Stato e del capitalismo transnazionale. In altri termini i 
                    modelli oggi prevalenti di dominio e di sfruttamento su larga 
                    scala. In un contesto tanto disperante, l’irruzione 
                    dello zapatismo rappresentava una ventata di aria fresca e 
                    una fragorosa conferma (certo anticipata da molti se pur meno 
                    vistosi atti di resistenza in tutto il mondo) del fatto che 
                    la Storia continuava il suo corso e che non c’era niente 
                    che avesse messo fine alle lotte popolari. Così gridavano 
                    fin dall’inizio i gruppi di sinistra di vario colore 
                    e così fu anche accolto dal Movimento Libertario Cubano 
                    che allora diede il proprio sostegno ai progetti comunitari 
                    nella selva Lacandona, come la scuola antiautoritaria “1° 
                    Maggio” o il campo di solidarietà diretta “Martiri 
                    di Chicago”. 
                    Per noi, allora come oggi, la nascita e lo sviluppo dell’Esercito 
                    Nazionale di Liberazione Zapatista e le sue azioni avevano 
                    il significato e imponevano una nuova prospettiva in quanto 
                    parte della nascita e dello sviluppo di una nuova sinistra 
                    rivoluzionaria latinoamericana. La forma, il profilo e gli 
                    orientamenti di quella costellazione di gruppi e di pratiche 
                    di sinistra rappresentano uno dei nostri temi di fondo. Per 
                    questo è per noi necessario, all’interno di quel 
                    quadro di riferimento, prendere posizione sulla strada imboccata 
                    dall’EZLN e sulla sua recente VI Dichiarazione dalla 
                    selva Lacandona, nonché sulla sua applicazione e sulle 
                    sue implicazioni. Lo faremo con la solidarietà e il 
                    rispetto che il movimento zapatista si è conquistato 
                    per i suoi meriti, che non è qui necessario ribadire, 
                    ma anche senza tralasciare le critiche (cosa che sarebbe un’inconcepibile 
                    dimostrazione di demagogia e di opportunismo) che giudichiamo 
                    vadano portate come contributo al lento e faticoso processo 
                    di consolidamento della sinistra rivoluzionaria in America 
                    Latina. 
                  
                  Logo dell’EZLN 
                    (Ejército Zapatista de Liberación Nacional)
                   
 
                    Quale sinistra e dove la 
                    troviamo? 
                  Partiamo dall’inizio e facciamoci la domanda delle 
                    domande: che cos’è questa nuova sinistra rivoluzionaria 
                    latinoamericana di cui parliamo? Per cominciare, non c’è 
                    dubbio che sia quella che non ha rinunciato all’utopia 
                    né nelle parole né nei fatti e che, malgrado 
                    tutto, trova il suo principale incoraggiamento in quell’utopia 
                    che si potrebbe genericamente definire una fitta rete di relazioni 
                    tra soggetti liberi, uguali e che si sostengono a vicenda; 
                    un’utopia capace di scoprire i propri lontani e rispettabili 
                    esordi e di rivendicarne la loro indispensabile attualizzazione. 
                    
                    Quella sinistra, che si alimenta non solo grazie alla propria 
                    crescita, ma che prende forza anche dal vuoto altrui, che 
                    si sviluppa all’interno di quello spazio vuoto e disperato 
                    prodotto dai fragorosi fallimenti del “socialismo reale” 
                    e dell’immediato fiasco dell’anti-utopia neoliberale. 
                    È quella sinistra che ha imparato a riconoscere e a 
                    guardare con sospetto lo stretto e arido sentiero lasciato 
                    dalle avanguardie della guerriglia che poi si sono trasformate 
                    in partito esclusivo ed escludente, prendendo la via di un 
                    populismo civile o militare e del riformismo socialdemocratico; 
                    è quella sinistra che non si sente rappresentata da 
                    nessuna autorità e anzi s’interroga sul significato 
                    della “rappresentanza”, che si cerca tra le urla 
                    di “mandateli via tutti!” e la sussurrante promessa 
                    di “cambiare il mondo senza prendere il potere”; 
                    la sinistra che si basa sull’autonomia non negoziabile 
                    di movimenti sociali di base che servono da modello per un 
                    nuovo mondo e che trovano la propria più vera espressione 
                    nell’autogestione e nell’azione diretta. 
                    Una sinistra cui certamente l’EZLN vuole appartenere 
                    e che, in aperta reciprocità, trova nel movimento zapatista 
                    una delle sue più vistose espressioni. 
                    Ordunque, né questa nuova sinistra né l’EZLN 
                    sono strutture finite, che rispondono a un progetto ampio 
                    e rigoroso di costruzione, ma vanno pensate come opere in 
                    corso di edificazione, qua e là segnate dagli inevitabili 
                    dubbi e dalle innovazioni nate dall’esigenza di pratiche 
                    immediatamente antagonistiche. Per esempio, l’EZLN ha 
                    ragion d’essere in quanto movimento di guerriglia in 
                    transizione. Le sue origini sono più o meno marcate 
                    dai parametri tipici dei gruppi di lotta armata degli anni 
                    sessanta e settanta: “liberazione nazionale” come 
                    concetto che li informa, l’orgoglio di sentirsi un esercito 
                    e di autoproclamarsi tale, la mistica dei “comandanti”, 
                    certe reminiscenze simboliche e così via. 
                    Sono riferimenti non proprio positivi e nei confronti dei 
                    quali non pare che l’EZLN abbia compiuto una critica 
                    approfondita. Le sue azioni l’hanno indotto ad adottare 
                    un profilo che non corrisponde più al vecchio modello. 
                    Non solo perché la “guerra di liberazione” 
                    in senso classico è durata appena dodici giorni, ma 
                    anche perché già il 1° gennaio 1996 (la 
                    IV Dichiarazione) l’EZLN ci ha dato la lieta sorpresa 
                    di annunciare la formazione di “una forza politica che 
                    non è un partito politico”, affermando di non 
                    aspirare alla presa del potere. 
                    Per dirla con parole nostre: non la vecchia avanguardia guerrigliera 
                    e nemmeno il riformismo socialdemocratico. Neppure (a maggior 
                    ragione) gli idoli della redenzione populista che si troverebbero 
                    fuori posto tra gli eventi anonimi e quotidiani della selva 
                    Lacandona. 
                    Quello che allora cominciava ad acquistare il massimo rilievo 
                    è appunto ciò che ci interessa di mettere in 
                    evidenza, in quanto tappa fondamentale della nuova sinistra 
                    latinoamericana: l’autonomia di movimenti sociali di 
                    base, un’autonomia che, all’interno della sfera 
                    d’azione dell’EZLN nel Chiapas, è quella 
                    delle comunità delle popolazioni autoctone. 
                   
 
                    Passi avanti e indietro 
                    del movimento zapatista 
                  Lungo la complessa traiettoria dell’EZLN sono state 
                    presenti fin dall’inizio luci e ombre. Volendo legittimamente 
                    estendere il raggio d’azione e proiettare la lotta su 
                    tutto lo Stato messicano, l’EZLN si è messo a 
                    braccetto delle istituzioni dominanti con le quali ha stabilito 
                    una certa familiarità, mentre espandeva e consolidava 
                    la propria autonomia nella regione. Mentre quelle relazioni 
                    hanno solo prodotto riconoscimenti indiretti, accordi non 
                    rispettati, ritardi e fallimenti, il rafforzamento dell’autonomia, 
                    invece, rendeva più salda la sua presa e la sua sfera 
                    d’influenza immediata. 
                    E, proprio come le une portavano alla formazione episodica 
                    di ampie sovrastrutture politiche che, più o meno volontariamente, 
                    erano affidate alla dinamica dello Stato e del suo implicito 
                    raggio d'azione e che poi finivano intrappolate nelle sue 
                    mascelle d’acciaio (Convenzione democratica nazionale, 
                    Movimento di liberazione nazionale, Comitati di Concordia 
                    e Pacificazione, ecc.), l’altro favoriva, a partire 
                    dall’agosto 2003, l’emergere di un’ampia 
                    partecipazione da parte delle comunità zapatiste e 
                    una ridefinizione, forse positiva, da parte dell’EZLN, 
                    che ora punta (anche se mai in modo assoluto né del 
                    tutto convinto) non a fare il primo violino ma un’azione 
                    più modesta di accompagnamento. 
                    Questo modo alternativo di pensare la politica e le sue più 
                    recenti azioni ha permesso la formazione delle cinque regioni 
                    autonome del Chiapas e di quelli che sono stati battezzati 
                    (non molto bene) i “consigli di buon governo”. 
                    È un rimescolamento dei ruoli ben lontano dall’essersi 
                    concluso e ha molti aspetti che riguardano le discussioni 
                    e i problemi della nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana. 
                    Sono luci e ombre con le quali l’EZLN ha messo in evidenza 
                    la fusione, senza un piano preordinato, di elementi vecchi 
                    e nuovi e che combinano (in modo tipico di un movimento in 
                    transizione, come abbiamo detto) certe pratiche delle formazioni 
                    convenzionali della guerriglia alle indispensabili sfide portate 
                    avanti dalle organizzazioni di base che rivendicano una propria 
                    autonomia. Questa alternanza di luci e di ombre non può 
                    non incidere sulla VI Dichiarazione e sull’“altra 
                    campagna”: è un fatto che dobbiamo affrontare 
                    immediatamente. 
                    È opportuno iniziare in modo corretto e conseguente: 
                    se c’è qualcosa che l’EZLN ha espresso 
                    in modo del tutto chiaro nella sua VI Dichiarazione è 
                    che si sente ingannato e che i principali responsabili del 
                    fiasco sono i partiti politici istituzionali, con i loro capi 
                    in primo piano. Il modo con sui si esprime la dichiarazione 
                    lascia ben poco spazio a esegesi troppo complesse e involute: 
                    “I politici hanno dimostrato con chiarezza di non avere 
                    pudore e di non essere che un gruppo di malfattori che pensa 
                    solo ad accumulare soldi a palate, da quei cattivi governanti 
                    che sono. 
                    Lo dobbiamo tenere a mente, perché vedrete che adesso 
                    arriveranno a dire che riconosceranno i diritti degli indigeni, 
                    ma questa è una bugia che ci raccontano perché 
                    vogliono i nostri voti; ma hanno già avuto la loro 
                    occasione e l’hanno mancata.” Occasioni e fallimenti 
                    che (va detto con la massima chiarezza) si ripresentano nella 
                    storia della democrazia “rappresentativa” di ogni 
                    paese e si possono riunire, ognuna con le proprie caratteristiche, 
                    in un ipotetico racconto dell’infamia universale. Stando 
                    così le cose, è bene che l’EZLN voglia 
                    lasciar fuori dalle sue aspettative, una volta per tutte, 
                    il sistema istituzionale dei partiti, voglia tracciare una 
                    netta linea di demarcazione in questo senso e rivolgere il 
                    proprio messaggio in un’altra direzione: “Un nuovo 
                    passo avanti nella lotta indigena è possibile solo 
                    se gli indigeni si uniscono agli operai, ai contadini, agli 
                    studenti, agli insegnanti, agli impiegati… cioè 
                    ai lavoratori delle città e delle campagne.” 
                    
                    In altri termini, una maggiore apertura e un allargamento 
                    della composizione sociale del movimento di resistenza: “In 
                    questa globalizzazione della ribellione compaiono non solo 
                    i lavoratori delle città e delle campagne, ma anche 
                    altri che sono perseguitati e disprezzati proprio perché 
                    non si lasciano dominare: sono donne, giovani, popolazioni 
                    indigene, omosessuali, lesbiche, transessuali, emigranti, 
                    e molti altri gruppi che esistono in ogni parte del mondo 
                    ma che non vediamo o sentiamo finché non fanno sentire 
                    la loro voce con tanta forza e si ribellano. Allora li vediamo 
                    e li sentiamo e impariamo da loro.”. Una rete di oppressione, 
                    di esclusione e sofferenza sembra essere al fondo delle aspirazioni 
                    e dei desideri dell’EZLN, e forse è possibile 
                    avvertire le pulsazioni della selva Lacandona dietro e sotto 
                    queste parole che, nonostante siano intenzionalmente semplici, 
                    hanno un significato profondo e prezioso. 
                    Si può essere d’accordo con queste prospettive 
                    immediate praticamente in tutto: l’articolazione più 
                    o meno stabile di questi movimenti di resistenza dietro a 
                    un programma di sinistra di lotte e l’avvio collettivo 
                    di “una campagna nazionale per realizzare un altro modo 
                    di fare politica”. 
                    Un altro modo di fare politica: dovrebbe intendersi come del 
                    tutto diverso da quello sviluppato in un modo svergognatamente 
                    spregevole dai partiti elettorali, sempre presi nella successione 
                    ritmica e spasmodica di promesse allettanti, amnesie indefinibili 
                    e giustificazioni opportunistiche. 
                    Ecco qui, per esempio, un nuovo attacco zapatista: “Quei 
                    partiti politici non solo non difendono, ma sono i primi a 
                    mettersi al servizio degli stranieri, soprattutto degli Stati 
                    Uniti, e sono quelli che c’ingannano, distolgono il 
                    nostro sguardo mentre svendono ogni cosa e s’intascano 
                    i soldi.”. 
                    Sono questi giudizi irrefutabili, che la VI Dichiarazione 
                    estende anche, con qualche sfumatura, ai movimenti sindacali 
                    burocratici e disfattisti: “Se i lavoratori fossero 
                    nel loro sindacato e rivendicassero i propri diritti, allora 
                    no, proprio ora il sindacato dice loro di stare tranquilli 
                    e di accettare un salario più basso, un orario ridotto 
                    o minori previdenze, altrimenti la ditta chiuderebbe e si 
                    sposterebbe in un altro paese.” 
                    Un altro modo di fare politica, riguardo al quale non molto 
                    è specificato, ma che deve sicuramente essere inteso 
                    come una scelta di democrazia diretta in contrapposizione 
                    alle “rappresentanze” gerarchiche e cristallizzate; 
                    una scelta di partecipazione attiva e popolare con tutto il 
                    suo potenziale, in contrapposizione all’esclusione sistematica 
                    che ha sempre avvantaggiato i tecnocrati e i superspecialisti; 
                    una scelta di schiettezza, di dialogo tra uguali, di elaborazione 
                    comune di sogni condivisi da tutti, in contrapposizione alla 
                    fiera delle vanità, insensibile e assurda, dove vigono 
                    la dissimulazione e la menzogna. La Dichiarazione non lo dice, 
                    ma queste cose possono essere implicite, tanto più 
                    che sembrano rappresentare la via autentica per la formazione 
                    e lo sviluppo delle comunità indigene zapatiste, tratti 
                    essenziali della loro esistenza e del loro consolidamento. 
                  
                  
 
                  
                  Logo 
                    del Movimiento Libertario Cubano 
                   
 
                    Cambio costituzionale: strada 
                    senza uscita 
                  È un bene che non ci siano molte definizioni o un 
                    programma dettagliato e soffocante da sottoscrivere, perché 
                    la loro presenza costituirebbe più un invito ad aderire 
                    che a dialogare; i movimenti di base della società 
                    messicana sarebbero considerati più un pubblico passivo 
                    o un contenitore da riempire che un tessuto attivo e vivace, 
                    in grado di produrre il proprio fuoco e le proprie parole. 
                    
                    Ciò nonostante, c’è un unico elemento 
                    programmatico che l’EZLN pare assumere in modo assiomatico 
                    e accettare tacitamente, un elemento che può essere 
                    causa di errori di prospettiva e di diversi abbagli strategici: 
                    “una nuova Costituzione”. Sarebbe questo un modo 
                    ellittico per riferirsi alla base costituente di una nuova 
                    società messicana, quindi con la convinzione che questa 
                    necessiti né più né meno di un sovvertimento 
                    radicale dei rapporti di potere? O magari è un tentativo 
                    di coinvolgere i movimenti sociali autonomi in una riforma 
                    costituzionale convenzionale, con transazioni e regole del 
                    gioco prestabilite insieme alle norme in vigore e, in quanto 
                    tale, soggetta fin dall’inizio agli stessi e immutati 
                    rapporti di potere? 
                    In apparenza sembrerebbe che l’EZLN coltivi un’idea 
                    nostalgica della Costituzione messicana, idea che non regge 
                    a un’analisi approfondita. Vediamo: “La Costituzione 
                    è stata viziata e modificata. Non è più 
                    quella che conteneva i diritti e le libertà del popolo 
                    lavoratore, ma adesso assicura ai neo-liberali i diritti e 
                    le libertà di accumulare colossali profitti. I giudici 
                    sono lì al loro servizio, perché decidono sempre 
                    a loro favore, e a chi non è ricco spettano solo ingiustizia, 
                    carcere e cimitero”. 
                    Ma il Messico ha forse mai avuto una costituzione che sancisse 
                    davvero, senza se e senza ma e nella forma più ampia, 
                    “le libertà del popolo lavoratore?” Un 
                    ragionamento di questo tipo potrebbe magari indurre a convincersi 
                    che l’EZLN abbia perfettamente inteso le articolazioni 
                    di potere che caratterizzano i partiti politici dello Stato, 
                    ma non abbia ancora colto quelle che caratterizzano lo Stato 
                    in sé. Comunque, non c’è nessun mistero 
                    in questo e lo si può dire in modo semplicissimo, parafrasando 
                    Marcos: i partiti sono quelli che sono perché lo Stato 
                    è quello che è. 
                    Un fatto che resta indiscutibile è che lo Stato è 
                    una struttura specifica di dominio, una forma gerarchica e 
                    codificata delle relazioni sociali di potere e un sistema 
                    studiato per autoperpetuarsi. Stando così le cose, 
                    la definizione corretta che l’EZLN fornisce del sistema 
                    dei partiti nello Stato non può trovare spiegazione 
                    nella cattiva volontà, nel carattere perverso o nella 
                    venalità dei leader, ma deve recuperare una parte sostanziale 
                    del ragionamento nel fatto che i partiti stabiliscono il proprio 
                    orientamento di fondo come un’attività per prendere 
                    in mano le redini dello Stato. 
                    Proprio a causa di questo essi adottano una forma che ricalca 
                    fedelmente quella dello Stato nelle proprie attività; 
                    per questo si costituiscono come istanze di controllo e di 
                    disciplina dei propri affiliati; per questo assegnano attributi 
                    di rispetto a ognuno degli organismi della loro esistenza 
                    piramidale; per questo sono convinti che la loro sopravvivenza, 
                    al di là di qualsiasi considerazione storica e sociale, 
                    debba essere vista dagli “elettori” (i propri 
                    e quelli degli altri partiti) come una benedizione del cielo. 
                    Noi anarchici ne siamo del tutto convinti da più di 
                    centotrent’anni e la successiva esperienza storica non 
                    ha fatto che confermare quelle antiche intuizioni e l’ha 
                    fatto senza offrire in tutto questo tempo nemmeno un’eccezione 
                    ai nostri occhi ansiosi e pieni di speranza. 
                    Anzi, se in passato si poteva parlare di “potere che 
                    corrompe”, oggi è possibile dire che perfino 
                    l’aspirazione al potere corrompe, in anticipo e in modo 
                    abbondante. 
                    In questo dobbiamo essere chiari e coerenti. Come si riconcilia 
                    l’EZLN che afferma : “Noi lottiamo per essere 
                    liberi, non per dover cambiare padrone ogni sei anni”, 
                    con l’EZLN che parla di una “nuova Costituzione”? 
                    Forse è possibile mettere d'accordo la lotta per la 
                    libertà e una Magna Carta negoziata e messa insieme 
                    per necessità dall’organizzazione nello stato 
                    attuale, secondo il senso tradizionale del termine? Sembrerebbe 
                    di no, e sembrerebbe anche che l’orientamento giusto 
                    sia proprio quello opposto: la lotta per la libertà 
                    comincia dalla formazione autonoma di movimenti di base e 
                    si sviluppa al loro interno, mentre la ricerca negoziale di 
                    una nuova Costituzione è condannata a impantanarsi 
                    nel labirinto tortuoso dello Stato e delle sue infinite macchinazioni. 
                    
                    Una conclusione del genere non ha bisogno di uno studio erudito 
                    di politica comparata, basta e avanza l’esperienza dell’EZLN 
                    in queste faccende. Il rifiuto fondamentale e radicale del 
                    sistema statale dei partiti è un passo teorico importante, 
                    che richiede soltanto di essere integrato dal rifiuto della 
                    strada stretta dello Stato e che apre un transito senza restrizioni, 
                    vincoli e deviazioni lungo la fertile strada dell’autonomia. 
                    
                    L’autonomia dei movimenti sociali, posta all’interno 
                    del quadro di azioni sul territorio che essi decidono di darsi, 
                    è la condizione libertaria per eccellenza: un’autonomia 
                    che richiede emancipazione da un potere onnisciente, esterno 
                    e superiore, perché ogni collettivo progetti, con i 
                    margini di libertà più ampi possibile, le proprie 
                    relazioni di vita e i propri ricorsi all’azione; senza 
                    condizioni o estorsioni, pensando a sé e al proprio 
                    divenire, confidando nelle proprie capacità e non nella 
                    predestinazione, nei messia, nelle dottrine, nelle cospirazioni 
                    o nel caso, che, lo sappiamo, non hanno mai portato e non 
                    porteranno mai da nessuna parte. 
                    Noi tutti potremmo “avanzare interrogando” e “comandare 
                    ubbidendo”. Ci sono molte altre cose che si potrebbero 
                    dire in solidarietà con l’EZLN a proposito della 
                    sua VI Dichiarazione o, meglio ancora, con tutte le comunità 
                    zapatiste e, in generale, riguardo alla vita e alle lotte 
                    dei popoli. 
                    Ci piacerebbe, per esempio, andare un po’ più 
                    a fondo a proposito della globalizzazione e del neoliberismo, 
                    in modo che tra tutti noi sia possibile disegnare un mappamondo 
                    che non sia riproducibile solo in bianco e nero, per scoprire 
                    come in questa arena non ci siano solo due gladiatori e come 
                    sia necessario individuare tutta la gamma di relazioni locali 
                    articolata come è utile a noi, e non in puro ossequio 
                    ai grandi centri di potere locale. In fondo il capitalismo 
                    trova documenti di cittadinanza e la propria specifica facciata 
                    multinazionale in Messico, senza che sia necessario che un 
                    agente esterno gli dia vita, impulso e spinta. Le considerazioni 
                    di questo tipo ci consentono di rendere comune, con una certezza 
                    quasi assoluta, la convinzione che i responsabili della situazione 
                    non sono solo i politici venduti e i loro seguaci corrotti, 
                    ma che esistono anche certi strati sociali che si sforzano 
                    in ogni modo di conservare lo status quo. Ciò potrebbe 
                    portarci a condividere definizioni più segnatamente 
                    anticapitaliste, antistatalista e antiburocratiche che forse 
                    l’EZLN ha già espresso al suo interno ma che 
                    non ha ancora reso del tutto esplicite. 
                    Vorremmo ragionare in modo fraterno su una frase della VI 
                    Dichiarazione, alla quale attribuiamo una particolare importanza 
                    e che mette in luce una delle caratteristiche distintive dell’EZLN: 
                    “è che sopra la parte politica democratica comanda 
                    e sotto la parte militare obbedisce. O forse sarebbe meglio 
                    che niente sia sotto ma che tutto sia allo stesso livello, 
                    senza parte militare, per questo gli zapatisti sono soldati, 
                    affinché non ci siano più soldati”. 
                    Davvero, se tutto fosse allo “stesso livello” 
                    nessuno comanderebbe e nessuno obbedirebbe, ma ognuno agirebbe 
                    secondo le proprie convinzioni, le proprie possibilità 
                    e il proprio coinvolgimento rispetto agli accordi liberamente 
                    accettati. 
                    E noi diremmo che è un rischio e un paradosso questo 
                    avere soldati per non averne più, perché allora 
                    (che pasticcio di parole!) avremmo sempre bisogno di soldati 
                    perché non ce ne siano più… Sembra molto 
                    meglio, più diretto e più chiaro dire che siamo 
                    antimilitaristi e poi metterci davvero all’opera, in 
                    modo totale e senza tante riserve, per la dissoluzione di 
                    tutti gli eserciti. 
                    Ci piacerebbe discutere più in dettaglio con i nostri 
                    compagni della selva Lacandona i motivi che ci entusiasmano 
                    all’idea di riunire tutti i movimenti messicani in una 
                    vasta rete e senza esclusioni. Ma anche in questo caso vorremmo 
                    mantenere una rispettosa divergenza riguardo a un modo di 
                    procedere che forse non è il migliore. 
                    Noi riteniamo che questa rete non debba avere un centro e 
                    proprio per questo, l’EZLN non debba attribuirsi il 
                    ruolo di coordinamento iniziale, assegnando a se stesso la 
                    gestione di un dialogo i cui partecipanti sono stati preventivamente 
                    classificati e incontrati in base alle disposizioni relative 
                    alle date, al luogo e all’ordine del giorno stabiliti 
                    dal CCRI. Sarebbe stato senz’altro meglio che le date 
                    risultassero da una precedente e ampia consultazione, che 
                    il luogo fosse equidistante e che l’ordine del giorno 
                    iniziale altro non fosse che il libero fluire dell’irrevocabile 
                    voce popolare. Forse non c’è motivo per diffidare 
                    delle intenzioni e credere che questo incontro sia solo dovuto 
                    alle necessità di fondo e che ci saranno tante occasioni 
                    in futuro per fare andare le cose in modo diverso. 
                  
                  Cartina del Chiapas
                   
 
                    Cuba: tanto vicina al Chiapas, 
                    tanto lontana dall’EZLN  
                  Vorremmo esporre queste e molte altre questioni, ma per il 
                    momento ci sembra opportuno non porre domande. C’è 
                    però una questione che non possiamo evitare stavolta 
                    e che, come movimento libertario cubano, ci interessa in modo 
                    particolare e diretto. Ci pare gran cosa che l’EZLN 
                    esprima la propria solidarietà con i popoli in lotta 
                    in America Latina e nel mondo e possiamo esprimerci anche 
                    noi nello stesso modo. 
                    E dal momento che di lotte popolari ce ne sono in tutto il 
                    mondo, pensiamo che moltissimi possano essere i destinatari 
                    della solidarietà dell’EZLN. Non è chiaro, 
                    infatti, il meccanismo ideologico e politico in base al quale 
                    i popoli del mondo sono “non localizzabili” mentre 
                    il popolo cubano può trovare la propria sede, la propria 
                    residenza naturale e la propria residenza legittima nell’ambasciata 
                    del suo governo a Città del Messico. 
                    Viste in questo modo le cose, è come se l’EZLN 
                    bloccasse tutti i suoi concetti, la sua pratica, tutto quello 
                    che ha appreso, nel momento stesso in cui approda a Cuba. 
                    Che legame naturale e coerente può esserci tra la piattaforma 
                    che cerca di esaltare il tessuto sociale messicano attraverso 
                    i suoi movimenti di base, e un’altra che presume che 
                    il corrispettivo cubano sia completamente assorbito dal governo? 
                    L’EZLN crede inoltre che il governo cubano rappresenti 
                    un modello per la nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana 
                    o è disposto ad esserne partecipe, perfino come un 
                    discreto compagno di viaggio? Pensa di dover fare in Messico 
                    quello che il partito “comunista” cubano ha fatto 
                    a Cuba? Ritiene contraddittorio e non conseguente coniugare 
                    l’autonomia delle comunità di base con un regime 
                    centralistico ed escludente? Pensa che il popolo cubano possa 
                    esprimersi liberamente con organizzazioni autonome la cui 
                    comparsa il governo cubano cerca di prevenire in modo attento 
                    e sistematico con una repressione preventiva? Che risposte, 
                    insomma, dà l’EZLN a queste serie domande? 
                    L’EZLN non può poi ignorare o dimenticare che 
                    da quattro lunghi decenni il governo cubano e quello messicano 
                    intrattengono relazioni fraterne. Uno dei momenti più 
                    “felici” di tale rapporto si può riscontrare 
                    nel silenzio complice del governo cubano riguardo al massacro 
                    di Tlatelolco nel 1968, con l’invio di atleti alle Olimpiadi 
                    immediatamente successive, nonostante l’appello a boicottare 
                    i Giochi lanciato dalla sinistra messicana. C’è 
                    un rapporto fraterno tra i due Stati che non si fatica a personificare 
                    nell’amicizia tra Fidel Castro e Carlos Salinas de Gortari, 
                    parte del cui patrimonio (accumulato grazie allo sfruttamento 
                    dei lavoratori messicani) è oggi investito in territorio 
                    cubano. 
                    Con questi antecedenti e molti altri di non diversa natura, 
                    l’EZLN non dovrebbe avere difficoltà a verificare 
                    come per l’élite al potere a Cuba l’asse 
                    delle relazioni internazionali non consista nelle lotte popolari 
                    ma come queste lotte siano reinterpretate a piacere secondo 
                    il tipo di rapporti che il partito che ha il monopolio del 
                    potere decide di avere con gli altri governi, se e quando 
                    questi decidono di dare un po’ di ossigeno alla sua 
                    sopravvivenza. 
                    Come si può spiegare, se no, che la diplomazia cubana 
                    abbia sostenuto le lotte contro l’apartheid in Sud Africa 
                    e abbia anche manifestato un’estrema solidarietà 
                    con il regime di Suharto in Indonesia, che attuava una politica 
                    di apartheid a Timor Est? Che coerenza c’è a 
                    sottoscrivere il diritto dei popoli africani di decidere il 
                    proprio destino e nello stesso tempo a mandare truppe di occupazione 
                    contro i combattenti per l’indipendenza dell’Eritrea, 
                    assecondando le esigenze del gioco di scacchi sovietico, o 
                    in un modo praticamente spregevole, addestrando la scorta 
                    militare di Idi Amin? Che giustificazioni offre il governo 
                    cubano per aver inviato un suo vicepresidente al forum di 
                    Davos e poi aver mandato il presidente dell’Assemblea 
                    Nazionale a Porto Alegre per protestare contro quello stesso 
                    forum? Come può essere che il razzismo sia stato condannato 
                    con tanto vigore alla conferenza mondiale dell’ONU a 
                    Durban che affrontava questa piaga e poi si sia opposto un 
                    rifiuto a tutti gli inviti ad analizzare le ragioni per cui 
                    le carceri cubane sono piene di neri? E si potrebbe continuare, 
                    assecondando la curiosità critica di chiunque. 
                    A proposito: è proprio necessario ricordare all’EZLN 
                    quali sono le condizioni di vita del popolo cubano e l’assoluta 
                    impossibilità di auto-organizzarsi autonomamente e 
                    perfino di esprimersi per affrontare questa situazione ? Pensiamo 
                    che in questo momento sia inutile qualsiasi riferimento concreto 
                    e vogliamo credere che la menzione dell’ambasciata del 
                    governo cubano di Città del Messico sia stata solo 
                    un errore; una svista che si potrà correggere alla 
                    prima occasione. Ribadiamolo e teniamo presente d’ora 
                    in poi: ciò che conta è la formazione, il profilo 
                    e l’orientamento di una costellazione di gruppi ribelli 
                    e di pratiche di ribellione, che oggi trova le condizioni 
                    per alimentare la nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana. 
                    
                    In quest’opera di creazione non può esserci trascuratezza, 
                    superficialità e non c’è posto per le 
                    frasi gentili. A tale opera il governo cubano non ha nessun 
                    contributo da dare, perché gli unici messaggi genuini 
                    che ci faranno avanzare sulla strada della libertà 
                    non usciranno dagli uffici della burocrazia dell’Avana, 
                    ma dagli scontri e dai tumulti che sorgono dal basso e che 
                    lì troveranno i loro echi inconfondibili. 
                    È così con i “fuorilegge” ecuadoriani, 
                    i resistenti Mapuche, gli irrigatori di Cochabamba, le fabbriche 
                    occupate in Argentina, le occupazioni di terre in Brasile 
                    e ovviamente con le esperienze e le prove che avvengono oggi 
                    nella selva Lacandona.