rivista anarchica
anno 35 n. 312
novembre 2005


America Latina

Una rete senza centro
del Movimiento Libertario Cubano

 

Riflessioni critiche a proposito della VI Dichiarazione dalla Selva Lacandona e della nuova sinistra latinoamericana. Con un richiamo alle ambiguità sul castrismo.


Il MLC – Movimiento Libertario Cubano – presenta alla discussione collettiva le proprie riflessioni sulle dichiarazione dell’EZLN presentate nel luglio 2005 nello stato del Chiapas, Messico.

Il 1° gennaio 1994 era entrato in vigore il NAFTA, l’accordo sul libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico e nel corso di quell’anno, guastando i piani dei potenti, dalle profondità dimenticate della selva Lacandona erano entrate in scena anche “la fiamma e la parola” dei ribelli zapatisti. Fino a quel momento tutto il mondo pareva procedere senza manifestare una forte opposizione o ribellione nei confronti della “fine della Storia” e lo faceva con la “globalizzazione” e il neoliberismo, ovvero (per non dimenticare e supporre erroneamente che quelle parole spieghino tutto) con l’attuale modello egemonico adottato dal sistema di controllo dello Stato e del capitalismo transnazionale. In altri termini i modelli oggi prevalenti di dominio e di sfruttamento su larga scala. In un contesto tanto disperante, l’irruzione dello zapatismo rappresentava una ventata di aria fresca e una fragorosa conferma (certo anticipata da molti se pur meno vistosi atti di resistenza in tutto il mondo) del fatto che la Storia continuava il suo corso e che non c’era niente che avesse messo fine alle lotte popolari. Così gridavano fin dall’inizio i gruppi di sinistra di vario colore e così fu anche accolto dal Movimento Libertario Cubano che allora diede il proprio sostegno ai progetti comunitari nella selva Lacandona, come la scuola antiautoritaria “1° Maggio” o il campo di solidarietà diretta “Martiri di Chicago”.
Per noi, allora come oggi, la nascita e lo sviluppo dell’Esercito Nazionale di Liberazione Zapatista e le sue azioni avevano il significato e imponevano una nuova prospettiva in quanto parte della nascita e dello sviluppo di una nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana. La forma, il profilo e gli orientamenti di quella costellazione di gruppi e di pratiche di sinistra rappresentano uno dei nostri temi di fondo. Per questo è per noi necessario, all’interno di quel quadro di riferimento, prendere posizione sulla strada imboccata dall’EZLN e sulla sua recente VI Dichiarazione dalla selva Lacandona, nonché sulla sua applicazione e sulle sue implicazioni. Lo faremo con la solidarietà e il rispetto che il movimento zapatista si è conquistato per i suoi meriti, che non è qui necessario ribadire, ma anche senza tralasciare le critiche (cosa che sarebbe un’inconcepibile dimostrazione di demagogia e di opportunismo) che giudichiamo vadano portate come contributo al lento e faticoso processo di consolidamento della sinistra rivoluzionaria in America Latina.

Logo dell’EZLN (Ejército Zapatista de Liberación Nacional)

Quale sinistra e dove la troviamo?

Partiamo dall’inizio e facciamoci la domanda delle domande: che cos’è questa nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana di cui parliamo? Per cominciare, non c’è dubbio che sia quella che non ha rinunciato all’utopia né nelle parole né nei fatti e che, malgrado tutto, trova il suo principale incoraggiamento in quell’utopia che si potrebbe genericamente definire una fitta rete di relazioni tra soggetti liberi, uguali e che si sostengono a vicenda; un’utopia capace di scoprire i propri lontani e rispettabili esordi e di rivendicarne la loro indispensabile attualizzazione.
Quella sinistra, che si alimenta non solo grazie alla propria crescita, ma che prende forza anche dal vuoto altrui, che si sviluppa all’interno di quello spazio vuoto e disperato prodotto dai fragorosi fallimenti del “socialismo reale” e dell’immediato fiasco dell’anti-utopia neoliberale. È quella sinistra che ha imparato a riconoscere e a guardare con sospetto lo stretto e arido sentiero lasciato dalle avanguardie della guerriglia che poi si sono trasformate in partito esclusivo ed escludente, prendendo la via di un populismo civile o militare e del riformismo socialdemocratico; è quella sinistra che non si sente rappresentata da nessuna autorità e anzi s’interroga sul significato della “rappresentanza”, che si cerca tra le urla di “mandateli via tutti!” e la sussurrante promessa di “cambiare il mondo senza prendere il potere”; la sinistra che si basa sull’autonomia non negoziabile di movimenti sociali di base che servono da modello per un nuovo mondo e che trovano la propria più vera espressione nell’autogestione e nell’azione diretta.
Una sinistra cui certamente l’EZLN vuole appartenere e che, in aperta reciprocità, trova nel movimento zapatista una delle sue più vistose espressioni.
Ordunque, né questa nuova sinistra né l’EZLN sono strutture finite, che rispondono a un progetto ampio e rigoroso di costruzione, ma vanno pensate come opere in corso di edificazione, qua e là segnate dagli inevitabili dubbi e dalle innovazioni nate dall’esigenza di pratiche immediatamente antagonistiche. Per esempio, l’EZLN ha ragion d’essere in quanto movimento di guerriglia in transizione. Le sue origini sono più o meno marcate dai parametri tipici dei gruppi di lotta armata degli anni sessanta e settanta: “liberazione nazionale” come concetto che li informa, l’orgoglio di sentirsi un esercito e di autoproclamarsi tale, la mistica dei “comandanti”, certe reminiscenze simboliche e così via.
Sono riferimenti non proprio positivi e nei confronti dei quali non pare che l’EZLN abbia compiuto una critica approfondita. Le sue azioni l’hanno indotto ad adottare un profilo che non corrisponde più al vecchio modello. Non solo perché la “guerra di liberazione” in senso classico è durata appena dodici giorni, ma anche perché già il 1° gennaio 1996 (la IV Dichiarazione) l’EZLN ci ha dato la lieta sorpresa di annunciare la formazione di “una forza politica che non è un partito politico”, affermando di non aspirare alla presa del potere.
Per dirla con parole nostre: non la vecchia avanguardia guerrigliera e nemmeno il riformismo socialdemocratico. Neppure (a maggior ragione) gli idoli della redenzione populista che si troverebbero fuori posto tra gli eventi anonimi e quotidiani della selva Lacandona.
Quello che allora cominciava ad acquistare il massimo rilievo è appunto ciò che ci interessa di mettere in evidenza, in quanto tappa fondamentale della nuova sinistra latinoamericana: l’autonomia di movimenti sociali di base, un’autonomia che, all’interno della sfera d’azione dell’EZLN nel Chiapas, è quella delle comunità delle popolazioni autoctone.

Passi avanti e indietro del movimento zapatista

Lungo la complessa traiettoria dell’EZLN sono state presenti fin dall’inizio luci e ombre. Volendo legittimamente estendere il raggio d’azione e proiettare la lotta su tutto lo Stato messicano, l’EZLN si è messo a braccetto delle istituzioni dominanti con le quali ha stabilito una certa familiarità, mentre espandeva e consolidava la propria autonomia nella regione. Mentre quelle relazioni hanno solo prodotto riconoscimenti indiretti, accordi non rispettati, ritardi e fallimenti, il rafforzamento dell’autonomia, invece, rendeva più salda la sua presa e la sua sfera d’influenza immediata.
E, proprio come le une portavano alla formazione episodica di ampie sovrastrutture politiche che, più o meno volontariamente, erano affidate alla dinamica dello Stato e del suo implicito raggio d'azione e che poi finivano intrappolate nelle sue mascelle d’acciaio (Convenzione democratica nazionale, Movimento di liberazione nazionale, Comitati di Concordia e Pacificazione, ecc.), l’altro favoriva, a partire dall’agosto 2003, l’emergere di un’ampia partecipazione da parte delle comunità zapatiste e una ridefinizione, forse positiva, da parte dell’EZLN, che ora punta (anche se mai in modo assoluto né del tutto convinto) non a fare il primo violino ma un’azione più modesta di accompagnamento.
Questo modo alternativo di pensare la politica e le sue più recenti azioni ha permesso la formazione delle cinque regioni autonome del Chiapas e di quelli che sono stati battezzati (non molto bene) i “consigli di buon governo”. È un rimescolamento dei ruoli ben lontano dall’essersi concluso e ha molti aspetti che riguardano le discussioni e i problemi della nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana. Sono luci e ombre con le quali l’EZLN ha messo in evidenza la fusione, senza un piano preordinato, di elementi vecchi e nuovi e che combinano (in modo tipico di un movimento in transizione, come abbiamo detto) certe pratiche delle formazioni convenzionali della guerriglia alle indispensabili sfide portate avanti dalle organizzazioni di base che rivendicano una propria autonomia. Questa alternanza di luci e di ombre non può non incidere sulla VI Dichiarazione e sull’“altra campagna”: è un fatto che dobbiamo affrontare immediatamente.
È opportuno iniziare in modo corretto e conseguente: se c’è qualcosa che l’EZLN ha espresso in modo del tutto chiaro nella sua VI Dichiarazione è che si sente ingannato e che i principali responsabili del fiasco sono i partiti politici istituzionali, con i loro capi in primo piano. Il modo con sui si esprime la dichiarazione lascia ben poco spazio a esegesi troppo complesse e involute: “I politici hanno dimostrato con chiarezza di non avere pudore e di non essere che un gruppo di malfattori che pensa solo ad accumulare soldi a palate, da quei cattivi governanti che sono.
Lo dobbiamo tenere a mente, perché vedrete che adesso arriveranno a dire che riconosceranno i diritti degli indigeni, ma questa è una bugia che ci raccontano perché vogliono i nostri voti; ma hanno già avuto la loro occasione e l’hanno mancata.” Occasioni e fallimenti che (va detto con la massima chiarezza) si ripresentano nella storia della democrazia “rappresentativa” di ogni paese e si possono riunire, ognuna con le proprie caratteristiche, in un ipotetico racconto dell’infamia universale. Stando così le cose, è bene che l’EZLN voglia lasciar fuori dalle sue aspettative, una volta per tutte, il sistema istituzionale dei partiti, voglia tracciare una netta linea di demarcazione in questo senso e rivolgere il proprio messaggio in un’altra direzione: “Un nuovo passo avanti nella lotta indigena è possibile solo se gli indigeni si uniscono agli operai, ai contadini, agli studenti, agli insegnanti, agli impiegati… cioè ai lavoratori delle città e delle campagne.”
In altri termini, una maggiore apertura e un allargamento della composizione sociale del movimento di resistenza: “In questa globalizzazione della ribellione compaiono non solo i lavoratori delle città e delle campagne, ma anche altri che sono perseguitati e disprezzati proprio perché non si lasciano dominare: sono donne, giovani, popolazioni indigene, omosessuali, lesbiche, transessuali, emigranti, e molti altri gruppi che esistono in ogni parte del mondo ma che non vediamo o sentiamo finché non fanno sentire la loro voce con tanta forza e si ribellano. Allora li vediamo e li sentiamo e impariamo da loro.”. Una rete di oppressione, di esclusione e sofferenza sembra essere al fondo delle aspirazioni e dei desideri dell’EZLN, e forse è possibile avvertire le pulsazioni della selva Lacandona dietro e sotto queste parole che, nonostante siano intenzionalmente semplici, hanno un significato profondo e prezioso.
Si può essere d’accordo con queste prospettive immediate praticamente in tutto: l’articolazione più o meno stabile di questi movimenti di resistenza dietro a un programma di sinistra di lotte e l’avvio collettivo di “una campagna nazionale per realizzare un altro modo di fare politica”.
Un altro modo di fare politica: dovrebbe intendersi come del tutto diverso da quello sviluppato in un modo svergognatamente spregevole dai partiti elettorali, sempre presi nella successione ritmica e spasmodica di promesse allettanti, amnesie indefinibili e giustificazioni opportunistiche.
Ecco qui, per esempio, un nuovo attacco zapatista: “Quei partiti politici non solo non difendono, ma sono i primi a mettersi al servizio degli stranieri, soprattutto degli Stati Uniti, e sono quelli che c’ingannano, distolgono il nostro sguardo mentre svendono ogni cosa e s’intascano i soldi.”.
Sono questi giudizi irrefutabili, che la VI Dichiarazione estende anche, con qualche sfumatura, ai movimenti sindacali burocratici e disfattisti: “Se i lavoratori fossero nel loro sindacato e rivendicassero i propri diritti, allora no, proprio ora il sindacato dice loro di stare tranquilli e di accettare un salario più basso, un orario ridotto o minori previdenze, altrimenti la ditta chiuderebbe e si sposterebbe in un altro paese.”
Un altro modo di fare politica, riguardo al quale non molto è specificato, ma che deve sicuramente essere inteso come una scelta di democrazia diretta in contrapposizione alle “rappresentanze” gerarchiche e cristallizzate; una scelta di partecipazione attiva e popolare con tutto il suo potenziale, in contrapposizione all’esclusione sistematica che ha sempre avvantaggiato i tecnocrati e i superspecialisti; una scelta di schiettezza, di dialogo tra uguali, di elaborazione comune di sogni condivisi da tutti, in contrapposizione alla fiera delle vanità, insensibile e assurda, dove vigono la dissimulazione e la menzogna. La Dichiarazione non lo dice, ma queste cose possono essere implicite, tanto più che sembrano rappresentare la via autentica per la formazione e lo sviluppo delle comunità indigene zapatiste, tratti essenziali della loro esistenza e del loro consolidamento.

Logo del Movimiento Libertario Cubano

Cambio costituzionale: strada senza uscita

È un bene che non ci siano molte definizioni o un programma dettagliato e soffocante da sottoscrivere, perché la loro presenza costituirebbe più un invito ad aderire che a dialogare; i movimenti di base della società messicana sarebbero considerati più un pubblico passivo o un contenitore da riempire che un tessuto attivo e vivace, in grado di produrre il proprio fuoco e le proprie parole.
Ciò nonostante, c’è un unico elemento programmatico che l’EZLN pare assumere in modo assiomatico e accettare tacitamente, un elemento che può essere causa di errori di prospettiva e di diversi abbagli strategici: “una nuova Costituzione”. Sarebbe questo un modo ellittico per riferirsi alla base costituente di una nuova società messicana, quindi con la convinzione che questa necessiti né più né meno di un sovvertimento radicale dei rapporti di potere? O magari è un tentativo di coinvolgere i movimenti sociali autonomi in una riforma costituzionale convenzionale, con transazioni e regole del gioco prestabilite insieme alle norme in vigore e, in quanto tale, soggetta fin dall’inizio agli stessi e immutati rapporti di potere?
In apparenza sembrerebbe che l’EZLN coltivi un’idea nostalgica della Costituzione messicana, idea che non regge a un’analisi approfondita. Vediamo: “La Costituzione è stata viziata e modificata. Non è più quella che conteneva i diritti e le libertà del popolo lavoratore, ma adesso assicura ai neo-liberali i diritti e le libertà di accumulare colossali profitti. I giudici sono lì al loro servizio, perché decidono sempre a loro favore, e a chi non è ricco spettano solo ingiustizia, carcere e cimitero”.
Ma il Messico ha forse mai avuto una costituzione che sancisse davvero, senza se e senza ma e nella forma più ampia, “le libertà del popolo lavoratore?” Un ragionamento di questo tipo potrebbe magari indurre a convincersi che l’EZLN abbia perfettamente inteso le articolazioni di potere che caratterizzano i partiti politici dello Stato, ma non abbia ancora colto quelle che caratterizzano lo Stato in sé. Comunque, non c’è nessun mistero in questo e lo si può dire in modo semplicissimo, parafrasando Marcos: i partiti sono quelli che sono perché lo Stato è quello che è.
Un fatto che resta indiscutibile è che lo Stato è una struttura specifica di dominio, una forma gerarchica e codificata delle relazioni sociali di potere e un sistema studiato per autoperpetuarsi. Stando così le cose, la definizione corretta che l’EZLN fornisce del sistema dei partiti nello Stato non può trovare spiegazione nella cattiva volontà, nel carattere perverso o nella venalità dei leader, ma deve recuperare una parte sostanziale del ragionamento nel fatto che i partiti stabiliscono il proprio orientamento di fondo come un’attività per prendere in mano le redini dello Stato.
Proprio a causa di questo essi adottano una forma che ricalca fedelmente quella dello Stato nelle proprie attività; per questo si costituiscono come istanze di controllo e di disciplina dei propri affiliati; per questo assegnano attributi di rispetto a ognuno degli organismi della loro esistenza piramidale; per questo sono convinti che la loro sopravvivenza, al di là di qualsiasi considerazione storica e sociale, debba essere vista dagli “elettori” (i propri e quelli degli altri partiti) come una benedizione del cielo. Noi anarchici ne siamo del tutto convinti da più di centotrent’anni e la successiva esperienza storica non ha fatto che confermare quelle antiche intuizioni e l’ha fatto senza offrire in tutto questo tempo nemmeno un’eccezione ai nostri occhi ansiosi e pieni di speranza.
Anzi, se in passato si poteva parlare di “potere che corrompe”, oggi è possibile dire che perfino l’aspirazione al potere corrompe, in anticipo e in modo abbondante.
In questo dobbiamo essere chiari e coerenti. Come si riconcilia l’EZLN che afferma : “Noi lottiamo per essere liberi, non per dover cambiare padrone ogni sei anni”, con l’EZLN che parla di una “nuova Costituzione”? Forse è possibile mettere d'accordo la lotta per la libertà e una Magna Carta negoziata e messa insieme per necessità dall’organizzazione nello stato attuale, secondo il senso tradizionale del termine? Sembrerebbe di no, e sembrerebbe anche che l’orientamento giusto sia proprio quello opposto: la lotta per la libertà comincia dalla formazione autonoma di movimenti di base e si sviluppa al loro interno, mentre la ricerca negoziale di una nuova Costituzione è condannata a impantanarsi nel labirinto tortuoso dello Stato e delle sue infinite macchinazioni.
Una conclusione del genere non ha bisogno di uno studio erudito di politica comparata, basta e avanza l’esperienza dell’EZLN in queste faccende. Il rifiuto fondamentale e radicale del sistema statale dei partiti è un passo teorico importante, che richiede soltanto di essere integrato dal rifiuto della strada stretta dello Stato e che apre un transito senza restrizioni, vincoli e deviazioni lungo la fertile strada dell’autonomia.
L’autonomia dei movimenti sociali, posta all’interno del quadro di azioni sul territorio che essi decidono di darsi, è la condizione libertaria per eccellenza: un’autonomia che richiede emancipazione da un potere onnisciente, esterno e superiore, perché ogni collettivo progetti, con i margini di libertà più ampi possibile, le proprie relazioni di vita e i propri ricorsi all’azione; senza condizioni o estorsioni, pensando a sé e al proprio divenire, confidando nelle proprie capacità e non nella predestinazione, nei messia, nelle dottrine, nelle cospirazioni o nel caso, che, lo sappiamo, non hanno mai portato e non porteranno mai da nessuna parte.
Noi tutti potremmo “avanzare interrogando” e “comandare ubbidendo”. Ci sono molte altre cose che si potrebbero dire in solidarietà con l’EZLN a proposito della sua VI Dichiarazione o, meglio ancora, con tutte le comunità zapatiste e, in generale, riguardo alla vita e alle lotte dei popoli.
Ci piacerebbe, per esempio, andare un po’ più a fondo a proposito della globalizzazione e del neoliberismo, in modo che tra tutti noi sia possibile disegnare un mappamondo che non sia riproducibile solo in bianco e nero, per scoprire come in questa arena non ci siano solo due gladiatori e come sia necessario individuare tutta la gamma di relazioni locali articolata come è utile a noi, e non in puro ossequio ai grandi centri di potere locale. In fondo il capitalismo trova documenti di cittadinanza e la propria specifica facciata multinazionale in Messico, senza che sia necessario che un agente esterno gli dia vita, impulso e spinta. Le considerazioni di questo tipo ci consentono di rendere comune, con una certezza quasi assoluta, la convinzione che i responsabili della situazione non sono solo i politici venduti e i loro seguaci corrotti, ma che esistono anche certi strati sociali che si sforzano in ogni modo di conservare lo status quo. Ciò potrebbe portarci a condividere definizioni più segnatamente anticapitaliste, antistatalista e antiburocratiche che forse l’EZLN ha già espresso al suo interno ma che non ha ancora reso del tutto esplicite.
Vorremmo ragionare in modo fraterno su una frase della VI Dichiarazione, alla quale attribuiamo una particolare importanza e che mette in luce una delle caratteristiche distintive dell’EZLN: “è che sopra la parte politica democratica comanda e sotto la parte militare obbedisce. O forse sarebbe meglio che niente sia sotto ma che tutto sia allo stesso livello, senza parte militare, per questo gli zapatisti sono soldati, affinché non ci siano più soldati”.
Davvero, se tutto fosse allo “stesso livello” nessuno comanderebbe e nessuno obbedirebbe, ma ognuno agirebbe secondo le proprie convinzioni, le proprie possibilità e il proprio coinvolgimento rispetto agli accordi liberamente accettati.
E noi diremmo che è un rischio e un paradosso questo avere soldati per non averne più, perché allora (che pasticcio di parole!) avremmo sempre bisogno di soldati perché non ce ne siano più… Sembra molto meglio, più diretto e più chiaro dire che siamo antimilitaristi e poi metterci davvero all’opera, in modo totale e senza tante riserve, per la dissoluzione di tutti gli eserciti.
Ci piacerebbe discutere più in dettaglio con i nostri compagni della selva Lacandona i motivi che ci entusiasmano all’idea di riunire tutti i movimenti messicani in una vasta rete e senza esclusioni. Ma anche in questo caso vorremmo mantenere una rispettosa divergenza riguardo a un modo di procedere che forse non è il migliore.
Noi riteniamo che questa rete non debba avere un centro e proprio per questo, l’EZLN non debba attribuirsi il ruolo di coordinamento iniziale, assegnando a se stesso la gestione di un dialogo i cui partecipanti sono stati preventivamente classificati e incontrati in base alle disposizioni relative alle date, al luogo e all’ordine del giorno stabiliti dal CCRI. Sarebbe stato senz’altro meglio che le date risultassero da una precedente e ampia consultazione, che il luogo fosse equidistante e che l’ordine del giorno iniziale altro non fosse che il libero fluire dell’irrevocabile voce popolare. Forse non c’è motivo per diffidare delle intenzioni e credere che questo incontro sia solo dovuto alle necessità di fondo e che ci saranno tante occasioni in futuro per fare andare le cose in modo diverso.

Cartina del Chiapas

Cuba: tanto vicina al Chiapas, tanto lontana dall’EZLN

Vorremmo esporre queste e molte altre questioni, ma per il momento ci sembra opportuno non porre domande. C’è però una questione che non possiamo evitare stavolta e che, come movimento libertario cubano, ci interessa in modo particolare e diretto. Ci pare gran cosa che l’EZLN esprima la propria solidarietà con i popoli in lotta in America Latina e nel mondo e possiamo esprimerci anche noi nello stesso modo.
E dal momento che di lotte popolari ce ne sono in tutto il mondo, pensiamo che moltissimi possano essere i destinatari della solidarietà dell’EZLN. Non è chiaro, infatti, il meccanismo ideologico e politico in base al quale i popoli del mondo sono “non localizzabili” mentre il popolo cubano può trovare la propria sede, la propria residenza naturale e la propria residenza legittima nell’ambasciata del suo governo a Città del Messico.
Viste in questo modo le cose, è come se l’EZLN bloccasse tutti i suoi concetti, la sua pratica, tutto quello che ha appreso, nel momento stesso in cui approda a Cuba. Che legame naturale e coerente può esserci tra la piattaforma che cerca di esaltare il tessuto sociale messicano attraverso i suoi movimenti di base, e un’altra che presume che il corrispettivo cubano sia completamente assorbito dal governo? L’EZLN crede inoltre che il governo cubano rappresenti un modello per la nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana o è disposto ad esserne partecipe, perfino come un discreto compagno di viaggio? Pensa di dover fare in Messico quello che il partito “comunista” cubano ha fatto a Cuba? Ritiene contraddittorio e non conseguente coniugare l’autonomia delle comunità di base con un regime centralistico ed escludente? Pensa che il popolo cubano possa esprimersi liberamente con organizzazioni autonome la cui comparsa il governo cubano cerca di prevenire in modo attento e sistematico con una repressione preventiva? Che risposte, insomma, dà l’EZLN a queste serie domande?
L’EZLN non può poi ignorare o dimenticare che da quattro lunghi decenni il governo cubano e quello messicano intrattengono relazioni fraterne. Uno dei momenti più “felici” di tale rapporto si può riscontrare nel silenzio complice del governo cubano riguardo al massacro di Tlatelolco nel 1968, con l’invio di atleti alle Olimpiadi immediatamente successive, nonostante l’appello a boicottare i Giochi lanciato dalla sinistra messicana. C’è un rapporto fraterno tra i due Stati che non si fatica a personificare nell’amicizia tra Fidel Castro e Carlos Salinas de Gortari, parte del cui patrimonio (accumulato grazie allo sfruttamento dei lavoratori messicani) è oggi investito in territorio cubano.
Con questi antecedenti e molti altri di non diversa natura, l’EZLN non dovrebbe avere difficoltà a verificare come per l’élite al potere a Cuba l’asse delle relazioni internazionali non consista nelle lotte popolari ma come queste lotte siano reinterpretate a piacere secondo il tipo di rapporti che il partito che ha il monopolio del potere decide di avere con gli altri governi, se e quando questi decidono di dare un po’ di ossigeno alla sua sopravvivenza.
Come si può spiegare, se no, che la diplomazia cubana abbia sostenuto le lotte contro l’apartheid in Sud Africa e abbia anche manifestato un’estrema solidarietà con il regime di Suharto in Indonesia, che attuava una politica di apartheid a Timor Est? Che coerenza c’è a sottoscrivere il diritto dei popoli africani di decidere il proprio destino e nello stesso tempo a mandare truppe di occupazione contro i combattenti per l’indipendenza dell’Eritrea, assecondando le esigenze del gioco di scacchi sovietico, o in un modo praticamente spregevole, addestrando la scorta militare di Idi Amin? Che giustificazioni offre il governo cubano per aver inviato un suo vicepresidente al forum di Davos e poi aver mandato il presidente dell’Assemblea Nazionale a Porto Alegre per protestare contro quello stesso forum? Come può essere che il razzismo sia stato condannato con tanto vigore alla conferenza mondiale dell’ONU a Durban che affrontava questa piaga e poi si sia opposto un rifiuto a tutti gli inviti ad analizzare le ragioni per cui le carceri cubane sono piene di neri? E si potrebbe continuare, assecondando la curiosità critica di chiunque.
A proposito: è proprio necessario ricordare all’EZLN quali sono le condizioni di vita del popolo cubano e l’assoluta impossibilità di auto-organizzarsi autonomamente e perfino di esprimersi per affrontare questa situazione ? Pensiamo che in questo momento sia inutile qualsiasi riferimento concreto e vogliamo credere che la menzione dell’ambasciata del governo cubano di Città del Messico sia stata solo un errore; una svista che si potrà correggere alla prima occasione. Ribadiamolo e teniamo presente d’ora in poi: ciò che conta è la formazione, il profilo e l’orientamento di una costellazione di gruppi ribelli e di pratiche di ribellione, che oggi trova le condizioni per alimentare la nuova sinistra rivoluzionaria latinoamericana.
In quest’opera di creazione non può esserci trascuratezza, superficialità e non c’è posto per le frasi gentili. A tale opera il governo cubano non ha nessun contributo da dare, perché gli unici messaggi genuini che ci faranno avanzare sulla strada della libertà non usciranno dagli uffici della burocrazia dell’Avana, ma dagli scontri e dai tumulti che sorgono dal basso e che lì troveranno i loro echi inconfondibili.
È così con i “fuorilegge” ecuadoriani, i resistenti Mapuche, gli irrigatori di Cochabamba, le fabbriche occupate in Argentina, le occupazioni di terre in Brasile e ovviamente con le esperienze e le prove che avvengono oggi nella selva Lacandona.

Movimiento Libertario Cubano
movimientolibertariocubano@yahoo.com.mx
www.movimientolibertariocubano.org

traduzione dal castigliano di Guido Lagomarsino