rivista anarchica
anno 35 n. 308
maggio 2005


Karol Wojtila

Il diluvio di Roma
di Maria Matteo

 

Un coro unanime e assordante. La nostra piccola voce dissenziente.


Era l’antivigilia dei funerali di Karol Wojtila. Un compagno romano, sentito casualmente al telefono, inarrestabile come un fiume in piena mi ha trasmesso la sindrome da soffocamento provata lavorando a pochi metri dalle interminabili file di pellegrini salmodianti che attendevano sino a quindici ore il proprio turno per poter rendere omaggio alla salma del papa.
Un amico di un’amica parlava di alluvione umana, una marea di persone tra le quali, transfuga dal primo diluvio del secondo millennio, galleggiava desolata qualche auto resa inutile dal riempimento totale di ogni spazio. A far da contrappunto a queste sensazioni in presa diretta i ripetuti e sempre più allarmati sms della protezione civile che invitavano a diradare le partenze, a muoversi in gruppo, e, infine, a non muoversi affatto perché la paralisi era ormai raggiunta.
Il compagno romano poco prima della sua fuga dalla capitale mi narrava la vita all’epoca della fine della secolarizzazione con particolari degni di un medioevo da film catastrofico: l’orrendo tanfo di urina che aleggiava ovunque ne era il segno più emblematico, specie per l’indifferenza fanatica con cui i pellegrini affrontavano questa sorta di autoimposta via crucis. Mentre Roma, pur con la sapienza millenaria di chi ne ha viste di ogni colore, pareva più prostrata che ai tempi del sacco dei lanzichenecchi.
Una collega del compagno, avendo la possibilità, grazie ad un pass, di risparmiare alla madre cattolica le lunghe ore di attesa riducendole a poco più di mezz’ora, si era sentita rispondere con tono dolente che “così non vale”.
Ho avuto a questo punto chiara consapevolezza che l’omaggio al defunto, più che un gesto di reverenza verso un’autorità, era divenuto un atto penitenziale, un gigantesco lavacro collettivo. Un piccolo martirio di fronte alla salma di un papa che aveva giocato le ultime carte del suo lungo regno all’insegna della sofferenza esibita sino all’oscenità dell’estrema performance pubblica. Silente ma fragorosa l’agonia mostrata in diretta mondiale ha posto l’ultimo tassello del pontificato del primo papa polacco. Vedendo le foto, mi sono da anni risparmiata il video, ho pensato “pietà l’è morta”. Sebbene sapessi che Wojtila aveva voluto percorrere un tale cammino mi è risultato difficile non pensare che quello esibito con tanta sicumera dalle finestre vaticane era un povero vecchio dolente e un po’ rincoglionito. Sarà l’incancellabile segno lasciatomi da un umanesimo laico irriducibile alle logiche sacrificali di certo sentire religioso, ma quello che per 27 anni è stato un fiero ed irriducibile nemico della libertà, della speranza di emancipazione individuale e sociale, mi ha suscitato forte pena.
La sua immagine si è sovrapposta a quella di Terri Schiavo, la cui sofferenza si era conclusa mentre l’agonia di Wojtila entrava nella sua fase finale.

Tra dolore e santità

Una volta tanto non ho potuto che concordare con i peggiori reazionari: siamo di fronte ad uno scontro di civiltà di inaudita violenza.
Da un lato una concezione dell’umano che valorizza e salvaguarda il diritto a godere della vita nella sua pienezza, scegliendosi in piena libertà. Dall’altro un pensiero autoritario che scinde l’individuo da se stesso consegnandolo nelle mani brutali di un dio crudele, un dio che benedice la sedia elettrica dove la democrazia statunitense frigge anche i ragazzini, un dio che santifica la vita nell’icona mostruosa di un uomo torturato e morto sulla croce. Una croce che i preti di ogni tempo vorrebbero caricare sulle spalle di noi tutti. Per questo Terri Schiavo è un simbolo, il simbolo di una civiltà fondata sul dolore, sulla tortura, sull’imposizione del martirio.
La sua fine, come quella di Wojtila, ne è l’emblema macabro: carni sofferenti date in pasto alle folle, spiate dalle telecamere, monitorate nelle funzioni corporali assunte a segni dello spirito.
L’associazione tra dolore e santità, tra sacrificio ed elevazione morale, mette al centro del palcoscenico l’osceno, trasfigurando il troppo umano in oltre umano.
L’aureola di Wojtila la stanno lucidando da tempo nei sotterranei del Vaticano. Le folle accorse a Roma gliel’hanno già posta in capo. Ed ogni pellegrino era convinto di portarsene a casa un frammento, guadagnato nella lunga attesa tra immondizia e sudore nelle vie di una Roma attonita.
Quante ere geologiche sono passate da quel luglio del 1881 quando la salma di Pio IX, che attendeva da un pezzo sepoltura, venne portata semiclandestinamente a Roma, dove nonostante le precauzioni sfuggì d’un soffio alla rabbia del popolo inferocito che tentò di gettarla nel Tevere per poi riparare con una fuga precipitosa in S. Lorenzo?
Eppure l’uomo che si vuole oggi santificare a furor di popolo ha avuto nel nostro secolo un ruolo non diverso da quello che nel proprio svolse Pio IX, che alla modernità laica che avanzava si oppose con tutte le proprie forze, guadagnandosi l’odio feroce della città eterna.
Certo, contrariamente al suo predecessore, ha dimostrato la straordinaria capacità di vestire di abiti nuovi e accattivanti la vecchia paccottiglia che ha riportato in auge. Con indubbia sapienza comunicativa ha avuto parole di dialogo mentre reprimeva e cancellava ogni opposizione interna alla sua bottega. Ha sceneggiato in pubblici eventi l’incontro ecumenico che nei fatti si è adoperato a distruggere. Ha sostenuto le peggiori dittature in Cile, in Argentina e, da ultimo, a Cuba. Sempre in prima fila a difendere i diritti umani, si è ben guardato dal chiederne il rispetto ad Augusto Pinochet, il sanguinario che riceveva in udienza privata mentre nelle galere cilene gli oppositori venivano torturati a morte. Passerà alla storia come uomo di pace, ma della pace è stato sostenitore solo quando era nell’interesse della chiesa: pacifista sì in Iraq, ma guerrafondaio convinto in ex Jugoslavia. Il governo statunitense, che ha notoriamente scarsa finezza comunicativa, nel ricordarlo ha elogiato il suo pieno appoggio alla decisione USA di non ritirare i missili atomici puntati sull’impero del male. Evidentemente, il papa che “ha vinto il comunismo” non si fidava troppo del suo armamentario celeste.

Polonia, 1939. Karol Wojtila soldato

Contro donne, gay, scienza

La sua politica delle santificazioni – ha fatto più santi lui in tre decenni che i suoi predecessori in tre secoli – la dice lunga sull’atteggiamento politico di Woitjla. Sempre (prudentemente) in ginocchio per chiedere perdono di malefatte che gli “storici” al suo servizio si preoccupano nel frattempo di minimizzare (roghi di streghe ed eretici, persecuzione degli ebrei, crociate antiislamiche) ha altresì alzato agli onori degli altari alcuni dei peggiori criminali del secolo scorso. Ricordiamo Stepinaç, che benedisse gli spaventosi massacri ustascia della seconda guerra mondiale, e divenne il protettore della nuova Croazia cattolica di Franjo Tudjman in piena guerra civile adeguatamente foraggiata dal Vaticano. E come dimenticare i preti spagnoli che sparavano ai rivoluzionari durante il colpo di mano fascista del cattolicissimo Francisco Franco fatti santi in massa da Karol Wojtila?
Inutile forse rammentare i suoi interventi reazionari in materia di libertà personale ed autodeterminazione, il suo accanimento contro le donne, i gay, la ricerca scientifica.
In fondo, è bene ribadirlo, Wojtila non ha fatto che il proprio lavoro, il lavoro di un monarca assoluto a capo di un’istituzione che pretende di fondare la propria legittimità direttamente in cielo. Chi crede di incarnare la “Verità” non può che vestire di abiti nuovi la ferocia assolutista ed integralista del suo magistero. Eccellente comunicatore ma incapace di commuovere, negli ultimi anni Wojtila e la sua corte hanno coronato con un’aura di martirio la propria imponente opera di restaurazione teocratica. Che ha visto nel giorno del suo funerale un bagno di folla e l’omaggio dei potenti di mezzo mondo. Un’apoteosi.
Tutti in ginocchio di fronte al trono di Pietro i politici del nostro paese, anche quelli che per storia politica e personale si sono formati nel cono di luce di una cultura laica, che oggi è sempre più patrimonio consapevole di pochi.
I potenti della terra si asserragliano tutti dietro le insegne delle religioni, religioni che reclamano continuamente un tributo di sangue e sofferenza.
Di fronte ad una siffatta esibizione di fanatismo le ragioni laiche e di chi sa che la libertà di fare è quel che distingue la solarità carnale della vita pienamente vissuta dalle oscene piaghe di Cristo, dei tanti poveri cristi di questo mondo, dovrebbero affermarsi con la forza e lo slancio di due secoli di secolarizzazione.
Eppure il fronte integralista appare ben più agguerrito e saldo di quello laico. Di fronte al granito in cui è scolpita la fede integralista, la ragione laica si mostra incerta, traballante, talora esplicitamente subalterna, invischiata nell’illusione, ormai tramontata sin nelle filosofie della scienza, che le “verità” di ragione possano fugare i fantasmi della superstizione religiosa.
Sono le conseguenze di una secolarizzazione mai portata a fondo, mai compiuta di fronte alla vertigine irriducibile della libertà cardine di un ordine simbolico e sociale auto-fondato perché in-fondato.
L’ansia di ripescare radici cui aggrapparsi in questa modernità dolente che moltiplica l’incertezza, erodendo i legami sociali, le narrazioni non escatologiche, spiega l’oceano umano che si è riversato per le strade di Roma per le esequie di un uomo cattivo e autoritario come Karol Wojtila.
E non è certo un caso che gli anarchici, unici amanti della libertà che non la temono, siano stati tra i pochi a restare ritti mentre i più si piegavano di fronte al successore di Pietro.

Maria Matteo