rivista anarchica
anno 35 n. 308
maggio 2005


 

Marc
Blitzstein
il maccartismo e l’Opera (incompiuta) Sacco and Vanzetti.

Lo spunto per ricordare Marc Blitzstein (1905-1964) nel centenario della nascita ce lo offre il pregevole saggio (1) di Maria Cristina Fava, stampato l’anno scorso, che analizza il caso del Musical incompiuto Sacco e Vanzetti, del compositore statunitense definito da Eric Gordon (2) «la coscienza sociale della musica americana» il quale «manifestò in molti dei suoi lavori una marcata sensibilità verso i problemi sociali e le ideologie collegate al proletariato».
Blitzstein, solo per aver iniziato a raccogliere materiale e scrivere un’Opera avente come tema il caso Sacco e Vanzetti si è visto chiudere tutte le strade professionali e contro di lui è scattato quel meccanismo preventivo/repressivo intimidatorio che la storia ha registrato col termine di maccartismo, il sistema funzionale e ben oleato ancora ben presente nella quotidiana politica contemporanea.
Sappiamo, come ricorda l’autrice, che «La musica è indubbiamente un riconosciuto e prezioso mezzo per raggiungere le masse e il XX secolo è stato testimone di alcuni formidabili esempi di questa capacità di coinvolgimento» tant’è, aggiungiamo noi, che i regimi totalitari di questo secolo (dittature o democrazie poco importa) hanno esortato, condizionato – e interferito su – non pochi musicisti e musicologi per piegarli alla (loro) fondamentale esigenza di orientare il consenso e indottrinare le masse. Un atteggiamento, odioso quanto strutturale, comune alle dittature di ogni colore, che non esclude i cosiddetti “liberi” regimi democratici, Stati Uniti in testa (e i suoi “fanti di picche” a seguire), campioni di più raffinate dittature postmoderne: censura e persecuzione (aperta o celata) sono una delle armi più micidiali dell’ideologia del dominio, pronta a reprimere chiunque si attivi al di fuori delle linee stabilite dai parassiti della società. Una delle sue ultime formulazioni, oggi, è riassunta nello slogan «tolleranza zero», che avvicina paurosamente le due (moderne) forme essenziali di dominio dell’uomo sull’uomo (nazi-fascismo e democraticismo) facendole quasi coincidere nella nuova formula di dominio postmoderno che è il liberismo. Siamo convinti, intanto che rievochiamo la figura di Blitzstein, che moltissimi altri musicisti e artisti (ma non solo), nei quattro mondi, stiano subendo, nell’ombra della quotidianità istituzionale, la sua stessa sorte.

Gli studi musicali, iniziati negli States, continuati a Parigi, quindi in Germania, portano Blitzstein a contatto con l’ambiente del movimento artistico rivoluzionario animato da Bertolt Brecht, Kurt Weill e Hanns Eisler, le cui teorie stimolano il giovane musicista «a considerare il grande impatto sociale della musica e il suo potenziale politico».
Il periodo di formazione musicale e politica si conclude tragicamente nel 1936, con la morte per anoressia di Eva Goldbeck, «che ebbe un’influenza determinante sulla sua teorizzazione della musica come mezzo per raggiungere le masse». Il distacco forzato dalla sua “amante intellettuale”, che Blitzstein aveva conosciuto nel 1928 e sposato nel 1932 nonostante la sua conclamata omosessualità, stimola un’intensa attività creativa e sono di quel periodo alcuni dei suoi lavori più provocatori (3). Poi la guerra. A Londra, con funzioni di direttore della stazione radio americana, compone altri due pezzi (4). Tornato negli USA, scrive altre quattro opere (5), poi, il 22 gennaio 1964, la tragica quanto oscura fine, in Martinica, a seguito di una selvaggia aggressione.
Con l’improvvisa morte, alcuni suoi progetti musicali rimangono incompiuti (6) tra cui l’Opera Sacco e Vanzetti commissionata dal Metropolitan Opera Theatre e sovvenzionata dalla Ford Foundation, che lo stesso autore stentava a concludere a seguito delle vessazioni cui era stato sottoposto dalla destra americana.

Circa la mancata Opera Sacco e Vanzetti di Blitzstein, in molti hanno indagato, ma a molti era sfuggito il fatto che quel tema, ancora negli anni Sessanta, in America era tabù. Che nessuno, ancor meno il governo americano, voleva ancora discutere dei due anarchici fatti arrostire sulla sedia elettrica nel 1927, sia come duro monito per quanti osassero inneggiare al comunismo e all’anarchia nella “già libera” terra americana (garante perfino della felicità ma non certo del piacere di viverla), sia per compiacere l’allora ancora “adolescente” regime fascista, coi quali gli USA avevano ottimi rapporti. Le grandi mobilitazioni che si erano susseguite non solo in America, dalla sentenza all’esecuzione, avevano, però, lasciato il segno e il caso Sacco e Vanzetti, pur sopito nei trent’anni successivi, non era stato archiviato dalle coscienze più fini: guai a parlarne, però. Soprattutto nel nuovo clima da guerra fredda. Sì, certo, in casa, al bar, nei circoli politici. Ma farne un’Opera! E al Metropolitan! Sponsorizzata, addirittura, dalla Ford Foundation!
L’ultima indagine, in ordine di tempo [nel saggio citato] intreccia l’esistenza dell’artista – caratterizzata dal bisogno di essere parte espressiva della coscienza generale della società – con la messa in campo, da parte della destra americana, di ogni ostacolo in grado di impedire la realizzazione di un progetto che intendeva mettere in scena, in quegli anni, il caso Sacco e Vanzetti. Andando al sodo e utilizzando ogni mezzo, su Blitzstein viene lanciata una capillare crociata fondata su: denigrazione e ridimensionamento delle qualità artistiche dell’autore, da parte dei più noti e diffusissimi giornali conservatori, schedatura e continue convocazioni, da parte dell’FBI, controllo delle relazioni politiche e personali, da parte del Comitato per le attività antiamericane, lettere minatorie a fiumi, da parte della John Birch Society, un’associazione privata ultrareazionaria, inclusione nella lista delle centocinquantuno personalità “di sinistra” redatta dall’organizzazione anticomunista Counterattack e mille altre piccole e grandi angherie.
Per tutti, il leit motiv era uno solo: Sacco e Vanzetti avevano ucciso e per questo avevano pagato; quel Blitzstein lì, che intendeva musicarne i fantasmi, in fondo, era solo un poveraccio, per di più omosessuale, bohémien, comunista, ebreo e libero pensatore, quindi antiamericano, ergo: andava distrutto, senza tralasciare il dare una tiratina d’orecchie alla Ford Foundation e al Metropolitan Theatre.
La cattiva coscienza americana non poteva salire su un palcoscenico, soprattutto se si rivangava uno degli episodi più emblematici dell’ipocrisia nazionale, che tanto scalpore aveva suscitato sul piano interno e internazionale, mettendo sotto accusa tutto quel sistema spacciato come il “migliore del mondo”: il caso Sacco e Vanzetti.
In un tal contesto di caccia alle streghe, anche la misteriosa morte di Blitzstein, su cui nessuno ha mai indagato seriamente, rientra, a buon diritto, nella democratica crociata indetta dalle buone coscienze americane, su cui veglia, rassicurante, la statua della libertà.

Santo Catanuto

Note

  1. Maria Cristina Fava, L’ombra del maccartismo contro Sacco and Vanzetti di Blitzstein, in «Musica/Realtà», n. 74, luglio 2004, Milano, pp. 101-117.
  2. Eric Gordon, Mark the Music. The Life and Work of Mark Blitzstein, New York, St. Martin Press, 1989 (Gordon è il principale biografo di Blitzstein).
  3. The Cradle Will Rock (1936); I’ve Got The Tune (1937, dramma radiofonico); No For An Answer (1941, musical/opera). Nel 1932 aveva composto un Oratorio per quattro cori e orchestra (The Condemned), mai eseguito.
  4. Freedom Morning (1943) e Airborne Symphony (1946).
  5. Regina (1949, versione operistica di The Little Foxes di Lillian Hellman); un adattamento in inglese della Dreigroschenoper di Kurt Weill (1952); Reuben Reuben (1955) e Juno (1959), entrambe per il teatro musicale.
  6. Idiots First e Magica Barrel, composizioni operistiche.

 

 

La mia
Tribù

Carichi di sogni e di vita
ove sperar miglior futuro
fin dal primo gioco sicuro
il mondo chiuso fra frementi dita.
Giovani incoscienti guerrieri
danzar sull’orlo precipizio
per amore di un vero inizio
quando la fine non era che ieri.
Parole cianciate verso paradisi
terreni solcati da ruvide mani
già prima dell’atteso domani
in tempi rapidi allegri precisi.
Travolti gli incerti orizzonti
insieme per tribù solidali
convinte nel combattere i mali
tra intrepidi strade e aperti ponti.
Sgominati spazi estesi
da pregiudizi radicati e tenaci
preti generali rivoluzionari mendaci
losche figure siamesi.
Ora che il vento ribelle non dura
nessun ricorda l’affannosa meta
ove ognun era facil profeta
con qual fonte placar l’arsura.
Solo a rimestar svaniti valori
rimpiango alcuni errori di gioventù
fra quotidiani immondi orrori
breve commiato alla mia Tribù.

Jules Èlysard

 

 

La ricca povertà
dell’impresa

Tra i pregi di cui è ricco il libro di Antonia De Vita Imprese d’amore e di denaro (Guerini Associati, Milano 2004) risplende quello, generalmente assai raro nella produzione saggistica, di trattare temi economici, politici, sociali, lavorativi con lievità e profonda accuratezza.
Effetti di un dire e scrivere “a partire da sé” senza, perciò stesso, porsi da parte dell’autrice in posizione individualistica rendono la lettura intrigante, piacevole.
Il libro è ispirato dall’esperienza di chi scrive pur non risultando un testo autobiografico. Sono le relazioni, i contesti, le circostanze, a fare la storia: a dare senso all’agire fattuale e simbolico. Il linguaggio, per quel tanto di imprevisto e di rischio che sostiene l’impresa di scrittura, assurge a contenuto e a forma della stessa. Un linguaggio da “fiaba” dove la fiaba è riscoperta percorso formativo e creazione sociale.
“Della prima volta in cui l’espressione creazione sociale è comparsa in un mio discorso – si legge nel prologo – ricordo le circostanze: era in un corridoio, durante una pausa di un corso di formazione all’impresa sociale che la mia associazione aveva ideato e stava realizzando [...] ‘Cosa stiamo facendo?’ spesso mi domandavo. Alla lettera stavamo svolgendo un corso per l’avvio di impresa in un quartiere della città, ma il mio interrogativo nasceva da quello che, giocando sul serio chiamo un movimento di liberazione del significante”.
Resoconto di moventi e movenze che circolano dal presente fattivo e riflessivo, il testo arricchisce circostanze quotidiane, apre altri contesti e dà voce a pratiche nuove-antiche dell’intraprendere. Impresa d’amore era quella delle civiltà cortese, impresa anche “favolosa” quella invitante di Antonia.
Così le parole realizzano e la realtà dà loro materia di realizzazione. In questa contiguità fluente e distinta tra essere e parola, creazione sociale e movimento di liberazione del significante sono cose vere. Di viva caratura politica, alla maniera in cui Hannah Arendt considera politico non il contenuto del dire, ma il fatto di dirlo.
Da una soggettività decentrata e impersonale come quella agita fra le righe di Imprese d’amore e di denaro, circoscritta nelle trame relazionali che sa intessere, si articolano elementi concettuali più sentiti, più vitalmente sofferti che ideologizzati. Tra gli esempi che ne danno conto vale l’assunzione con cui Antonia De Vita ri-scopre la valenza d’impresa desiderante, anche nel capitalismo. Sottratto all’analisi secolare che lo vede(va) il principio di ogni male – politico – e la causa di ogni ingiustizia – sociale – il surplus di valore viene liberato dalle strettoie dell’accumulo di profitto. Ciò, tuttavia, non significa ribaltare l’assunzione del capitalismo con il suo elogio, del quale nel libro non c’è traccia; consente, in vero, di volgere lo sguardo, con i sensi e con le parole, verso l’interrogazione di quella logica economicistica a cui “è stata drasticamente ridotta [...] la matrice affettiva del fare-essere impresa”.
La lettura del libro suggerisce considerazioni il più delle volte fulminee, comprensioni così nuove da spostare la visuale sulle cose, con il dono di allargare – un poco che è tanto – e di chiarire – in parte e in assoluto – l’orizzonte del reale. Per esempio: il senso dell’impresa è affermato, come sembra comunicarlo l’autrice, fuori dall’idea di azienda. L’impresa appassiona per quello che non è. Non è azienda, appunto. La incorpora, ma non coincide con essa, proprio laddove il desiderio e la presa sul reale surclassano, senza disprezzarli o cancellarli, i progetti precostituiti e i modelli standardizzati con pratiche in atto di politica più elementare e più vicina alle cose; surclassano le gerarchie con le differenze conflittuali, le strutture assodate con gli sbilanciamenti collaborativi di un saper stare vicino agli inizi. A disfare e rifare altro: altri mondi possibili. Come negli stupori artistici e negli incantamenti poetici.

Monica Giorgi

Antonia De Vita collabora con la cattedra di Pedagogia generale e sociale nella facoltà di scienze della formazione dell’Università di Verona, dove si occupa, prevalentemente, di filosofia della formazione. Ha fondato, insieme ad altre, la cooperativa Guglielma ricerca e creazione sociale.
Si è perfezionata sui temi della mistica medievale femminile e nel 1996 ha vinto il Premio Maria Grazia Zerman, con la tesi di laurea Autobiografia e differenza femminile nello Specchio delle anime semplici di Margherita Porete.
Imprese d’amore e di denaro è stato discusso in sua presenza al Circolo Anarchico Carlo Vanza di Locarno.