rivista anarchica
anno 35 n. 305
febbraio 2005


internazionale

Democrazia d’esportazione
di Antonio Cardella

 

La politica di Bush, e dei suoi “falchi”, costringe la nazione americana in un progressivo isolamento.

 

La consueta pausa decembrina della rivista non ha consentito il commento tempestivo sull’esito delle elezioni presidenziali americane. Non me ne rammarico più di tanto: l’urgenza di parlarne e l’impatto emotivo finiscono quasi sempre per oscurare le ragioni profonde dell’evento e le conseguenze non immediate che ne conseguono.
Il dato incontestabile e destinato a pesare a lungo è che al di là dell’Oceano, lo spirito di frontiera, il fondamentalismo religioso ed una melensa mistura patriottardo-revanchista hanno prevalso sull’altra America più riflessiva, meno propensa a scommettere tutto sul rosso e nero della potenza, sulla protervia della guerra preventiva e del “Dio è con me, quindi se avanzo seguitemi”.
Non è un bel vedere quello di un paese che si affida interamente ad un uomo e ad un’amministrazione che ritengono il resto del mondo un terreno al quale imporre la propria logica, fidando esclusivamente sulla potenza terroristico-militare. Ma questo è il dato con il quale sempre più chiaramente dovremo fare i conti. Del resto, i dubbi sulla vittoria di Bush erano pochi, quello che piuttosto ha sorpreso è l’entità di questa vittoria: la percezione pre-elettorale era che lo scarto tra i due contendenti non sarebbe risultato così rilevante. Tre milioni circa di voti sono un divario notevole e tagliano corto su qualsiasi riserva sull'esito delle elezioni.
Ma se il trionfo di Bush e dei suoi accoliti è innegabile, esso pone tutta una serie di questioni di non poca rilevanza, per quel che riguarda nello specifico l’America, ma anche, ed è inevitabile, per il potere di pressione che questa potenza ha per le sorti del mondo e, più limitatamente (per la dimensione dell’area ma non per il suo peso specifico), per l’intero assetto dell’Occidente.
In questa sede ne analizzerò a grandi linee soltanto due, che mi sembrano di particolare rilievo.

Senza il minimo senso critico

La prima questione è relativa allo stato d’opera della democrazia in quel paese (e non soltanto).
Fatta eccezione per i poteri forti (e oscuri) e per gli interessi consolidati, la natura del voto che ha portato Bush per la seconda volta alla Casa Bianca, è di segno fideistico-resistenziale: l’America è attaccata dal terrorismo fondamentalista e Bush è il politico che ha avuto meno reticenze nell’affrontarlo.
L’attentato alle torri gemelle richiedeva una risposta decisa e Bush l’ha data, attaccando prima l’Afghanistan e poi l’Iraq. Senza il minimo di senso critico, senza neppure porsi il problema del rapporto costi/benefici, milioni di americani, occupati e disoccupati, studenti, cittadini delle metropoli e contadini dispersi nelle vaste plaghe degli Stati Uniti hanno scelto senza esitazione il loro condottiero. Vista da questa angolazione, e soltanto da questa, la legittimazione del potere conferito all’amministrazione repubblicana è indubbia: la maggioranza dei cittadini americani, nei limiti imposti dal vigente sistema elettorale, ha votato per Bush e Bush sarà chiamato a decidere per tutti. Ma questo del voto popolare è solo un aspetto, anzi, un passaggio, obbligato ma non esaustivo per l’attuazione di una società che intende definirsi democratica: poi c’è la Costituzione e tutta una serie di istituzioni, interne ed internazionali, liberamente costituite o alle quali si è liberamente aderito, che costituiscono limiti ineludibili all’interno dei quali la volontà popolare può e deve compiutamente attuarsi.
Se considerato complessivamente, a me pare che lo stato della democrazia americana non possa considerarsi ottimale, a principiare proprio dal sistema elettorale, reso artificiosamente farraginoso, che seleziona per censo i candidati e costringe i cittadini più che ad esercitare un diritto, quello del voto appunto, a doverne ricorrentemente rivendicare la facoltà d’esercizio.
Un sistema elettorale che istituzionalizza il prepotere di quegli interessi costituiti che, investendo (e il termine è proprio) sul candidato più sensibile alle loro aspettative, legittimamente si attendono che, nel corso del suo mandato, l’eletto, tali interessi rappresenti e persegua.
Ma c’è dell’altro. Nel programma dell’amministrazione Bush, bene amplificato dalla propaganda elettorale, le istanze dell’integralismo cristiano, cattolico e protestante, sono state fatte proprie dal programma repubblicano e sono, di fatto, inserite in atti pubblici. A parte le pittoresche baggianate delle rivelazioni divine a presidio delle decisioni del bovaro texano, ci sono atti di governo concreti, già operativi o minacciati, che stanno lì a dimostrare come la rappresentanza popolare del governo Bush sia fortemente sbilanciata a favore di una minoranza, la più retriva, del popolo americano, quella che si oppone alla ricerca scientifica in settori chiave della salute e della salvaguardia dell’ambiente, che nutre sentimenti ostili nei riguardi di negri, meticci ed omosessuali, che minaccia di rivedere in senso fortemente restrittivo le norme che regolano il divorzio e l’aborto e così via dicendo, in un elenco assai lungo e articolato di “promesse” minacciose.
Come sappiamo bene noi in Italia, si tratta di istanze d’una certa chiesa , integralista e certamente minoritaria all’interno stesso del mondo (minoritario) dei credenti, che tende a distorcere le funzioni di uno Stato laico in senso confessionale. Tutto ciò nella presunzione di Verità rivelate che non trovano diritto di cittadinanza in nessun codice di diritto pubblico, dall’epoca dei Lumi in poi, per l’ovvia ragione che emarginerebbero tutti coloro tra i cittadini che legittimamente non credessero in quelle Verità.

Indifferenza e disprezzo assoluti

Infine, a rafforzare i dubbi sui comportamenti compatibili con un sistema di relativa democrazia dell’amministrazione Bush, c’è l’assoluta indifferenza, quando non addirittura il disprezzo, verso tutte quelle istituzioni sovrannazionali, alle quali, a vario titolo, l’America aderisce, quando queste osino avanzare dubbi o addirittura si oppongano a decisioni destinate a destabilizzare lo scenario internazionale. La teorizzazione della guerra preventiva e l’iniziativa bellica in Iraq offrono un catalogo sufficientemente esaustivo di come l’amministrazione repubblicana, risultata vincente alle recenti elezioni, interpreti le norme della democrazia, che, oltretutto, per eccesso di arroganza, intende esportare.
Alla fine di questo discorso, non vorrei che mi si attribuissero simpatie per il sistema democratico: il mio intento, in questo caso specifico ma assai più in generale, in tutto quello che pratico e scrivo, è quello di dimostrare come le stesse regole che il mondo capitalistico occidentale si è dato per la sopravvivenza di una società che sia, almeno di facciata, credibile, non reggono più. Anzi, finiscono con il creare più problemi di quanti non ne risolvano, in una spirale che ne decreterà prima o poi la fine ingloriosa.
La seconda questione posta dalla rielezione di George Bush riguarda le conseguenze che essa avrà sullo scenario internazionale. Non vi è alcuna ragione che induca ad ipotizzare un mutamento di rotta nelle scelte della Casa Bianca. Anzi l’ascesa di Condoleeza Rice al segretariato di Stato al posto del più riflessivo Colin Powell lascia intuire un inasprimento dei conflitti (militari e non) ingaggiati in questi ultimi quattro anni dagli Stati Uniti con l’intero mondo arabo ma non solo.
Si avrà così un’America più aggressiva ma anche più isolata, costretta ad un angolo per aver voluto aprire conflitti non solo con gli stati definiti canaglia, ma anche con alleati tradizionali, gli stati europei (quelli che contano) contrari ad avventure che giustamente ritenevano avventate.
E’ palese che, a meno di una svolta che non si scorge all’orizzonte, l’amministrazione americana si è posta nella scomoda posizione di dover dimostrare ai suoi critici di poter uscire da sola dai bui tunnel nei quali si è cacciata, per miopia politica, certo, ma soprattutto per cieca arroganza. In Iraq, per fare l’esempio più pregnante e attuale, sarà costretta a perseguire la strada senza uscita della terra bruciata. Dopo Falluja, ormai resa un cumulo di macerie, sarà la volta delle città curde e poi a sud nel vivo del territorio sciita. Sarà questa, se effettivamente attuata, una strategia dissennata che non porterà da nessuna parte.
La resistenza si sposterà da una parte all’altra del Paese e non darà tregua ad una coalizione che non ha le forze per contrastarne tutte le mosse.
Progressivamente, il governo Allawi, già minato da contrasti interni, inviso alla popolazione e sempre più in difficoltà nel reperire forze per sostenerne l’impegno (gli attacchi della guerriglia contro i centri di reclutamento cominciano a dare i loro frutti), svelerà il suo vero volto di pedissequo esecutore di ordini altrui. Se mai si terranno, le prossime elezioni di gennaio saranno l’ulteriore farsa di una tragedia gigantesca che scuote l’intero contesto mondiale. Perché i nodi finiscono sempre per venire al pettine e il maldestro tentativo di coalizzare alleati ed ex avversari contro lo spettro del terrorismo (con consensi taciti o espliciti ad altri genocidi, come quelli che si perpetuano in Cecenia o nel Tibet) può semmai sopire ma non sanare i contrasti di fondo che affliggono il pianeta. La questione ucraina, ad esempio, ha incrinato già l’idillio tra Bush e Putin.
È così riemerso un confronto vero e duro sugli equilibri militari in un settore strategico delicatissimo. Con il fomentare (o, che è lo stesso, essere percepiti come coloro che fomentano) il distacco dell’Ucraina dall’area di influenza russa gli americani mostrano di voler cogliere l’occasione di un conflitto interno per spostare ancora più ad est la loro influenza, già consolidata dalla presenza di loro insediamenti militari in nazioni amiche come la Polonia.
Ma anche questo appare un calcolo miope. L’esito del voto di ballottaggio del 26 dicembre, intanto non è certo stato un voto plebiscitario a favore di Yuchenko, il candidato filo occidentale (51,6% contro il 44,4% del suo avversario), poi rischia di ripristinare un clima da guerra fredda che Bush, esposto com’è in Medio Oriente, in questo momento non può proprio consentirsi. Solo che, a prescindere dalle intenzioni, intanto l’amministrazione americana dovrà pure giustificare in qualche modo il suo eventuale disimpegno, dopo aver abbondantemente finanziato, tramite la solita CIA, il partito del presidente amico e il movimento di Kiev; poi non potrà evitare che la Russia di Putin avverta maggiormente il pericolo di un accerchiamento, un accerchiamento che appare già attuale e minaccioso negli incerti confini della Federazione (ad oriente Corea, Cina, Mongolia e Kazakistan; ad occidente Lettonia, Estonia e giù sino alla Ucraina e alla Polonia).
Già in un discorso alla Duma del 4 settembre, lo stesso Putin dichiarava che la Russia è in guerra contro coloro che, all’interno della Federazione e fuori di essa, brigano per minare l’unità della nazione. L’allusione all’America è trasparente.

La castagna e il fuoco

Se questo clima di conflittualità sommersa dovesse perdurare, neppure gli europei potranno alla lunga sentirsi tranquilli.
Il rimanere coinvolti in un conflitto con il mondo eurasiatico in assenza di motivazioni incombenti, e, soprattutto, per iniziativa unilaterale di un solo paese membro della NATO senza una preventiva valutazione congiunta delle conseguenze: insomma, il vedersi imbarcati in un’avventura dagli sbocchi difficili da valutare non sarebbe per i Paesi europei cibo facile da digerire.
Se a tutto ciò si aggiunge che l’Europa sembra sempre meno propensa a prestare le proprie mani per togliere la castagna irachena dal fuoco che la arde, si potranno percepire appieno le difficoltà che attendono la diplomazia americana nel prossimo futuro.
Abbiamo aperto due finestre soltanto per puntualizzare il progressivo accentuarsi dell’isolamento in cui la politica di Bush, e dei falchi che la fomentano, costringe la nazione americana. Ed è un isolamento che aumenta i rischi per quel che resta della pace nel mondo, perché la percezione di essere assediati dalla generale diffidenza può indurre a reazioni inconsulte.

Antonio Cardella