rivista anarchica
anno 35 n. 305
febbraio 2005


 

Pedro il
maleducato

(cosa dicono due donne de La mala educacion, un film “di soli uomini”)

– E allora, che ne pensi?
Partendo per Bologna la Elena m’ha strappato la promessa di andarci anche da sola, io che odio andare al cinema da sola! Del resto, ne siamo o no innamorate perse?
– Tanto poi passano tutti su Sky! – protestavo io
– Ma vuoi mettere il grande schermo? Il ventre accogliente della sala? I cuori ignoti che battono all’unisono col tuo? – replicava lei.
Ci sono andata, da sola.
Scendendo dopo l’ultimo titolo di coda le scale del “Massimo”, storico cinema leccese moltiplicato come i pani ed i pesci in multisala, provo a chiamarla sul cellulare, che in quel momento squilla: anche lei l’ha appena visto.
– E allora, che ne pensi?
Che buona educazione le ho dato! – mi compiaccio tra me e me.
O dio dio, che ne penso? Dico de La Mala Educacion, l’ultima fatica di Almodòvar sbarcata in Italia sei mesi dopo la sua prima spagnola (forse perché il fratello Augustin, distributore dei suoi film, aveva dichiarato che non l’avrebbe mai ceduto a società controllate da Berlusconi?)
Ebbene, ’sto film m’ha spiazzata. Credevo di tuffarmi in uno scintillante luna park ed emergo nel sancta sanctorum dell’ottava arte. Ero pronta a partire per il Paese dei Balocchi e me ne torno a casa pensosa e malinconica. Volevo divertirmi e mi ritrovo ad imparare. Intendiamoci. È sempre l’impenitente e impunito Pedro, il ragazzaccio irriverente e irridente, l’enfant terrible del cinema europeo. Lui fa sempre divertire.
Gli è che stavolta ha deciso di mostrarci anche l’altra faccia della luna.
Abbiamo letto che questo sarebbe un film contro la chiesa e contro i preti, tutti pedofili e assassini, che è cupo e cupamente maschile, che è eccessivo e non credibile, che farebbe – addirittura! – il gioco degli omofobi. A noi non è parso. A noi è parsa l’opera di un geniale cineasta, un film sul concepimento di un film, con attori che recitano sul set come nella vita, una “visita” all’interno del processo creativo – non a caso “La visita” è il titolo del racconto che nel film ridarà al personaggio – regista l’ispirazione perduta –, un tracimare, appunto, del cinema nella vita, una sapiente manipolazione del linguaggio cinematografico, un metaromanzo autobiografico.
Innanzitutto per la storia. Nella Spagna dei primi anni ’80 un attor giovane, bello e spiantato, si presenta all’altrettanto giovane ma già discretamente noto regista, Enrique, in evidente crisi creativa – lo vediamo infatti cercare spunti tra le notizie estreme dei giornali (“donna allo zoo abbraccia un coccodrillo e se ne fa divorare”) – dichiarando di essere il suo antico compagno di collegio, dai salesiani, nonché il suo primo grande amore, Ignacio.
Da quel tempo smarrito ha tratto un racconto di cui Enrique si innamora subito, tanto da farne la sceneggiatura del suo prossimo film: la storia che cercava tra le più strane storie, come se queste fossero per lui l’autentica vita, la trova invece nella stessa sua vita, anche se a raccontargliela è uno sconosciuto (più volte Enrique affermerà di non riconoscere nell’Ignacio adulto colui che tanto aveva amato da bambino).
Però ne subisce il fascino e cede alla pretesa di quello di esserne il protagonista…Da qui si dipana una trama complessa e intricata, “più difficile da raccontare che da vedere” (parola di Almodòvar). Ma c’è anche che questa storia non viene mostrata veristicamente, bensì quasi sempre raccontata o rappresentata o filmata, tant’è che quando il regista ci ficca dentro intarsi di storia “vera”, tendiamo a confonderli con la finzione.
E questo ci fa uscire dal cinema sconcertati, rimuginanti e faticosamente tesi a ricomporre il diabolico puzzle.
Poi per i protagonisti. Non sono quelli che sembrano, si invertono e rimescolano di continuo. Ignacio, il narratore autobiografico, non è Ignacio, è un altro, e quando è davvero Ignacio ci rifiutiamo quasi di riconoscerlo, perché ci piaceva molto di più quello falso, cioè l’attore. Intendiamo l’attore per antonomasia, pronto a tutto, a fingersi un altro per farsi ricevere dal regista famoso, “a farsi penetrare” pur di avere la parte, ad uccidere il fratello per poterne “recitare” la vita, nella realtà come sulla scena.
Questo attore è una perfetta “dark lady”, alla Barbara Stanwick, quella del wilderiano La fiamma del peccato, come lascia intendere lo stesso Almodòvar inquadrandone en passant la locandina: una femme fatale, cattiva e perversa per sua natura. Situazioni e personaggi giocano una partita di continui rimandi, rimbalzando disinvoltamente tra verità e finzione.
Un’immagine emblematica riassume tutto il senso del film: un filo di sangue divide in due il bellissimo volto di un bambino e lo spacca per sempre, aprendo davanti a noi come un sipario, mostrandoci l’irreparabile frattura tra l’infanzia e l’età adulta, e l’altra, non meno lacerante e drammatica, tra la vita e l’arte (il volto spaccato di Ignacio bambino lascia emergere le due facce della sola realtà che ad Almodòvar interessi: il regista e l’attore).
E i bambini? L’infanzia violata? I preti criminali? Pura metafora. Mai bambini e preti ci vengono mostrati nel vero collegio, ma sempre sul set, noi non conosciamo il loro vero aspetto, ma quello degli attori che li interpretano. I due preti stuprano, prevaricano, assassinano perché sono due criminali, braccio e mente della violenza del forte sul debole, dell’adulto sul bambino, del potere sulla libertà.
Eppur sempre mediati attraverso la messa in scena filmica: solo a set dismesso vedremo infatti il vero volto di don Manolo, mentre sullo sfondo si rilassano gli attori che interpretavano lui e lo sgherro. O meglio, conta sì che siano preti, ma solo in quanto maschere atroci del potere che è atroce di per sé, qualunque veste indossi.
Insomma, è questo un film che non conosce davvero la parola “fine”. Persino le didascalie in coda sembrano proiettare la vita dei personaggi oltre la pellicola, nel loro stesso futuro, in ispecie l’ultima ove, con autobiografico colpo di coda, Almodòvar ci informa che Enrique (il regista) “continua a fare cinema con la stessa PASSIONE”.

Maria Teresa Crespini
Maria Elena Lega

 

 

L’America vista
da Nadia

Recensisco in ritardo il Quaderno di San Francisco di Nadia Agustoni (Gazebo, 2004, cp 374, 50100 Firenze, www.edizionigazebo.com). Sì: il titolo ci ricorda i poeti della beat generation, ... se il viaggiatore ha il taccuino, il poeta ha il quaderno, magari tenuto nella tasca di un’ampia giacca, al riparo dalla pioggia e dal vento improvviso delle grandi città.
E ho detto – buongiorno – in italiano/A Ferlinghetti, che ha detto – buongiorno – in italiano. Così è possibile incontrare un poeta la mattina a San Francisco, come una presenza diversa, qualcosa incastonato nel caos di rincorse di una metropoli americana, qualcosa che ci ricorda tempi in cui il grido contro la guerra era più forte, ed era più semplice comunicare seduti in mezzo alla gente, con un quaderno in mano.
Ah! Visioni romantiche spezzate dalla realtà di un paese nel quale gli “Antagonisti” s’aggirano come parodie di incubi, in un tutto che sembra uguale a se stesso.
Ma cos’è l’America? Stiamo parlando degli Stati Uniti, un posto nel quale noi italiani a volte ci perdiamo. Vedo la cinica pretesa di euforia dei turisti/E quel farsi corpo degli Americani/Così futile e ignoto. Sì, quello è proprio un – farsi corpo – che contrasta con la mitezza, la frugalità, la ritrosia, e il muoversi tra gli ingombri è difficile, occorre affrontare la metropoli Con quell’aria egoista/Di chi deve vivere.
Così la nostra viaggiatrice si muove a fianco dell’Oceano, di fronte alle grandi distese della città, e ne segna i tempi, ne annota gli usi come un’antropologa e come se lei stessa fosse sottoposta a una prova:

Il tempo va in fumo
E file di macchine e netturbini
Stanno sotto il cielo
In un crematorio costoso.
Di domenica è più facile la ruggine
Ma non è domenica
E pago un biglietto museo
Come se facessi un esame
(...).

Ma non c’è estraneità in questo viaggio, anzi ricerca di essere medesime a chi vive lì da sempre, in una città che Ha panchine ovunque, con gente che si siede/Guarda il cielo e il cielo/Non va da nessuna parte, è alto, troppo bello/E ha toccato la fine della paura. In un paese che ci mette sempre davanti agli occhi la sua passione per l’altezza, la sua opulenza e la sua aggressività, e che ha esposte sempre in grande le regole del gioco della vita:

Ok! Dall’alto la vista è migliore
Si è soddisfatti e gli assistenti sociali
Non verranno mai a fare domande
imbarazzanti.
(...).

Le parole della poeta sembrano tessere di un domino che si può costruire da soli, che vanno a incastro comunque tu le metta, ognuna con un piccolo ma compiuto senso. Così certe impressioni fugaci (Ci sono visioni che come lumache/Mettono il guscio...) stanno vicine a precise riflessioni che parlano di politica, con uno stile tanto asciutto da sembrare inciso:

Tutti sono intransigenti, adempiono al dovere
Di avere qualcosa, una vanità, una malattia,
Soldi e infelicità qualunque.
(...).

E rapide impressioni che ci stupiscono con la loro individualità:

Germinando un nome lilla, ripetendo
me stessa, una sillaba sassosa ho per voce
e canicola nei timpani,
la realtà come debito
e una pena.
(...).

Alla fine del viaggio troviamo altre poesie con cui Nadia ridisegna la sua interiorità, la “cifra” come si direbbe, della sua personalità, nella quale galleggia l’impressione fortissima della solitudine individuale, del senso dell’autosufficienza, della volontà di essere giuste:

(...).
L’ordine è una solitudine corale
ma è questo paese di margini
che apre gli occhi
e mi fa ricordare che la bellezza

non ha destino.
Mi rimprovera una rosa.
Nelle sue quasi vene non teme niente
e se sa un po’ di peso
ha l’arte di ignorarlo.

A chi obbedisce
se non cade in errore?
(...).

Così riappare la poeta anarchica, mistica nella sua essenzialità, che conosco da anni. Donna che sfida la fatica per nuove prospettive, la viaggiatrice che ammette con i suoi lettori che proprio il suo viaggio la consola dai suoi crucci. Una lettura che consiglio a tutti, e non solo perché si tratta di una amica. Lettura molto “slow” per necessità e non per moda.
...Costruire città è gonfiare le geometrie e rendere a migliaia di noi una vicinanza. Sfioro la memoria come un percorso di guasti e rido di non avere vinto niente, consolata da terra e solitudine.

Francesca Palazzi Arduini