rivista anarchica
anno 35 n. 305
febbraio 2005


vecchio maestro

Il canto della terra
di Gianni Mura

 

Ricordo di Luigi Veronelli, un uomo in prima fila contro globalizzazione e OGM.

 

Adesso che Luigi Veronelli è morto, cremato e sepolto, adesso che siamo bombardati via etere e stampa da una manica di gente che parla di cibo e di vino sapendone poco o nulla, adesso è il momento buono per capire vita e opere di Sua Nasità. E parto dall’ultimo periodo, quello che i parrucconi della parrocchietta enogastronomica giudicavano accigliati. Veronelli e i centri sociali, Veronelli e gli anarchici a braccetto, ma s’è visto mai? Degustazioni di vini pregiati al Leoncavallo: inaudito, il vecchio maestro dev’essersi bevuto il cervello. No. Il vecchio maestro, ormai quasi cieco, ci vedeva benissimo e il cervello ce l’aveva perfettamente funzionante. Il movimento Terra e Libertà, che insieme ad altri aveva fondato, pensava criticamente alla terra come pianeta e alla terra come suolo. E di grazia, con chi avrebbe dovuto schierarsi Veronelli, da sempre cavaliere solitario? Con le multinazionali che ovunque fissano il costo del caffè, del cacao, dei pomodori, delle olive? Coerente con tutta la sua vita, s’era scelto compagni di strada (e di lotta) legati dagli stessi sentimenti e dalla stessa visione di una terra divisa più equamente tra ricchi e poveri, di uno sviluppo sostenibile, di una trasparenza della filiera produttiva, di costi più accessibili per le tante cose buone (vino compreso) che passano per troppe mani ingorde prima di arrivare al consumatore. Contro la globalizzazione e gli OGM Veronelli era in prima fila.

Contro la Coca Cola

In Italia purtroppo manca un Josè Bové, sospirava. E adesso manca pure Veronelli, uno che non ha mai avuto paura d’alzare la testa e di partire alla carica: anche contro la Coca Cola, per dire (tre processi). Oppure contro Gianfranco Vissani, famosissimo chef da lui definito “cuoco di merda” perché si faceva un punto d’onore di friggere usando l’olio di semi e non quello extravergine d’oliva. Insomma, di questa scelta di campo poteva stupirsi solo chi immaginava Veronelli come un aristocratico signore che passava il tempo degustando da grandi bicchieri di cristallo e trovando di volta in volta sentori di ginestra, di pietra focaia, di ribes nero.
Era così, ma solo in parte. Ed era bello sedere allo stesso tavolo per il cerimoniale e sentirlo vivere il vino, prima di giudicarlo e raccontarlo. La lentezza dei gesti, il rispetto profondo del vino (il canto della terra verso il cielo, diceva), il linguaggio tutto suo (in questo, nei neologismi, ricordava l’amicone Gianni Brera). Stava ben lontano dal gergo tecnico di molti ragionieretti del grappolo (i tannini, gli antociani, la malolattica, il cappello sommerso: ma chi se ne strafotte, veramente) e ricorreva spesso a paragoni con un verso, una sinfonia, un quadro, una canzone. Un approccio amoroso, spiegava. “Ogni vino è come una bella donna, non va aggredito con la volontà d’imporsi, bisogna ascoltarlo, capirlo”. Della sua casa, a Bergamo alta, impressionava la cantina (più di 70mila bottiglie, e sì che ne regalava parecchie) ma anche la biblioteca (più di 10mila libri, un centinaio scritto da lui).
Milanese dell’Isola, classe 1926, nonno panettiere in piazzetta della Rosa, oggi piazza Pio XI, Veronelli fu iniziato al vino da suo padre, il giorno della prima comunione. “Doveva essere Barbera dell’Oltrepò. Io e Gianni, mio fratello gemello, eravamo pronti a bere d’un fiato ma mio padre ci bloccò ruvidamente: piano, prima lo guardate, poi lo annusate e poi le bevete con rispetto, perché dentro c’è la fatica dei contadini”. Una lezione che non avrebbe più dimenticato. “I miei contadini, i miei vignaioli” diceva con fierezza.
Li aveva scossi, difesi, esaltati negli anni del boom, della corsa al posto in fabbrica, dello spopolamento di campagne e colline e montagne, quando fare il contadino era un brutto mestiere, quando nelle Langhe giravano sensali con foto di ragazze del sud disposte anche a vivere in una cascina.
Poi non pochi di questi vignaioli, o i loro figli, si son fatti la Ferrari, ma questo è un altro discorso. Uno dei primi discorsi di Veronelli era una certezza sul vino: “L’ultimo dei vini artigianali sarà sempre migliore del primo dei vini industriali, perché avrà un’anima”.
Un altro riguardò le etichette. “Smettetela di scrivere Rossi Mario, non siamo né a scuola né a militare, dove si fa l’appello in ordine alfabetico. Un uomo libero scrive: Mario Rossi”

Condanne e libri bruciati

Studi classici, passione per la filosofia, assistente di Giovanni Emanuele Bariè, collaboratore di Lelio Basso. Investe gran parte dell’eredità paterna (e la perde) facendo l’editore: poesia (La ragazza Carla di Elio Pagliarani) ma anche i socialisti utopisti (Fourier, Proudhon) e anche, primo in Italia, de Sade. “Era Historiettes, contes e fabliaux, una delle cose più tranquille. Fui condannato per pubblicazioni oscene, e i libri bruciati nel cortile della questura di Varese, anno 1957”. Altra condanna a 6 mesi nel 1980, per istigazione a adunata sediziosa. “Niente di speciale, avevo semplicemente detto ai contadini astigiani che per farsi sentire sul prezzo delle uve non dovevano dare retta ai politici, tutte balle, ma fare come gli operai, bloccare l’autostrada o la stazione. Bloccarono la stazione, ma sbloccarono la vertenza”.
Per qualche anno s’era guadagnato da vivere dirigendo una stazione invernale, al Tonale. Gli piaceva la caccia subacquea, ma senza pinne e respiratore, sennò il pesce era troppo svantaggiato. La sua guida ai vini d’Italia, edita da Casini, è del 1961. Prima, per più di quattro secoli da Ortensio Landi, nulla. Dopo, fin troppo. Il suo sogno nel cassetto era quello di tradurre Apollinaire.
Aveva programmato di morire a 103 anni, come la sua amica contessa Perusini Antonini di Roccabernarda, detta la mamma del Picolit, e, in attesa della quieta morte, bere con gli amici una bottiglia di Quinta do Resurressi, un Porto prodotto da una contadina anarchica con cui da giovane passò (forse) qualche giorno e qualche notte. Non che abbia importanza, ormai. Come avrebbe detto Prévert, “le jardin reste ouvert pour ceux qui l’ont aimé”.
E, come hanno cantato e suonato quelli degli Ottoni a Scoppio nel cimitero di Bergamo, la nostra idea è solo idea d’amor.

Gianni Mura