rivista anarchica
anno 34 n. 304
dicembre 2004 - gennaio 2005


politica

Il problema politico
di Andrea Papi

 

Bisognerebbe rivoluzionare il senso e la volontà del nostro esserci politicamente.

 

Qual è il problema? Parlo del problema politico, inteso nel suo senso originario: la gestione della polis. Dove polis, parola greca che inerisce a tutto ciò che si riferisce alla città considerata come il luogo di tutti i cittadini liberi, è metafora di società, considerata in senso esteso nel suo insieme e nella sua complessità. Il problema politico sostanziale è dunque quello di trovare il modo e le soluzioni per condurre, nella maniera più adeguata, il quotidiano che riguarda tutti i componenti dell’insieme sociale di riferimento. Questo intendimento, e non altro, è e deve essere il fondamento alla base di ogni scelta inerente le problematiche della politica.
Ma per parlare del particolare del giorno per giorno bisogna prima aver ben presente quale sia e debba essere lo scopo fondamentale cui quel giorno per giorno necessariamente si riferisce. Se non lo si facesse, parleremmo di politica come di qualcosa sospeso nel limbo di un presente di cui non comprenderemmo bene il senso, facilmente ridotta a chiacchiericcio ciaculante sulla mondanità dei vari politici, di cui si parla già a sufficienza nella stampa alla moda e in quel mercato delle parole che è la televisione. L’immersione nel dibattito politico ufficiale di ogni giorno è oggi perlomeno deprimente, fatto com’è di esclusiva attenzione alle reiterate squallide logiche dell’universo concentrazionario delle coalizioni parlamentari.
Non a caso, più leggo i quotidiani e ascolto i TG ed i dibattiti televisivi e più ho voglia di ricondurre la riflessione politica alle tensioni ideali, alle origini teoriche di ricerca per tentare di realizzare una società fondata su autentici principi di libertà, avulsa da ogni forma di sfruttamento ed oppressione. Perché senza questa riflessione mi sfugge anche la comprensione del presente che sono costretto a vivere.

Operazioni di apparati potenti

Il giorno dopo il secondo dibattito televisivo tra Bush e Kerry nell’ambito della campagna elettorale per la presidenza USA, Ilvo Diamanti su “La Repubblica” ci rendeva uno spaccato molto efficace della rappresentazione della politica, verso cui tentano di condurci, di fatto ci stanno già ampiamente conducendo, i diversi leader coinvolti ed i vari opinion-maker. “Gli USA offrono uno specchio di ciò che potremmo (e alcuni vorrebbero) diventare. Una democrazia “personalizzata” e maggioritaria, in cui le differenze di posizione e di opinione politica sono riassunte dalla figura del presidente e, prima ancora, del candidato. Un modello che ha la sua rappresentazione simbolica – e politica – più efficace, in questi giorni, nei faccia a faccia tra Bush e Kerry.” (1)
Al di là dei riferimenti agli specifici accadimenti americani, ciò che ha grande risalto in questo ragionamento di Diamanti è
la personalizzazione di una democrazia maggioritaria, verso la quale si sta tendendo, sia nel senso che alcuni vorrebbero che succedesse, sia nel senso che rappresenta la tensione diffusa prevalente.
Ciò che non dice è che la personalizzazione di cui parla non è riconducibile semplicemente alla identificazione massificata della persona leader, come si potrebbe intendere, mentre è un fenomeno molto più complesso e artificiale, in quanto, in America senz’altro, corrisponde ad una vera e propria edificazione d’immagine mediatica.
Non si tratta cioè dell’emergere di personalità spontaneamente carismatiche, dotate di forti capacità di comunicazione e di originarie doti intellettuali in grado di sedurre grandi quantità di persone.
Bensì ci troviamo di fronte ad operazioni di apparati potenti, studiate e pianificate a tavolino, che artificialmente mettono in piedi protagonisti costruiti corrispondenti ai messaggi che vogliono veicolare, impersonati nell’immagine propinata ad hoc dei personaggi di turno, in questo caso Bush o Kerry.
Se fosse in Italia, parleremmo di Prodi, o di D’Alema, o di Berlusconi, o di qualsiasi altro leader nostrano. Trattandosi degli USA, giustamente Diamanti rileva la concentrazione d’immagine sui due candidati all’elezione della Casa Bianca che, nella rappresentazione mediatica contrapposta, riassumono le differenze di posizione e di opinione politica.
È un modo astuto per semplificare al massimo i termini del dibattito, per ridurli a mero oggetto di fruizione-consumo attraverso i media, ai fini, fra l’altro dichiarati ed espliciti, di estorcere il consenso del popolo dei fruitori in ascolto.
Il senso che ne scaturisce come risultante è la distruzione della molteplicità delle idee e dei pensieri, le differenze di posizione e di opinione politica, non a caso riassunte dalla figura del presidente e, prima ancora, del candidato.
La ricchezza culturale ed intellettuale non serve alla gestione del comando, anzi risulta addirittura dannosa, in quanto aumenta a dismisura l’imprevedibilità delle opinioni e la complessità da gestire, quindi l’impossibilità del controllo. Inoltre non è funzionale alla fruizione mediatica, che richiede messaggi stereotipati e semplicistici oltre a un’ipnotica concentrazione d’immagine.
La partecipazione democratica, tanto sbandierata, si riduce così al mero momento del voto, nella massima parte dei casi influenzato, se non addirittura indotto, dalla suggestione d’immagine, non certo dalla riflessione delle e sulle idee.

La perfezione della copia

Nel nostro bel paese le cose vanno in modo un po’ diverso, anche se la tendenza in marcia è la stessa. A tutti gli effetti è vero, come dice Diamanti, che gli USA offrono uno specchio di ciò che potremmo (e alcuni vorrebbero) diventare.
Per usare un eufemismo, tutto ciò qui da noi ha ancora un sapore artigianale e non è riuscito ad involvere ai livelli sofisticati della professionalità mediatica statunitense.
Non tanto perché da parte degli addetti ai lavori non lo si vorrebbe, quanto perché il clima culturale e sociale di casa nostra ancora non lo permette. Abbiamo ancora da scontare un’eredità di approcci, di pratiche consolidate, di elaborazioni teoriche, di proiezioni immaginative, di idee e ideali e di tensioni desideranti molto diversa da quella dei nostri cugini del benessere d’oltreoceano.
Berlusconi è forse quello che più di ogni altro è andato vicino alla perfezione della copia. Ma, a differenza del modus operandi degli amici americani, non è un protagonista costruito da un apparato che lo ha scelto. Bensì, artigianalmente all’italiana, ha fatto tutto da solo, vero e proprio “self-maker”.
Lui, padre e padrone di se stesso, patriarca insuperato delle tivu commerciali, in Italia ovviamente, avendo a piena disposizione proprietaria gli strumenti mediatici e utilitaristicamente conoscendone molto bene l’uso per esperienza diretta, avendo una gran bella considerazione di sé, ha deciso che poteva e doveva lanciare la propria immagine, innovando americanamente la politica italiana.
E così ha fatto, ottenendo ottimi risultati e lasciando di primo acchito attoniti e interdetti gli avversari colti di sorpresa.
A differenza dei giganti USA, è lui stesso che assume il tutto e lo riassume in sé: è contemporaneamente l’apparato, l’ideatore, il supervisore, il creatore della propria personalità d’immagine mediatica, il messaggio da veicolare.
A differenza dei suoi maestri però, la sua costruzione ha un grave difetto, perché non ha ricambio e tutto si riassume in lui. Se fallisce, fallisce anche la sua creazione e deve essere completamente rifatta e ripensata, con probabile grave danno d’immagine.
Il centrosinistra ulivoniano invece, inseguendo la rotta berlusconiana che l’aveva messo in grave difficoltà, pedestramente ed in modo raffazzonato ha tentato di copiare pari pari gl’invidiati americani.
Non potendo avere un clone di Berlusconi con l’impronta ulivoniana, forse a malincuore, ha dovuto accettare di essere un apparato, invero un po’ malconcio perché risultante di una coalizione molto eterogenea e litigiosa.
Alle ultime elezioni politiche scelse così di sbattere in faccia ai nostri fruitori mediatici una bella faccia rutelliana dall’aspetto vagamente clintoniano e si lanciò in una campagna elettorale d’immagine tutta basata sulla denigrazione delle capacità e delle proposte dell’avversario. Questi a sua volta si guardò bene dal scendere su un tale terreno.
Si curò invece di pompare ben bene promesse faraoniche e, soprattutto, di mostrare l’immagine onnipresente ed onnicomprensiva di sé con dovizia di particolari e scaltrezza mediatica, perché questo, non altri, era il vero scopo che aveva senso propagandistico.
Il fatto è che in Italia, sempre di diversi anni indietro rispetto ai cugini d’oltreoceano, i leader politici incredibilmente riescono ad esser tali ancora per meriti propri.
In qualche modo riescono ad eccellere all’interno delle forze politiche d’appartenenza perché si impegnano personalmente, non perché vengono costruiti da professionisti dell’immagine.
Il loro lancio attraverso i media avviene successivamente alla conquista della posizione che sono riusciti ad assumere, quindi va adattato, per cui non può che essere pieno d’imperfezioni, almeno dal punto di vista dell’induzione e della fruizione mediatica.
Nel bel paese di casa nostra la politica, non so per quanto tempo ancora, continua ad avere il sapore di impegni personali, anche se invero molto annacquati rispetto ai tempi non lontani in cui era soprattutto ciò.

L’incantamento dei media

Comunque sia, siamo ormai immersi, temo forse irrimediabilmente, nella logica e nel senso dell’incantamento gestito dalle lobbies che hanno in mano il potere dei media. Il tempo del confronto e del dibattito delle idee, parlo di idee forti capaci di porsi a fondamento della costruzione sociale, sembra finito come patrimonio estensibile all’insieme della collettività. Oggi è il tempo della fruizione di massa, del tutto indotta e condotta da professionisti ad hoc, anche se per fortuna non sempre, e soprattutto non automaticamente, riesce a raggiungere i propri obbiettivi soporiferi. La politica, che in origine dovrebbe rappresentare il momento più alto della comprensione del come dovrebbero andare le cose della società e del perché vanno come vanno, è al contrario incanalata solo nella gestione del consenso al potere di turno, che, proprio nel conclamato trionfo della democrazia, sorta nell’immaginario collettivo per far assurgere il popolo a protagonista di se stesso, ha ormai ampiamente scalzato, impedendole, le poche possibilità di partecipazione dal basso che aveva al suo sorgere.
Siamo all’acme della visione schumpeteriana. Anzi, siamo addirittura oltre. Nella prima metà del secolo scorso, Schumpeter propose una dottrina della democrazia diversa da quella propugnata dalla filosofia liberaldemocratica settecentesca, motivando che la complessità delle attuali società rende impossibile un esercizio democratico secondo i dettami originari, attenti ad un’autentica sovranità popolare.
Con grande chiarezza e determinazione affermò che l’unica possibile partecipazione del popolo che avesse senso nella democrazia non poteva essere che il voto, il cui unico e vero scopo non può che essere quello di designare delle leadership politiche in competizione tra loro. Per lui la politica non può appartenere al popolo, ma è compito e competenza esclusiva dei leader che, designati, hanno il diritto-dovere di decidere per tutti.
Il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare.” (2).
Rappresentò una vera e propria svolta nella propugnazione democratica, al punto che non a caso è poi stato accolto e raccolto da tutti gli “scienziati” della politica successivi a lui e coralmente considerato un vero innovatore.
Per quel che mi riguarda, vivo una tale teorizzazione come il rientro con il tappeto rosso ai piedi del Leviatano, non monocratico come propugnava Hobbes, ma con lo stesso senso e lo stesso ruolo di governare gerarchicamente e di decidere dall’alto nell’esercizio del potere, questa volta ancora più legittimato di quello del monarca hobbesiano perché democraticamente eletto.
Ma, dicevo, nella fase che stiamo vivendo siamo addirittura oltre. Del resto Schumpeter, che vedeva la democrazia come un fatto essenzialmente procedurale ed aveva la preoccupazione di ristabilire, usufruendo appunto della procedura democratica, un comando gerarchico, guarda caso incarnato nelle leadership designate elettoralmente, non poteva prevedere l’avvento delle tecnologie mediatiche, non tanto come evento tecnicamente tecnologico, ma soprattutto come evento di modificazione strutturale del principio della conduzione democratica.
Qui siamo in tutto e per tutto all’interno dell’essenza delle cose.
La leadership designata, che per Schumpeter non può che essere la concreta protagonista, in realtà è sempre meno la vera detentrice del comando, mentre tende ad essere sempre di più mera facciata dell’induzione mediatica, gestita dal potere occulto non appariscente degli apparati, il quale invece è e rappresenta il vero detentore non dichiarato della decisionalità politica.

Illusioni e allusioni indotte

Con questo andazzo preminente, si è così determinata una separazione incolmabile tra gli addetti ai lavori, occulti e non, che esercitano il potere ed il resto della società.
Si è cioè realizzata una situazione che nella sostanza contraddice i termini e i principi su cui si fonda il presupposto della democrazia dichiarata.
Come viene affrontato allora il problema politico sostanziale che, come ho scritto all’inizio, consiste nel trovare il modo e le soluzioni per condurre, nella maniera più adeguata, il quotidiano che riguarda tutti i componenti dell’insieme sociale di riferimento?
Non può che essere affrontato mascherando, attraverso le illusioni e le allusioni indotte dal bombardamento mediatico, quale sia il vero stato delle cose, che corrisponde appunto all’estorsione costante del consenso elettorale dei cittadini per ricevere l’auspicata designazione ad esercitare il comando. Una volta ottenuta, l’esercizio del potere si svolge completamente al di fuori sia del controllo sia delle possibilità di partecipazione di tutti i sottoposti, sia che abbiano espresso un voto oppure no.
Si riproduce insomma, in modo ampio e determinato, il divario tra i detentori del potere reale ed i sudditi, che in Hobbes dovevano obbedienza piena ed incondizionata al monarca rappresentante l’unità del popolo secondo la giustificazione di un presunto contratto sociale, di fatto inesistente.
Nella democrazia rappresentativa schumpeteriana non esiste più il contratto a vita col sovrano, ma la designazione elettorale alle leadership, cui vengono demandati gli stessi compiti di esercitare il potere con le stesse motivazioni: assicurare unità e sicurezza e garantire al popolo, sempre suddito anche se ora in più è elettore, il soddisfacimento dei bisogni, oggi burocraticamente definiti servizi.
Si assiste cioè ad un cambiamento delle procedure e ad una ridefinizione filosofica del senso, mentre si lascia intatta la sostanza della conduzione politica, che corrisponde all’esercizio del potere per mezzo del comando, non più regalato alla volontà del sovrano, ma al rito della delega elettiva, che alla fin fine esprime un’equivalente imposizione, questa volta da parte del volere, non generale ma degli eletti, che a colpi di leggi, per la parte trasparente del loro operato, e di scelte non ufficiali, per la parte occulta che sostiene il potere, mettono in pratica lo stesso diritto del sovrano.
L’unica differenza sostanziale è che mentre il sovrano doveva essere accettato in toto, qualunque fosse il suo modo di comandare, e non poteva più essere sostituito se non attraverso rivolte cruente, le leadership, dovendosi conquistare il consenso per mezzo della competizione presa in prestito dalla logica del mercato, teoricamente possono essere sostituite.
Ma a ben vedere, una volta ottenuta la delega del potere, la qualità del rapporto tra i decisori ed i sudditi che devono subire le decisioni è identica nella sostanza, in quanto coloro che decidono, nell’atto e nel momento della decisione, non devono render conto che a se stessi, anche se psicologicamente, non strutturalmente, possono essere influenzati dalla cosiddetta opinione pubblica, che però è mediaticamente addomesticata sempre di più.
La sostituzione della leadership per volontà degli elettori, al di là di ciò che Schumpeter auspicava, è soprattutto solo una possibilità teorica, perché nei fatti risulta estremamente complicato renderla effettiva, in quanto per farlo gioca un ruolo fondamentale lo stato degli equilibri e dei giochi politici interni agli apparati. In sostanza l’elettore non è veramente protagonista di nulla, mentre esaurisce il suo compito partecipativo nell’essere unicamente milionesima parte nella designazione di chi poi avrà potere decisionale su tutti, esercitando la propria volontà e non quella di coloro di cui dovrebbe essere rappresentante.

Sconfiggere il dominio

Cosa bisogna fare allora per uscire da questa spirale dominante che ci attanaglia? Bisognerebbe rivoluzionare il senso e la volontà del nostro esserci politicamente.
A riflettere con cognizione ci si rende conto che alla fin fine ci sono sostanzialmente due modi per intendere il pensare ai fini della politica. Uno è quello vigente che stiamo analizzando, che è tale perché determinato soprattutto dalla preoccupazione di mantenere, al di là dei mutamenti che avvengono e di quelli che incombono, la logica di un potere per pochissimi, forti e prepotenti, che conservino la capacità di imporsi all’enorme massa dei più che, messi giocoforza in condizioni di debolezza, non possono e non debbono contare.
L’altro è quello che è impedito ad essere in atto, sia perché contrasta con quello vigente sia perché se riuscisse ad inverarsi inevitabilmente lo soppianterebbe. È un pensiero altro da ciò che tuttora esiste, che invece di preoccuparsi di come mantenere la logica di dominare le genti economicamente, politicamente e militarmente, si pone nell’ottica di trovare la maniera di sconfiggere il dominio in tutte le forme con cui può manifestarsi, da quelle più assolutiste e totalitarie a quelle all’apparenza più blande e democratiche. È un pensiero che ragiona per riuscire a realizzare società le cui forme politiche siano, finalmente, la messa in opera di una volontà comune e diffusa di non reggersi più per imporsi, per sfruttare, per dominare, ma per convivere attraverso la solidarietà, la fratellanza e la sorellanza tra uomini, donne e le altre specie viventi, con lo scopo consapevole e dichiarato di vivere in società fondate sulla libertà, la pace e la reciprocità, dove i conflitti vengano risolti col confronto, anche aspro, e non con la guerra e dove non si senta il bisogno di accumulare ricchezze sulla pelle delle moltitudini assoggettate. È un pensiero che in definitiva non può che essere anarchico, perché fondato sul principio della libertà non del dominio.

Andrea Papi

Note
1. Ilvo Diamanti, “La Repubblica”, domenica 10 ottobre.
2. Schumpeter Joseph, Capitalismo Socialismo Democrazia, pag. 257, Edizioni di Comunità, Milano 1964.