rivista anarchica
anno 34 n. 299
maggio 2004


anarchici

 

Bruma sul ponte

Non conosciutissimo in Italia (anche se ultimamente molti suoi romanzi sono stati pubblicati da Fazi Editore), ma ammirato quasi al pari di Simenon in Francia, il giallista Léo Malet (Montpellier 1909-Parigi 1996), personaggio singolare nel panorama letterario d’oltralpe, fu assiduo frequentatore degli ambienti anarchici parigini e, anche se le sue peripezie lo allontanarono, negli anni della maturità, dalle amicizie giovanili, il suo distacco dal mondo e, soprattutto, dal pensiero libertario, non fu mai totale. Di modeste origini e uomo dai mille mestieri (lavabottiglie, fattorino, chansonnier, operaio, impiegato, scaricatore, strillone), quella di Malet è una biografia ricca e movimentata. Negli anni venti e trenta, dopo un breve periodo trascorso in carcere, lo troviamo fra i collaboratori e diffusori di riviste quali «l’en-Dehors», «L’Insurgé», «La Revue Anarchiste», poi esponente del movimento surrealista, amico di Breton e Dalì, quindi occasionale aderente al movimento trotzkista. Nel 1940 è nuovamente in prigione con l’accusa di avere attentato «alla sicurezza interna ed esterna dello Stato» e poco dopo viene catturato dai tedeschi e inviato, per quasi due anni, in campo di concentramento. Tornato in libertà, inizia la sua carriera di giallista (sono circa settanta i suoi lavori) dando vita a numerosi personaggi, tra i quali il più conosciuto è l’investigatore privato Nestor Burma, anch’esso anarchico in gioventù e ancora fortemente influenzato, nel giudicare il mondo e le situazioni nelle quali si trova ad indagare, dalle idee libertarie che avevano infiammato la sua giovinezza.
Inevitabile, dunque, viste queste frequentazioni e le caratteristiche della sua creatura, che il milieu dell’anarchismo parigino diventi quasi una costante delle sue opere. Così nel famoso Chilometri di sudari il deus ex machina è un miliziano francese morto nel 1936 combattendo nella Colonna Durruti, e non è un caso che in Nebbia sul ponte di Tolbiac, uscito nel 1956 e giudicato fra i suoi lavori più riusciti, i protagonisti siano alcuni degli ex componenti di un Centro vegetaliano anarchico situato nel cuore del XIII Arrondissement. Uno di loro, Abel Benoit Lenantais, ex calzolaio soprannominato Liabeuf ed ora rigattiere, rimasto fedele anche in tarda età ai rigorosi costumi libertari, viene misteriosamente accoltellato nella propria abitazione, ma prima di morire riesce a raggiungere, con un messaggio affidato a una misteriosa gitana, l’antico compagno Burma, avvertendolo così del pericolo che incombe su altri camarades già frequentatori del vecchio sodalizio. Nel corso delle indagini, complicate dalla misteriosa presenza della bella zingara e ricche degli immancabili colpi di scena di un «giallo» che si rispetti, l’investigatore ritrova altre antiche conoscenze, più o meno memori degli antichi ideali, ma tutte ancora significativamente segnate da quella specie di imprinting che deriva da una adesione anche saltuaria all’anarchismo. Va da sé che l’intreccio, lo svolgimento di questa intricata storia piena di ombre e di luci, nasca e muoia nell’ambito degli antichi habituées della comune vegetaliana, in una fosca resa dei conti di avventurose vicende e ambigue complicità, nate trent’anni prima e quindi amaramente svelate e risolte da Nestor Burma. E l’amarezza dell’investigatore, quando si ritrova a riannodare i fili di storie nate nell’entusiasmo dell’ideale e risoltesi nella banalità del delitto, è la stessa che Léo Malet affida, cinicamente, alle parole con cui l’assassino confessa il proprio misfatto: «Abbiamo litigato e l’ho pugnalato. Ho reso un servizio alla società perché quel Lenantais era un puro. Vale a dire molto più pericoloso per la società di molti altri».

Personaggi originali e strampalati
Senza dubbio, nell’invenzione di queste storie «anarchiche», c’è una certa condiscendenza, da parte di Malet, verso la sensibile curiosità di un lettore facilmente affascinabile dalla descrizione di situazioni e personaggi originali, stravaganti e vagamente strampalati, quali appaiono, ad esempio, nelle pagine sulla Comune vegetaliana. Ma l’ironico distacco con il quale l’autore rimarca la frattura definitiva con le sue precedenti esperienze politiche e sociali, lascia trasparire pur sempre una venatura di affetto, e anche di rispetto, che non fatichiamo a credere più che sincera e motivata dall’avere riconosciuto, invecchiando, la peculiare dimensione spirituale ed intellettuale del pensiero libertario. E del resto l’anarchismo francese, forse perché cosmopolita crocevia delle obbligate migrazioni degli anarchici di mezzo mondo, non ha mancato di dar vita a personaggi e correnti filosofiche che spesso, ben più che in Italia, hanno rischiato di apparire come bizzarre caricature di un estremismo esistenziale da noi sostanzialmente sconosciuto.
Se, infatti, le correnti organizzatrici e sindacaliste sono state, in Francia, particolarmente forti e capaci di influenzare anche il percorso del nostro anarchismo organizzato, altrettanta importanza e diffusione hanno avuto quelle tendenze che esprimevano un rifiuto totale dell’azione sociale e di propaganda per rifugiarsi ora nell’illegalismo più o meno estremo, ora nella edificazione di una vita «altra» e separata rispetto alla società. Tendenze che non hanno mancato di esprimersi ovunque fossero diffuse le idee libertarie, ma che in Francia più che altrove hanno trovato fortuna e ragion d’essere. Se da una parte, infatti, i lettori del «Père Peinard» ritrovavano nello scoppiettante argot di Emile Pouget e dei suoi collaboratori il linguaggio dei bassifondi e di quel sottoproletariato urbano, tanto generoso quanto tenacemente illegalista e pericoloso per l’ordine borghese, a cui appartenevano, dall’altra parte diversi discepoli della diade Libertà e Uguaglianza sperimentavano, nella più coerente delle pratiche nonviolente, anche se non sempre legalitarie, gli insegnamenti della scuola neo-Malthusiana, precorritrice della liberazione sessuale degli anni sessanta, espressi dai vari Charles Albert, Eugéne e Jeanne Humbert, Mauricius, René Chaughi, Sebastien Faure ed E. Armand. Profeti di un mondo nuovo, libero dai condizionamenti di una morale codina e repressiva, assertori della necessità che un’umanità sempre più soffocata dalle convenzioni sociali trovasse finalmente la capacità di uniformarsi alle sole leggi accettabili (vale a dire quelle naturali), questi anarchici, che alcuni begli spiriti avrebbero potuto trovare stravaganti, pagarono comunque con lunghi anni di carcere e di emarginazione il fio della loro irriducibile estraneità ad ogni forma di potere. Liberi dagli schematismi, attenti solamente al rispetto delle individualità altrui e delle rispettive differenze, gli uni e gli altri, tanto i proletari illegalisti quanto i sognatori di un mondo nuovo, si ritrovavano a discutere, probabilmente, nel Centro anarchico vegetaliano del XIII Arrondissement, quello stesso al quale Malet, avendolo evidentemente frequentato, si è ispirato, in questo suo Nebbia sul ponte di Tolbiac.

Massimo Ortalli

 

«Maledetto anarchico!»
di Léo Malet

Gli restituii prima la stretta, poi la mano e risi:
«Per fortuna che non sono un poliziotto. Altrimenti la segnalerei ai suoi superiori. Cos’è questo vocabolario? Aderisce forse a una cellula comunista?».
Replicò anche lui ridendo:
«È a lei che bisogna chiederlo».
«Io non sono comunista».
«È stato anarchico. Forse lo è ancora. Per me, è la stessa cosa».
«È ormai molto tempo che non lancio bombe», sospirai.
«Maledetto anarchico!», ridacchiò l’ispettore.
Sembrava divertirsi sul serio.
«Oh! Ma smettiamola! Signor Mac Carthy», dissi. «Ha mai sentito parlare di Georges Clemenceau?».
«La Tigre?».
«Si, la Tigre. O, se preferisce, il Primo Poliziotto di Francia, come si è autodefinito lui. Purché mi lasci in pace, le ripeterò quello che ha detto un giorno la Tigre, detto o scritto, cito a memoria: “L’uomo che a sedici anni non è stato anarchico è un imbecille”».
«Davvero? La Tigre ha detto questo?».
«Si, vecchio mio. Non lo sapeva?».
«Ma si, certo...».
Sospirò:
«…La Tigre!…».
E con un gesto automatico gettò uno sguardo in direzione dell’orto botanico.
Poi, tornando a me:
«…La sua citazione mi sembra incompleta. Non ha per caso aggiunto: “…ma lo è – imbecille – anche chi è ancora anarchico a quaranta”, o qualcosa del genere?».
«È esatto. Ha aggiunto qualcosa del genere».
«E allora?».
Sorrisi:
«Tra le affermazioni di Clemenceau bisogna fare una cernita. Io ne scarto non poche».
Sorrise a sua volta:
«E lei però non è un imbecille!».

 

«Un buon amico»
di Léo Malet

«Forse non si considerava né Martine Carol, né Juliette Greco. Era un tipo originale».
«Sì. Mi dia qualche informazione su di lui. Al punto in cui siamo… tanto è morto. Le chiacchiere non possono più fargli alcun male».
«Cosa vuole che le dica? Era un bel tipo, un buon amico. Era calzolaio e, a causa del suo mestiere, che esercitava a intermittenza, lo chiamavamo il Ciabattino. Sempre per via del suo mestiere lo chiamavamo anche Liabeuf sebbene non avesse mai ucciso nessuno, né uno dei vostri colleghi né un normale cittadino».
«Effettivamente sono i nomi che figurano nel casellario giudiziario. Allora? Nessun errore?».
Prima di rispondere esaminai un’altra volta, e molto a lungo, il viso severo, indurito dalla morte. Gli tolsi i baffi, gli aggiunsi i capelli biondi indisciplinati, capelli da anarchico. Quello e il naso, tornava tutto.

«Un malfattore onesto»
di Léo Malet

«Torniamo al tatuaggio», disse. «Ricorda cosa rappresenta?»
«Tatuaggi, al plurale. Una moneta sul braccio e “Né Dio né Padrone” sullo stomaco».
«Esatto», disse il poliziotto.
«… una moneta».
Prese il lenzuolo da sotto il mento del morto per abbassarlo fino alla vita. L’iscrizione sovversiva, che decorava i suoi pettorali, era di un blu slavato. La D di Dio non era più visibile. Una brutta ferita d’arma bianca l’aveva cancellata in modo più definitivo di quanto avrebbe saputo fare un professionista. Un altro profondo sfregio sottolineava la parola “Padrone”. Sul grasso del braccio destro era disegnata una moneta con l’immagine della Seminatrice.
«Né Dio né Padrone», sospirò l’ispettore. «Non molto originale per un anarchico».
«E stupido, soprattutto», dissi. «Anche se ero più giovane di lui, e di parecchio, all’epoca ero un ragazzino, ricordo di averlo rimproverato per esserselo fatto».
«Non le piaceva lo slogan? Credevo che…».
«Non amavo, e continuo a non amare, i tatuaggi. Bisogna essere imbecilli per farsi tatuare».
«Oh! Lo sono spesso anche i re!».
«Una cosa non nega l’altra. E poi, i re hanno la pappa pronta. Possono concedersi qualsiasi fantasia. Mentre… Cerchiamo di capirci, ispettore, non era esattamente un santo, per lo meno non del genere che viene abitualmente venerato…».
Tirai su il lenzuolo fino alla calvizie quasi oscena del cadavere. Il guardiano in casacca grigia completò l’opera con un gesto preciso e meticoloso, quasi materno.
«… Anche se non era apertamente favorevole all’illegalità, Lenantais non era nemmeno del tutto contrario», proseguii. «Prima che lo conoscessi era stato coinvolto in una storia di banconote false. Ecco perché ho fatto riferimento alle sue impronte. Ad ogni modo, era stato al fresco, vero?»
«Esatto. Si è preso due anni».
«Quando l’ho conosciuto era tranquillo e, glielo ripeto, anche se non si dichiarava apertamente a favore dell’illegalità perché non voleva fare proselitismi, la questione non era risolta, si capiva che, presto o tardi, l’illegalismo lo avrebbe sedotto di nuovo. E io pensavo che quando uno è destinato a entrare in aperto conflitto con la società non deve esporsi e attirare inutilmente l’attenzione. I mezzi di identificazione dei recidivi sono già sufficientemente numerosi. Inutile fornirne dei supplementari ai poliziotti».
I1 guardiano spalancò gli occhi rotondi. L’ispettore rise:
«Benissimo! Vedo che, malgrado la giovane età, dava già ottimi consigli!».
Gli feci eco. A ciascuno il suo turno:
«Ho conservato questa qualità”.
«Bene, e dove ha conosciuto questo fuorilegge?».
«Non lontano da qui. Anche questo è buffo, no? In trent’anni non si può dire di aver fatto molta strada. L’ho conosciuto al Centro vegetaliano di rue de Tolbiac».
«…riano. Voleva dire vegetariano».
«No, vecchio mio. Ma cosa vi insegnano a scuola? Vegetaliano. I vegetariani non mangiano carne, ma si concedono uova e latticini. I vegetaliani invece mangiano, mangiavano, almeno quelli che ho conosciuto io, non so se ne esistano ancora, esclusivamente vegetali, con appena un filo d’olio di oliva per condirli. E nemmeno loro erano dei puri. Ce n’era uno che sosteneva che l’unico modo accettabile di consumare l’erba era brucarla a quattro zampe in un campo».
«Ma dice sul serio? Che mondo!».
«Sì, uno strano mondo. Ho passato la vita a circondarmi di fenomeni. Ne ho una bella collezione nei miei ricordi».
Puntò l’indice verso il corpo rigido:
«E Lenantais? Sappiamo che non fumava, non beveva, non mangiava carne. Era anche lui un pazzo di quel genere?».
«No. Cioè, ai vostri occhi potrebbe anche sembrare un pazzo, ma di un’altra categoria. Le racconto un episodio. C’è stato un periodo in cui era quasi un barbone. Anzi, senza il quasi. Viveva alla bell’e meglio…».
«Rubacchiando qua e là?».
«Non credo. Oppure visitava solo negozi da fame, perché non mangiava tutti i giorni. Ora, a quell’epoca era tesoriere di una piccola organizzazione. Gli avevano dato l’incarico prima che si riducesse in miseria…».
«Capito. Ha sgraffignato il malloppo?».
«No, appunto. C’erano cento o duecento franchi in cassa. Era il 1928 e allora erano una discreta somma. Gli altri se ne erano fatti un vero e proprio cruccio e non osavano parlarne, pensando, come lei, che lui se ne fosse accaparrata sicuramente una parte. E invece no! Restava giorni senza mangiare accanto a quel malloppo senza toccarlo. Erano i soldi degli amici, dell’organizzazione. Ecco che tipo di uomo era Albert Lenantais quando l’ho conosciuto».
«Insomma, un malfattore onesto!», ironizzò l’ispettore.

A dieci gradi sottozero
di Léo Malet

Tornò a sedersi sullo sgabello. Poco dopo l’adolescente raggiunse il proprio letto e vi si distese. Da dove si trovava, con le mani incrociate sotto la nuca, poteva vedere la sveglia. Alle quattro sarebbe dovuto andare al lavoro. Maledetta neve! Se fosse caduta fitta come il giorno prima non sarebbe stato per niente piacevole vendere i giornali sotto la burrasca, ma bisognava pur mangiare. Non doveva lasciarsi abbattere come lo spagnolo. No, non doveva. «Albert Lenantais sembrava disapprovarmi», pensò l’adolescente, «quando ho parlato di viaggiare senza biglietto». E però… se quello che si raccontava era vero, il Ciabattino aveva fatto due anni di prigione per complicità con dei falsari. L’adolescente si sorprese a porsi delle domande su Lenantais, detto il Ciabattino, detto Liabeuf. Cosa che si rimproverò l’istante dopo. Tra anarchici non si fanno domande. L’adolescente smise di fissare le lancette della sveglia, si sistemò sul letto e abbracciò con lo sguardo l’intera fila di miseri letti. In fondo alla stanza, tre uomini quasi mescolavano le loro opulente capigliature per discutere aspramente un punto delicato di argomento sociobiologico. Più vicino, steso sul letto, sognante, calmo e solitario, un giovane fumava beatamente una pipa dal lungo cannello. Lo chiamavano il Poeta, ma nessuno aveva mai letto i suoi versi. Sotto le coperte, lo spagnolo si agitava. Il suo vicino russava protetto da un manifesto che annunciava per la sera stessa, alla Casa dei Sindacati, boulevard Auguste-Blanqui, la seduta del «Club degli Insorti». Argomento trattato: Chi è il colpevole? La Società o il Bandito? Oratore: André Colomer. Quello che russava aveva passato la notte, con un bicchiere di latte in pancia come unico viatico, a incollare quei manifesti in tutto l’arrondissement, a dieci gradi sottozero, e da bravo attacchino clandestino si era preso cura di strappare un angolo di ogni manifesto, per ingannare la polizia, per farle credere che in quel brandello scomparso, verosimilmente strappato da vandali, fossero stati apposti i sigilli obbligatori. Il suo armamentario, un secchio da marmellata da cui emergeva il manico di un pennello, riposava alla testa del letto, accanto a uno zaino vuoto e a una cassa straripante di giornali.

 

Mancanza di sincerità
di Léo Malet

«Ma lascia perdere, Lacorre», intervenne Lenantais senza muoversi dalla sua postazione, senza nemmeno sollevare gli occhi dal volantino che stava leggendo. «Lascia perdere. Cosa vuoi che faccia? Ti credi forse più anarchico di lui?».
La sua voce era fredda, tagliente come una lama. Lenantais non amava Lacorre. Sentiva istintivamente, sotto gli eccessi verbali, una mancanza di calore interiore e di sincerità.
«Certamente», rispose l’altro.
Lenantais abbandonò il volantino:
«Mi domando se tu sappia anche solo lontanamente cosa significhi. È bello arrivare un giorno e dire “Sono un compagno”. È molto bello, semplice e facile. Da noi chiunque può entrare e uscire come vuole. Non si fanno domande a chi si presenta».
«Ci mancherebbe altro!».
«Ciò non significa che secondo me un anarchico sia un’altra cosa, ecco tutto».
«Spiegamelo allora!».
«Non ho tempo da perdere».
«In ogni caso», disse Lacorre, «un anarchico che ha il senso della dignità non adotta un’attitudine passiva e rassegnata come questo giovanotto. Non si abbassa a vendere questa robaccia borghese. Si difende, se la cava, si mette a rubare…».
«Eccoci al punto!».
«Esattamente!»
«Sono tutte stronzate! Ognuno è libero di fare la vita che vuole purché non offenda in nulla la libertà dei compagni. Lui vende i giornali. Tu simuli incidenti sul lavoro. Siamo tutti liberi…».
«Se gli illegalisti…».
Lenantais si alzò:
«Gradirei non essere seccato con l’illegalismo e la riconquista individuale», articolò. (Il naso di traverso fremeva). «È un argomento vietato agli incapaci che simulano incidenti sul lavoro e sudano di paura all’annuncio di una visita di controllo nella sede dell’assicurazione. Fino a quando non hai assalito un esattore, devi solo chiudere il becco. Parlare! Parlare! Ne ho conosciuti anche troppi di questi teorici bravi a parlare che però restavano tranquilli a casa loro mentre altri poveri coglioni passavano all’azione e si facevano beccare».
«Soudy, Callemin, Garnier…», cominciò Lacorre.
«Hanno pagato», l’interruppe Lenantais. «Hanno pagato due volte. Hanno pagato e io li rispetto. Ma tu, se li avessi capiti almeno un po’, se avessi capito quanto erano superiori a un semplice furfante come te, non li offenderesti con i tuoi omaggi».
Lacorre si imporporò:
«Per parlare così hai forse assalito anche tu un bancario?».
«Anch’io ho pagato. Mi sono beccato due anni di prigione per aver falsificato del denaro, i compagni te lo possono raccontare. Non ne vado assolutamente fiero, ma mi sembra un’altra cosa rispetto ai finti incidenti sul lavoro».
«Non continuerò così per sempre», gridò Lacorre. «Un giorno mi ci butterò davvero e vedrete di cosa sarò capace. Lo farò ruzzolare anch’io un esattore».
«Oh! Non ne dubito», lo canzonò Lenantais. «Mi stupirebbe se tu non riuscissi a fare una cosa così intelligente. E quando avrai fatto fuori uno di quegli imbecilli che portano in giro delle fortune in cambio di un tozzo di pane, finirai in galera o salirai alla ghigliottina, senza nemmeno aver avuto il tempo di comprarti un cappello con il ricavato del colpo. Io ci tengo alla mia vita. E non mi sorride affatto l’idea di dispiegare la mia individualità tra quattro assi o in galera. L’ideale, vedi…». (Si mise a ridere). «… sarebbe assalire un esattore senza spargimento di sangue e senza che la cosa si venga a sapere, e vivere di quella fortuna acquisita in modo disonesto, ammesso che esistano fortune che non siano state acquisite in modo disonesto, nella totale impunità. Ammetto però che un progetto del genere non è per niente facile da realizzare».
Lacorre alzò le spalle con uno sguardo di pietà:
«Direi di sì. Queste sono fesserie. E grosse anche. Mi fanno venire il mal di pancia!».
Si alzò e si avviò verso l’uscita. Furioso, sbatté la porta dietro di sé. Il suo interlocutore rise piano e, siccome la notte iniziava ad allungare dappertutto le sue ombre, andò a manovrare un interruttore. Qualche lampadina anemica, fissata al soffitto dell’ampia sala, diffuse una luce giallastra. Lenantais tornò a sedersi accanto alla stufa. Gli uomini dai capelli lunghi continuavano a discutere a voce bassa, troppo assorti nel loro dibattito per interessarsi a ciò che aveva visto opporsi – ancora una volta – Lenantais a Lacorre. Il Poeta aspirava silenziosamente dalla pipa. L’adolescente si dedicava ai propri calcoli. Lo spagnolo e l’attacchino dormivano.

Brani tratti da: Léo Malet, Nebbia sul ponte di Tolbiac, Fazi Editore, Roma, 2002.

 

Una specie riconoscibile
di E. Armand

Della solidarietà imposta
L’uomo è un essere socievole e l’individualista che fa parte del genere umano non fa eccezione alla regola. L’essere umano non è socievole per puro caso, poiché la sua organizzazione o costituzione fisiologica lo costringe a ricercare, per completarsi, per riprodursi, uno dei suoi simili di sesso diverso. In linea di massima, si può pertanto costatare che gli uomini praticano la sociabilità senza riflessione o sotto la minaccia di una violenza: a scuola, in caserma, più tardi all’officina, essi vivono una gran parte della loro esistenza in comune con degli individui verso i quali nessuna simpatia li spinge; nelle grandi città, dimorano in immensi edifici, altra specie di caserme, uscio a uscio con dei vicini ai quali non li unisce alcuna affinità intellettuale o morale. Sovente, si sposano anche senza conoscersi, senza avere alcuna conoscenza dei rispettivi bisogni.

Gli individualisti anarchici considerati come “una specie”
Ora, è appunto questo che non vuole l’individualista anarchico. Egli non intende essere schiavo della sociabilità imposta, più di quanto intenda mettersi sotto il giogo della solidarietà forzata. Egli potrà associarsi ai suoi compagni, agli individualisti, a quelli del «suo mondo», della «sua specie». «A quelli della sua specie» è proprio la espressione adatta, giacché non è possibile negare che gli individualisti formino, in mezzo al genere umano, una specie riconoscibile da delle caratteristiche psicologiche ben determinate. Gli individui che, scientemente, ripudiano le dominazioni e gli sfruttamenti di ogni specie, vivono o tendono a vivere senza idoli o padroni: cercano di riprodursi in altri esseri al fine di perpetuare la loro specie e di continuare la loro fatica intellettuale o pratica, la loro opera di emancipazione e, insieme, di distruzione: codesti individui formano bene una specie a parte, nel genere umano, una specie assai differente dalle altre specie di uomini, così come, nella specie canina, il terranova differisce dal botolo.
Intendiamoci bene: non si tratta già di fare dell’individualista anarchico un “superuomo” fra gli uomini, più di quanto non si tratti di fare del terranova un “supercane” fra i cani. Esiste pertanto una differenza: il terranova è un tipo fisso che non evolverà; il tipo individualista evolverà. Esso compie nel genere umano, la funzione esercitata dalle specie dei veggenti e dei precursori nella evoluzione degli esseri viventi. Si può anche assimilarlo a quei tipi meglio dotati, più vigorosi, più atti alla lotta per la vita, che appaiono ad un certo momento in seno ad una specie e finiscono con determinare il divenire di questa specie. Con le loro imperfezioni, le loro manchevolezze, i loro errori, gli individualisti anarchici, costituiscono, noi pensiamo, allo stato latente il tipo dell’uomo futuro: l’individuo dallo spirito libero, dal corpo sano, dalla volontà educata, pronto all’avventura, disposto all’esperienza, vivente pienamente la vita, ma che non vuole essere un dominato più che un dominatore.

Il «mutuo appoggio» nella specie. Il cameratismo
L’individualista non è, dunque, un isolato nella sua specie. Fra di loro gli individualisti praticano il «cameratismo»: come tutte le specie in costante pericolo d’essere attaccate, essi tendono istintivamente alla pratica del «mutuo appoggio nella specie». Ritorneremo più tardi su talune delle forme che può assumere questo «mutuo appoggio». Comunque, esso tende alla scomparsa della sofferenza evitabile nella specie: non è un compagno chiunque tenda, al contrario, a prolungare o ad aumentare la sofferenza dei propri compagni.
L’individualista incita colui che vuol procedere con lui a ribellarsi praticamente contro il determinismo dell’ambiente sociale, ad affermarsi individualmente, a forgiare la propria personalità interiore, a rendersi quanto più possibile indipendente da tutto l’ambiente morale, intellettuale, economico che lo circonda. Egli spingerà l’ignorante ad istruirsi, l’indolente a reagire, il debole a diventar forte, il supino a raddrizzarsi. Egli indurrà coloro che sono male dotati ed i meno atti a trarre soltanto da loro stessi tutte le risorse possibili, ed a non fare assegnamento su gli altri.

Brani tratti da: Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, Firenze, 1956.