rivista anarchica
anno 34 n. 298
aprile 2004


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Un ermetico chiaro per questo tempo oscuro

Note in margine al libro di De Regibus su Francesco De Gregori.

È uscito da qualche mese un libro importante, una ricca biografia di Francesco De Gregori, molto ben documentata nella proposizione e nell’analisi delle fonti e innovativa nell’esposizione.
L’ha scritta uno dei migliori giornalisti musicali italiani, Enrico De Regibus, ed è un libro di inusitato valore critico nell’editoria di genere italiana, quasi totalmente dominata dalle agiografie pubblicitarie.
Il volume si pone l’ingrato compito di rintracciare, seguendo l’intero percorso artistico del cantautore romano, le contemporanea Storia italiana. Capitolo per capitolo si svolgono, come uno specchio nello specchio, le vicende del belpaese e quelle dell’ottimo Francesco, e, quasi sempre, è lasciata al solo lettore, con una grande sapienza di scrittura che non sconfina mai nella forzatura, la sintesi fra le due cose.
Ovviamente l’autore non tace le proprie opinioni, anzi battute taglienti e giudizi critici, anche molto severi, costellano ogni passaggio, ma, fatta salva la passione (lo dico nel senso più alto del termine) per il cantautore e l’amarezza per gli anni di passione (detta in tutt’altro senso) dell’Italia, il libro si presenta come un’opera di insolita onestà intellettuale. De Regibus è riuscito nell’alchimistico disegno di tenere in perfetto equilibrio, sul filo di quasi duecentocinquanta pagine, Storia D’Italia dal dopoguerra a oggi, vita artistica e opinioni del signor De Gregori Francesco e proprio personale giudizio critico sull’una e sull’altro. Non è affatto poco…anzi si può dire che, dopo questa pubblicazione, esista oggi in Italia uno strumento critico come non ne esistono altri per la quasi totalità dei cantautori italiani.
Per quel che mi riguarda, la lettura di questo volume è servita da stimolo per ripensare tutte le mie opinioni in merito a questo grande artista. Nella mia infinita immodestia provo ad infliggervene alcune.
Ho avuto uno storia difficile con Francesco De Gregori.
Quando cominciai a interessarmi di cantautori, lui era senza dubbio, saldamente e da anni, un punto di riferimento, una stella polare. Lo era soprattutto dal punto di vista della costruzione di un linguaggio personalissimo e riconoscibile, il suo linguaggio, quello che, con un’enorme dose di sciatteria critica e malafede, era stato impropriamente definito, sin dalle origini, ermetico.
Apriamo una parentesi. Come tutti le lingue poetiche anche quella elaborata da De Gregori è uno strumento fatto di un connubio di significato e musicalità, di termini tratti dal dire comune e da parole di un proprio lessico familiare, perfettamente chiare all’apparenza, ma in realtà cabalistiche porte aperte verso il di dentro; un linguaggio poetico è sempre la mappa di un tesoro, con segnali disseminati e ricorrenti (pensate, appunto nel nostro caso, quante volte nelle canzoni di De Gregori ricorra la parola “fantasia”); il tesoro però non è mai la mappa in sé, il tesoro è per definizione altrove, l’arte può dare delle indicazioni, ma il tesoro non è né dell’artista né del pubblico: il tesoro è di tutti. Fine della parentesi.
Il linguaggio/strumento di De Gregori, come tutti gli strumenti, si prestò ad infinite strumentalizzazioni (lo dice appunto la parola!) da parte degli epigoni, che egli ha avuto in numero decisamente impressionante fra la fine degli anni 70 e tutti gli ’80 (oggi siamo, e da un bel po’, nell’epoca della derivazione incrociata da Conte/Waits… se non addirittura dei loro figli dei figli). Le colpe dei padri non ricadono sulla prole, può darsi, ma spesso avviene il contrario… sicché io quindicenne storcevo il naso davanti a tutti i degregoriani e, di converso, un po’ anche davanti a De Gregori stesso… la bellezza struggente di molti suoi pezzi (Santa Lucia, Titanic, Bufalo Bill, ecc…) ovviamente mi toccava nel profondo da sempre, ma non lo confessavo nemmeno a me stesso, e anzi mi andavo ripetendo che l’incomprensibilità di alcune metafore serviva solo da paravento alla vuotezza sostanziale…mi sarei reso conto che tutto questo erano vecchie storie, banalità e puttanate, ma lo pensavo e lo confesso!
Furono proprio le riserve espresse da molti amici sui dischi più recenti, diciamo dopo “Scacchi e tarocchi”, a convincere il mio spirito bastiancontrario al riesame di questo personalissimo caso. La scoperta fu luminosa: De Gregori parlava chiarissimo, tagliente come un bisturi nella carne della malafede sociale. Finita l’epoca dell’impegno iper-esteriorizzato, da cui lui si era ben guardato, ecco che, nella decadenza generale delle coscienze, il cantautore diceva fuori dai denti di “sangue su sangue” nelle scatole nere di Ustica, di vecchie uova di serpente appena dischiuse, del suo stare dalla parte di “chi ruba nei supermercati” piuttosto che da quella di “chi li ha costruiti…rubando”, di ragazze slave “venute allo sprofondo”, fino ai recenti impagabili versi che aprono il disco “Amore nel pomeriggio”: “La musica etnica/la contaminazione/l’ultimo rifugio dei vigliacchi la comunicazione”. Pochi hanno oggi il coraggio di prendersela così frontalmente, non solo con i responsabili dello sfascio presente, ma anche con le pessime idee guida di questo tempo miserabile.
La personale rielaborazione della protest-song che De Gregori propone nei suoi dischi più recenti sortisce in effetti uno dei pochi casi in cui una canzone concepita con espliciti intenti di critica sociale (se non di lotta) riesca ad essere sottilmente inquietante piuttosto che consolatoria, a seminare dubbi e indignazione piuttosto che ad accarezzare con certezze date per scontate un pubblico già acquisito ai propri ideali.
Per meglio servire questi testi aspri, De Gregori ha fatto subire nel frattempo alla sua musica un’evoluzione che tira decisamente al Rock, senza però rinunciare del tutto a quell’interessante e giocoso alternarsi di accordi che nei suoi primi dischi riusciva a costituire un mondo sonoro orecchiabile e inatteso al tempo; la strumentazione dei suoi arrangiamenti, come dei suoi concerti, si è fatta via, via più elettrica, forse ad evitare che l’abuso del proprio talento melodico, che dalla “donna cannone” alla bellissima “valigia dell’attore”, è indiscutibile, renda sdolcinato il suo repertorio.
Salutari frustate, insomma, quelle che è si propone di somministrare questo “cantautore che piace alle ragazzine”.
Due parole la merita anche la gestione del proprio personaggio pubblico che a me pare particolarmente degna di stima: De Gregori è quanto in Italia, fra i cantautori storici, più si avvicini al mito della Rock-star, con stuoli di fans che lo fanno oggetto di un culto personale; con grande coerenza però egli non si presta a nessuna piaggeria, né gioca il facile gioco dell’antidivo, e persegue la carriera di un grande professionista dei palchi, continuamente in concerto, ovviamente fra alti e bassi, e proprio per questo eternamente esposto alla critica come all’apprezzamento di chi lo va ad ascoltare, senza mai però dover leccare il culo a nessuno, e per nessuno intendo esplicitamente giornalisti, pubblico e potentati televisivi.
Badateci, oggi tutti i concerti vengono presentati come l’evento per antonomasia…lui, che fu uno dei protagonisti del primo evento musicale italiano (la tournèe, in coppia con Lucio Dalla, “Banana Republic”) oggi tira dritto e continua a proporsi come un onesto lavoratore dello spettacolo.
La voglia di documentare questo lungo correre su e giù per i palchi, con la pubblicazione di molti dischi dal vivo, ha però ancora una volta attirato aspre critiche al nostro: secondo i suoi detrattori il suo sarebbe un comodo modo di essere eternamente presente sul mercato, anche nei periodi di crisi d’ispirazione. Per quanto mi riguarda trovo invece interessante questo continuo ritornare sulle proprie opere, questa concentrica rielaborazione interpretativa, che denota la filiazione da Dylan, nel senso della profonda comprensione della radice popolare che sta alla base del miglior rock, e che vuole che la musica non esista come opera definita una volta per tutte, ma piuttosto come materia viva in continuo movimento; in questo senso anzi è De Gregori stesso a confessarci che tali operazioni sono come fotografie di un soggetto eternamente in fuga, documenti che possono tentare di riprodurre la vita, senza essere vita essi stessi e proprio perciò necessitano di una continua messa a fuoco.
Quello che emerge dal libro di De Regibus (“Quello che non so, lo so cantare”, ed. Giunti, € 12,50) è insomma questo stesso De Gregori di cui stiamo parlando: un artista complesso, con una traiettoria di non facile identificazione e che trovò sin da subito nobili detrattori, si pensi solo al famoso articolo di Giaime Pintor che stroncava senza appello proprio il disco dell’esplosione del fenomeno De Gregori “Rimmel”.
Un artista fra i più rivoluzionari sul piano linguistico, capace di influenzare, già nei primi anni di carriera, non solo gli epigoni ma finanche i suoi stessi “maestri”: come non ricordare che persino Fabrizio De André lo coinvolse nella scrittura a quattro mani di un intero disco, il volume VIII, che, pur non essendo uno dei suoi più belli, resta cruciale nell’evoluzione della scrittura deandreiana?
Un artista caparbiamente impegnato a rendere note le proprie idee senza usarle, ma anche senza farsi usare in loro nome.
Un artista infine degno di analisi attente come appunto quella che propone questo libro, che sarà gradito da tutti gli ammiratori del cantautore, ma che, proprio perché non lesina spunti critici – fin eccessivi – nei confronti della sua opera (ad esempio io non condivido la tiepidità di giudizio sullo stupendo disco “Terra di nessuno”, e in particolare sulla canzone “Pane e castagne” che a me pare un vero capolavoro), è assai godibile da chiunque ne sia anche solo interessato, e, perché no, anche da chi, pur ammirandone qualche canzone, provi una viva antipatia per lui e le sue idee…
Idee che, come abbiamo detto, De Gregori non nasconde, e che sono anche molto distanti da quelle della maggior parte dei lettori di questo giornale (nonché dalle mie), ma che non gli impedirono di dare nel 1975 al Teatro Uomo di Milano un famoso concerto di sostegno proprio alla “Rivista anarchica”, dividendo il palco con la nostra cara compagna Paola Nicolazzi.
E anche queste cose gli anarchici non le dimenticano.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

Milano, 10 ottobre 1975. Il poster di convocazione del concerto di Francesco De Gregori in sostegno di "A"