rivista anarchica
anno 34 n. 298
aprile 2004


 

L’apocalisse
e il cantico

In fondo a una tonnellata di rabbia si trova la dolcezza dell’uomo.
Quella miseria delle nostre vite, contro cui digrigna spesso i denti, gli aveva dapprima suscitato un’enorme tenerezza. La strada di questa confessione, oggi esplicita, ha dovuto far passare la sua poesia attraverso lo «stile dell’invettiva», la rivolta delle parole.
Sentendosi steso sopra un vuoto esistenziale, spaventato dall’informe magma che prende la nostra esistenza come esseri sociali, Mauro Macario urla contro la volta pietrosa della caverna.
Urla contro la cieca ironia di stelle già morte in cielo.
Urla come si tende la mano agli uomini del futuro.
Era un pettirosso (ovviamente da combattimento!) chiuso in gabbia, il poeta Mauro Macario, quando cercava la propria strada attraverso il ventennale lavoro di regista teatrale, cinematografico e televisivo, scartato, per troppa timidezza, da quasi subito il mestiere d’attore a cui lo aveva avviato il padre, l’immortale Erminio.
Non trovava parole a un canto che gli rimaneva strozzato in gola… l’abbiamo già detto: l’uomo conosce quel grande assente della nostra epoca mediatica che è il pudore! E così lui, favorito dalla sorte per una strada già aperta da un genitore attor comico famosissimo, rifuggiva il pubblico, e non perché non avesse fiumi di parole da confidargli, ma perché queste parole non trovavano la strada giusta.
Fu l’incontro con Léo Ferré a sancire la liberazione della sua poesia.
Léo non era un genio geloso del suo status, né, peggio ancora, un guardiano del tempio della poesia, piuttosto un liberatore.
Poche parole, ma dette al momento giusto, seppero aprire le chiuse dell’anima e far fluire la poesia di Macario, fino alla tipografia, fino ai teatri, fino alla strada…
Iniziò dunque così un percorso svoltosi in tre libri esemplari:
Le ali della Jena (1990), Omicidi naturali (1992), Cantico della resa mortale (1994).
Le ali della Jena era un esordio di grandissima temerarietà: in un’epoca di frammenti, di minimalismi, di navigatori per il mare dei pensieri deboli, un artista esordisce già maturo con un poema eminentemente politico (nel senso più alto del termine). La prefazione a questo libro la firma Ferré, che, come dice con una punta di civetteria lo stesso Macario, «Non regalava niente a nessuno!».

Leo Ferré

L’esordio però della Macario-lingua è già chiarissimo: una deflagrazione d’immagini si sporca a ogni tenzone col presente, si perde e si ritrova in ogni anfratto della cloaca planetaria, consapevole di puntare altissimo.

Fui deportato sul finire del secolo
In un laboratorio di sintesi organica
Per subire l’asportazione totale
E il ritrapianto dell’intero apparato
L’intervento durò anni e non riuscì.

Dunque la jena alata, una volta sorvolato il globo comincia a riconoscersi animale, come il poeta, finalmente imbracciata l’arma che gli è più congeniale, quella della poesia, comincia a volgere un occhio rosso, violento microscopio insubordinato e indagatore, ai nemici di sempre, al capitale imperante, alla untuosa catechesi che alloppia gli spiriti, che vuole la pace dei sensi a discapito di quella delle mine antiuomo, e un occhio azzurro/nuvola ai compagni dispersi, ai viaggiatori alati, a quelli che, forse annoverati fra i perdenti, non sono ancora fra i perduti. Indiani. Anarchici. Artisti.

Omicidi Naturali, pur riportando la forma a un flusso più controllato e meno magmatico, è solo in apparenza una raccolta di poesie: la jena ancora strappa dal suo taccuino fogli visionari, e li manda per il mondo come gli aquiloni del signor Dick, il volo s’è fatto più radente, non più dunque il panorama completo, la foto del satellite, ma topografie interrotte per la mappa dell’eldorado.

Ripudio la mia appartenenza
Alla tua sottospecie

Io so che vivi nel buio
Con le mani nei viscere
A macellare l’innocenza
Con l’assenso tranquillo
Di chi getta un’occhiata
Da finestre sordomute.

La sfida alla società non cessa dunque d’essere pronunciata forte e chiara «chante, persiste e signe» avrebbe detto Jacques Brel.
Cantico della resa mortale è, fra questi, il libro cui sono più affezionato, forse perché è il primo che ho letto, avendo avuto modo d’averlo sotto gli occhi (e non ricordo nemmeno il dove) ben prima di conoscerne l’autore, forse perché due lunghe liriche ivi comprese stanno ai posti più alti della mia personalissima Macario-parade: Salmo 152 e la collina del belvedere.
Approfondimento e continuazione del precedente, muove a più impellenti richiami, a più insondabili abissi. Qui tutti i temi esposti in precedenza si trovano ingigantiti, la sfida s’è fatta più aspra ancora. Il grande liberatore Ferré, la cui morte ispira il salmo che citavamo poc’anzi, non essendo più, ha lasciato dietro di se un grande compito. Macario se l’assume fra la lirica che apre la raccolta e quella che la chiude; entrambe autorappresentazioni della propria morte, la prima offre la descrizione di un’intima resistenza umana che chiama la propria compagna alla difesa di quelle spoglie che ripudiate vive da «un potere che non sa amare i corpi» (mi pare lo dicesse Julian Beck in una sua famosa poesia) vanno difese poi, dopo la fine, quando la «lugubre processione di impiegati mistici» le vorrebbe arruolare nei «garages pubblici dei morti», la seconda fa da richiamo e squillo di battaglia, sirena d’allarme per il mondo intero, corno suonato sull’orlo di una Roncisvalle definitiva dal poeta, nel timore d’essere infine solo e di dissolversi nel silenzio tutt’attorno.
Oggi quei tre libri, da troppo tempo introvabili sono finalmente ristampati dal benemerito editore friulano Campanotto (editore, fra gli altri, di un grandissimo talento della lirica italiana contemporanea: Anna Lamberti-Bocconi) e riuniti in un unico volume a degli inediti che ne permettono un apprezzamento completo.
Scopriamo così che l’asperrima, esaltante visionarietà del primo libro, ha trovato col tempo un uomo che non ha più paura di dichiararsi teneramente innamorato degli artisti che lo hanno via, via appassionato: Fabrizio De André, Charles Bukowski, Lance Hensons, per non parlare ovviamente del continuo lungo dialogo che il poeta, in maniera più o meno esplicita, intrattiene coi suoi numi tutelari Ferré e Rimbaud.
Le profonde convinzioni libertarie restano, come la carta bianca su cui si scrive, la premessa a tutte le opere del poeta e, dette o non dette esplicitamente, sono ineludibili…
Non si potrà mai affrontare Macario con il bisturi di penninchiostro dei tenutari del bordello Accademico, che in mancanza di poeti da uccidere si danno da stra-fare a imbalsamare quelli già morti. Macario invece vuole la passione, la compartecipazione dei suoi gusti e disgusti. Chi lo affronta sappia che dovrà fare i debiti conti con la lancia della sua metafora in resta, scagliata com’è all’assalto di mulini a vento… perché in un’epoca senz’aria bisognerà pur difendere dalle pale dei mulini gli alisei, bisognerà pur invocare una bora salvifica che spalanchi le finestre delle biblioteche, scolastiche e parlamentari, e faccia entrare finalmente un po’ d’aria.

Alessio Lega