rivista anarchica
anno 34 n. 297
marzo 2004


ricordi

La prima volta
di Fulvio Abbate

 

Incontrare gli anarchici a Palermo nel 1971.

La prima volta che ho visto una A cerchiata, è stato nel 1971, sul muro di fronte al mio liceo. La giornata era iniziata con una pioggia torrenziale, monsonica, biblica, da conguaglio universale, forse per questa ragione, solo all’ora dell’intervallo, quando è riapparso un sole da poster svedese, ho avuto modo di accorgermene. Dovette essere però un compagno di classe fascista, Ivano, lo stesso che poi sarebbe diventato anarchico, in seguito seguace arancione di Bagwan, ancora dopo tossico e infine ristoratore fallito alle Hawaii, a spiegarmi che si trattava di un simbolo libertario. Ma sì, io pensavo, chissà come mai, che fosse quello dei palestinesi di Al Fatah.
Degli anarchici, fino a quel momento, sapevo poco, pochissimo, niente, soltanto che ce l’avevano con l’autorità, con i vigili urbani che fermavano i motorini, con lo stato, e sicuramente anche la religione dei preti. Anche su quest’ultimo punto, non potevo che sentirmi in sintonia con loro, infatti, personalmente, mi ero rifiutato di fare la prima comunione, in questo spalleggiato dai miei: «Ci è bastato il battesimo,» disse mia madre, giusto per bloccare eventuali pressione dei nonni paterni.
Qualcuno però mi aveva già spiegato (forse un articolo de «L’Espresso» allora formato lenzuolo oppure un numero di «Storia Illustrata») che l’ultima stazione del comunismo, il massimo, il top, l’orgasmo continuo, sarebbe stata appunto l’anarchia. Mica però come la intendevano certi ignoranti di quartiere, gente che, quando vede il traffico delle auto, dice: «Basta, con quest’anarchia!», e poi, già che ci sono, tornati a casa, menano i figli di brutto.
Al mio liceo, gli anarchici c’erano, ed erano tanti, almeno cinque, vestivano tutti di nero e portavano degli occhiali con la montatura rettangolare di metallo, uno di loro aveva pure una Norton, nera pure quella. Oltre agli anarchici, c’erano i terribili comunisti del Pcd’I-ml, uno di loro, durante le risse con i fascisti, indossava un elmetto della prima guerra mondiale, il cosiddetto modello «Adrian», pitturato di rosso e con la falce e martello al posto del fregio. Quelli del Pcd’I le prendevano quasi sempre. Gli anarchici un po’ meno, o quasi mai. Fra i fascisti che frequentavano il mio liceo, lo scientifico «Galileo Galilei» di Palermo, c’era Concutelli, proprio lui. Non era iscritto, ma veniva lo stesso, si presentava per menare i compagni. Concutelli, un giorno, dopo una mattinata di tensione, raccogliendo due comunisti che facevano l’autostop in viale del Fante, disse loro: «Ragazzi, non è così che si fa politica».
Era un liceo particolare, nessuna traccia di Lotta Continua e vaghi cenni di Fgci. Un liceo scientifico, il massimo della cultura umanistica, senza cioè la prosopopea del classico dove ci sono i figli di papà che rompono il cazzo con la filologia.
È stato sempre lì che ho visto comparire il primo numero di «A – rivista anarchica», venduto forse da un compagno detto Mustang, me lo ricordo come fosse ieri: il formato, la grande A in copertina e poi, sfogliando le pagine, Anarchik.
Le storie di Anarchik mi piacevano molto, quasi come mi era piaciuto Tintin qualche anno prima, e sicuramente dovevano piacere anche a uno che di cognome faceva Montedoro, questi, infatti, sembrava identico all’omino del fumetto, gli mancava giusto il cappellaccio. Durante le assemblee di istituto, quello, il Montedoro-Anarchik faceva degli interventi assurdi, da attore comico consumato, tipo sul tema delle assenze ingiustificate. Diceva: «E se uno ha sette figli, che gli succede, li deve accompagnare tutti e sette?»
Sui giornali e in televisione, sempre in quei giorni, c’era la storia della rivolta di Reggio Calabria e la vittoria dei fascisti alle elezioni politiche, nel senso che l’MSI prese una barca di voti. E Valpreda in carcere, e poi le lunghe udienze del processo di Catanzaro.

Copertina del primo numero di "A", febbraio 1971

Lì abitava Mauro De Mauro

Poi, ma siamo già nel 1972, c’è un manifesto degli anarchici pisani che mostra Franco Serantini composto nella bara, quel manifesto qualcuno, nottetempo, lo affisse in viale delle Magnolie, proprio a Palermo, angolo con via Empedocle Restivo. Ancora adesso, quando passo da quello scorcio di strada, mi sembra di vederlo; per me, è come se non l’avessero mai staccato, in questi anni, tutte le volte che ho ripensato a Serantini, quell’immagine non si è mai mossa. In viale delle Magnolie, sia detto per inciso, c’era la casa di Mauro De Mauro, il giornalista de «L’Ora» fatto sparire nel nulla dai mafiosi.
Sarebbero stati alcuni anarchici a salvarci dai fascisti una sera che facevamo attacchinaggio, senza di loro, chissà quante ne avremmo prese, era la stessa notte in cui un aereo diretto all’aeroporto di Punta Raisi andò a schiantarsi contro la montagna che sta sopra Cinisi, il paese di Peppino Impastato.
Fra i miei compagni, nel senso di coetanei, molti sarebbero diventati anarchici, all’inizio erano appunto soltanto ragazzi di quartiere, giocatori di pallone, frantumatori di vetrine nel piazzale di via Sardegna, o di volley in qualche squadra locale, tutte persone che ho visto crescere. Insieme a loro avevo visto crescere anche Ciccio Montalbano, che abitava in via Abruzzi. Ciccio era alto, bello, abitava appunto a due passi da casa mia, aveva una R4 bianca, Ciccio lo si vede appena in una foto scattata durante la conferenza di Sciascia nella palestra del nostro liceo. È un puntino, Ciccio, in quella foto, però si intuiscono tutti i suoi particolari, la maglietta color lampone, di quelle scolorite con la candeggina, la barba, gli occhiali da vista (ray-ban) leggermente calati sul naso; Ciccio è morto molti anni dopo, lo hanno ucciso per una brutta storia. Con altri ragazzi, meglio, con altri compagni, aveva dato vita a un cineclub, «La Antorcha». L’inizio fu proprio nella palestra della foto con Sciascia, sono gli stessi che creeranno il Circolo «Pinelli», erano i più giovani, i meno interessati alla privazione, alla rinuncia al piacere, e infatti intuirono subito la fine di una certa forma di militanza. O la decretarono. Fra loro, e quelli del «Friscia» e del «Machno» c’era una certa differenza.

Un pezzo degli Alunni del Sole

Qualche giorno fa ho visto la fiction «La Meglio gioventù», e mi è venuto da piangere. Non si può essere così banali, opachi, incapaci di restituire un mondo, non si può dire che si tratta di un bel film.
L’ultima immagine che possiedo di quei giorni inquadra già il 1977. È, finalmente, estate, infatti siamo finiti tutti in vacanza, a Favignana. In quel momento sono seduto in piazza, quando vedo passare alcuni ragazzi, in mezzo c’è anche un anarchico del mio liceo, ma non saprei più dire chi sia, troppi anni.
«Dove state andando», così gli chiedo, mi rispondono che sono diretti al mare, ci salutiamo, siamo certi di rivederci in serata, il pensiero che presto tutto sarà finito, l’estate, ma anche la rivolta, l’età, le ragazze, il piazzale della facoltà di lettere e filosofia, non ci sfiora ancora, nel replay dei mesi precedenti – i fatti di Bologna, la morte di Francesco Lo Russo, la copertina di un disco di Lolli intitolato «Disoccupate le strade dai sogni», i racconti di Dario Evola che stava proprio lì a Bologna, ancora Dario mentre canta «A las barricadas», l’incontro con una ragazza di Torino che si chiamava Francesca Lombardo – quel giorno a Favignana la musica veniva fuori dal juke-box, era un terribile, ma indimenticabile, pezzo degli Alunni del Sole, «’A canzuncella», è sul suo sottofondo che rivedo il sorriso di Ciccio, Anarchik, le chiavi inglesi degli autonomi, il sole a picco sul camping dove montammo la nostra tenda, la certezza che ci saremmo rivisti tutti in serata, i nomi e i numeri di telefono delle ragazze segnate sull’Agenda Rossa, quello che doveva essere e non è stato più.

Fulvio Abbate