rivista anarchica
anno 33 n. 295
dicembre 2003 - gennaio 2004


simboli

L’eredità comune
di Carlo Oliva

 

Poteva capitare soltanto in questo Paese che la decisione di fare togliere, da un luogo pubblico, il crocefisso desse la stura al diluvio di truculente castronerie da cui siamo stati inondati.

Non riesco a immaginare, al momento in cui scrivo, se quando questo articolo sarà pubblicato qualcuno si ricorderà ancora della polemica che ha scosso il paese a fine ottobre primi novembre sul problema dei crocifissi nelle scuole pubbliche e altrove. Si trattava, per una volta, di una questione importante e significativa, ma qui in Italia abbiamo una certa tendenza a dimenticare tutto nell’arco di un paio di settimane, per cui proprio non so. E poi se ne sono sentite davvero di ogni, e un poco di tregua, in questi casi, non fa male a nessuno.
Qualcosina da dire, comunque, mi sembra che ancora ci sia. In fondo, soltanto in questo paese poteva capitare che una decisione tanto ovvia e ragionevole come quella di far togliere da un luogo pubblico un simbolo religioso che, per una ragione o per l’altra, poteva risultare sgradito ad alcuni frequentatori istituzionali, desse la stura al diluvio di truculente castronerie da cui siamo stati inondati. D’altronde è ben noto come nel mondo ristretto dei politici e degli intellettuali italiani (o sedicenti tali) abbondino i servi sciocchi, disposti a ogni acrobazia concettuale pur di rendersi grati a chi sta in alto, né sia pensabile che chi dispone di un’audience qualsiasi decida, in una occasione in cui potrebbe benissimo farlo, di tacere. Per cui ci siamo dovuti sorbire le penose contorsioni verbali, per fare due nomi quasi a caso, di un Giulio Anselmi e di una Livia Turco, che ci hanno spiegato, rispettivamente su «Repubblica» e su «l’Unità» (entrambi il 27 ottobre), come l’invito a togliere il crocifisso altro non fosse che un incitamento all’intolleranza islamica, come se quella cristiana fosse, per qualche motivo, meno nociva, e abbiamo recepito, sgomenti ma non del tutto impreparati, le esternazioni del presidente Ciampi, che, gettando al vento la classica occasione di tenere la bocca chiusa, ha voluto spiegarci che il crocefisso andava considerato eredità comune di tutto il popolo italiano. E lasciamo pure perdere gli ideologi di professione, come il noto Massimo Cacciari, che, in un’intervista non saprei dirvi a chi (l’ho soltanto intrasentita in una rassegna stampa radiofonica), ha dichiarato – se non ho capito male – che il crocifisso in sé esprime tanti di quei valori positivi che sarebbe stolto non esporlo dovunque, salvo precisare che no, a casa sua lui personalmente non lo esibisce, a conferma del fatto che l’antica tendenza dei filosofi a prescrivere al prossimo comportamenti e credenze da cui, personalmente, si considerano esenti alligna oggi con la stessa virulenza dei tempi di Platone. Mai come in questa occasione i pochi interventi sensati – citerei, con qualche riserva, quelli di Umberto Eco e di don Mazzi e, soprattutto, l’articolo di Alessandro Portelli sul «manifesto» di giovedì 30 ottobre – hanno dato l’impressione di essere le classiche voci di chi predica nel deserto.

«Simbolo dell’identità nazionale»?

Avrete notato tutti – suppongo – che la mossa vincente nella polemica è stata quella, inaugurata, salvo errore, dal cardinale Ruini, e fatta rapidamente propria dai vari zelatori «laici», da Ciampi in giù: quella di svalutare, in via preliminare, il valore del crocifisso, retrocedendolo, da venerabile simbolo religioso, a manifestazione di un’identità puramente culturale, «espressione», come ha detto l’eminente porporato, «dell’anima profonda del paese e simbolo dell’identità nazionale». Si tratta di una derivazione, abbastanza meccanica, della nota argomentazione crociata sul «perché non possiamo dirci cristiani», ma è inutile far notare, in questa sede, la spessa patina di ipocrisia clericale che avvolge simili operazioni, nel senso che quella di identificare l’anima profonda del paese con il suo retaggio religioso è una mossa ovviamente meno pacifica, di quanto costoro non vogliano far credere. L’occidente, e con esso l’Italia, ha importato e sviluppato il cristianesimo, segnandone a fondo la propria cultura, ma ha anche dovuto inventare, per non naufragare nella tempesta delle guerre di religione, la libertà di pensiero e lo stato laico, ed è a questa eredità, sul piano istituzionale, che resta legato oggi. La legislazione francese sul chador è senza dubbio un po’ formalistica, e offre il destro a chi lo desideri di fare un bel po’ di casino ideologico a buon mercato, ma rappresenta probabilmente l’unico modello normativo cui sia possibile ricorrere oggi per evitare i rischi di un conflitto che lascerebbe dietro di sé soltanto rovine.
È vero, d’altronde, che i simboli, tutti i simboli, anche i più nobili e venerati, sono caratterizzati da una specie di plurivalenza, che non sono mai riducibili all’uso esclusivo di chicchessia. Anche nel crocifisso chiunque può vedere quello che vuole vederci: l’emblema di una religione che vive, da un millennio e mezzo abbondante, in stretta simbiosi con il potere, e non si è mai distinta per una particolare tolleranza verso le credenze e le usanze altrui, o la raffigurazione (terrificante, in quel senso) di una vittima che agonizza inchiodata a uno dei più spaventevoli attrezzi di morte che la perversione umana sia mai riuscita a escogitare. E quindi può rappresentare, figuriamoci, anche l’eredità storica di una nazione, in un senso puramente laico: basta decidere di volerlo intendere in quel modo. Ma questo, con buona pace del cardinale Ruini e del presidente Ciampi, non cambia affatto le carte in tavola. Intanto perché tutto si tiene e nessuno può prescindere, nell’apprestare i propri apparati simbolici, di quello che le loro icone rappresentano per gli altri, almeno se con quegli altri vuole in qualche modo comunicare. E poi perché l’identità nazionale, vivaddio, non è un qualcosa di dato una volta per tutte, qualcosa cui abbiamo semplicemente l’obbligo di adeguarci, pena l’espulsione dal corpo vivo del paese e l’accompagnamento coatto fuori dai suoi confini. Come tutti i valori in una società democratica è anch’essa un quid che siamo chiamati a costruire insieme, immigrati e nativi, cittadini di vecchia e di nuova data, cristiani, musulmani e senza dio, mettendoci quel poco di buona volontà che è sempre dovere di tutti mettere in campo.

Privilegiare la libertà dell’individuo

Insomma, ai nostri confratelli di altra origine etnica e di diversa cultura (se pure vogliamo ostinarci a dare importanza alle minime sfumature che distinguono le culture umane in questi tempi di globalizzazione) non possiamo proporre soltanto di adeguarsi o di andarsene: l’alternativa, per chi sia appena un po’ attento ai valori della democrazia e della convivenza, è altrettanto improponibile sul piano civile di quanto non lo sia su quello religioso. Anche sul crocefisso, come sul chador, sull’infibulazione, sui tabù alimentari e su qualsiasi altra prescrizione cultuale che per qualche motivo desti in qualcuno delle perplessità, nulla ci vieta, anzi, tutto ci impone di discutere a oltranza, senza offendere nessuno, ma tenendo presente il principio che la legislazione riguarda gli individui, non i gruppi predefiniti, e che la libertà dell’individuo va privilegiata, per forza, anche rispetto a quella del gruppo di cui fa (o dovrebbe far) parte. Il fatto di avere al governo, ahimè, un ministro che a una sentenza sul cui merito dissente risponde disponendo un’ispezione amministrativa al tribunale che l’ha emanata è una di quelle disgrazie che ci unificano, in un certo senso, alle popolazioni islamiche vessate dalla sharia e dalle sue applicazioni temporali. E rispondere, come è stato puntualmente fatto, che Adel Smith è un personaggio ambiguo, sgradevole e poco rappresentativo non vuol dire proprio una beata fava, perché non è di un ideologo in carriera che si sta discutendo, ma del futuro di un’Europa che non potrà che essere multiculturale, e quindi tollerante, nel senso di Locke e Voltaire.
Nella prospettiva contraria, la logica che, implicitamente, ci si propone è quella per cui, anche sul piano dei simboli, tutto ciò che non è obbligatorio va considerato vietato. Che è una logica cui, senza eccezione, potrebbero aderire tutti gli uomini di potere, cristiani, musulmani, buddisti, liberi pensatori o presunti tali. Ma per mettere d’accordo tra loro i detentori del potere, in fondo, non servono discorsi tanto complicati. In un modo o nell’altro, sappiamo già che lo sono sempre. Di solito sulla nostra pelle.

Carlo Oliva