rivista anarchica
anno 33 n. 295
dicembre 2003 - gennaio 2004



a cura di Marco Pandin

 

Jan Garbarek Quartet
26/6/2003 Teatro Romano, Verona

Megarassegna comunale in un posto storico e bellissimo in riva all’Adige: un meccanismo culturale ben oliato che si ripete ovunque, indipendentemente dalla posizione geografica e dall’orientamento delle amministrazioni locali. Serata sugg/estiva, calda ma non troppo. Lampi in lontananza, nuvole, scirocco. Ma non piove.
Tutto esaurito, è chiaro. Riesco a beccare due biglietti all’ultimo momento, posti numerati in platea, tramite un amico. Si entra, nessuna ressa, tutti educati in fila. Sorrisi di circostanza. Un’occhiata sul palco: amplificazione di qualità stratosferica, attrezzature plurimilionarie e un pianoforte a coda da concerto. Tranquillizzante? Inquietante, direi.
Una hostess in divisa mi accompagna al posto. Mi guardo intorno e improvvisamente mi sento a disagio. È un ambiente a cui non sono più di tanto abituato: generalmente frequento le zone basse e le periferie, i cattivi e i precari. Qui pullulano bancari in cravatta e camicia mezzemaniche con dotazione di tramezzino e mezza minerale al posto della cena, assessori in completo di lino spiegazzato ad arte, signore firmate ed accessoriate che sfoggiano abbronzature da dépliant di raggi UVA. Età media 45-55 (ormai anagraficamente la mia, sospiro).
Leggerissimo ritardo, ed eccoli: in nero informale i maschietti, la signora in un vestitino semplice rossomarrone, i musicisti entrano accolti da un applauso energico e da urli tipo «bravi» leggermente esagerati (in fin dei conti non hanno ancora fatto un cazzo). I quattro salutano con deferenza e si appostano, senza sorridere e soprattutto senza guardarsi. Non si guarderanno mai per tutta la durata del concerto.
Dai che iniziano. I pochi ritardatari si affrettano. Rainer Bruninghaus usa praticamente sempre un synth polifonico Kurzweill dai suoni stupendi ed inauditi (neanche nei cd così potente ed evocativo), che evocano tempesta lontana oppure nebbia fredda oppure una tristezza sconfinata. Il pianoforte gigantesco che gli sta dietro lo sfiora solo per un minuto o due, e a metà concerto per un assolo strappabudella (stava già lì per gli altri concerti, o è stato un capriccio?).
Eberhard Weber suona come non mai: bassi da capogiro indescrivibili a parole, bisogna esserci, e ascoltare con lo stomaco oltre che con tutt’e due le orecchie e quello che ci sta in mezzo. Marylin Mazur saltella come un passero dietro trincee di campanellini, offrirà un tocco dolce e cristallino e preciso per tutta la serata (pesta leggera sui cymbals come Tony Oxley, incredibile). Jan Garbarek sembra che sorrida (non è vero) e resta un passo indietro rispetto agli altri sul filo del palco, quasi a suggerire che lui c’è sì e che le musiche sono sue, ma che quello di stasera sarà lavoro di gruppo.
Si parte con «Rites». Silenzio obbligatorio come in chiesa. Il norvegese dà al suo sax soprano storto una voce di gabbiano, che assomiglia solo a quella che c’è dentro i dischi. Questa è più carica, più colorata, più luminosa, complice il riverbero naturale dell’arena. E lui soffia e si contorce, e trasforma il suono e lo plasma e l’allunga sino a trasformarlo nel verso terribile di un enorme dragone d’apocalisse che ti morde l’anima.
A otto minuti esatti dall’inizio il primo trillo di telefonino, giusto due file davanti a me. Basta questo a scatenare le chiacchiere a intermittenza dei miei vicini (hai visto quello, e guarda un po’ chi c’è, ma guarda come s’è vestita...) e i coccodè. Partono e arrivano i messaggini, vibrano i vibracall dei più educati.
I ma-dove-sei-io-sto-a-un-concerto serpeggiano a mezzavoce assieme al profumo della signora ingioiellata e firmatissima seduta giusto davanti a me che commenta con l’amica, e che mi guarda così male perché mi permetto di chiedere rispetto. Pubblico di merda. Spero che piova adesso sui vostri telefonini e sul lavoro delle vostre parrucchiere.
I quattro lì sul palco sono bravissimi, inarrivabili... ma glaciali. Sospesi sempre più lontani in mezzo alla scenografia semplice/povera ma bella (tre vele che cambiano colore a seconda delle gelatine dei riflettori). Il «Molde canticle» si fonde a «The creek», a «I took up the runes» e alla «Brother Wind march» in un enorme magma polare preso dalla produzione degli ultimi 13 anni.
Come prevedibile, un’esibizione complessivamente interessante ma solo a tratti emozionante: nessuna concessione a un’improvvisazione, a un guizzo creativo, a una sorpresa. Un surgelato, come dire con una punta di delusione. Solo la Mazur, raccontabile (come gli altri, sia chiaro) solo a superlativi e a punti esclamativi, in una parentesi troppo breve s’è messa a dialogare con un gatto innamorato. Ma Jan Garbarek a un certo punto guarda l’orologio (gran brutto gesto, va detto), e decreta la fine dell’assolo di percussioni e anche del concerto. Applausi. Un encore frettoloso. Applausi. Fine sul serio.
Ci si accalca all’uscita. Tutti all’enoteca, o a prendere qualcosina in giardino da Mariuccia e Pierferdi, o in gelateria. Lampi in lontananza, nuvole, scirocco. Ma non piove.
Tornando a casa, in autostrada ripenso confuso a tutti i soldi che ho dato a Garbarek e Manfred Eicher da «Sart» a stasera, coi quali (esagero) magari avrei potuto sfamare un campo profughi.

Marco Pandin

 

Musica a cui volere bene

Una band vista dal vivo, Three In One Gentleman Suit, mi ha voluto recentemente omaggiare del loro primo CD «Battlefields in autumn scenario».
I tre sono ottimi interpreti di quel punk costruito su tempi medi, con un interplay tra chitarra e ritmica delicato o iperdistorto e fragoroso. Dal vivo silenzi e pieni, maestosi crescendi e ricami creavano anche un impatto drammatico un po’ perso sul CD.
Al di là dell’inglese un po’ scolastico, un gruppo da seguire (contatti: three1gs@hotmail.com).
Fragil Vida, «Musicanti di cristallo» è il titolo d’un concerto teatrale proposto da musicisti del Modenese tra fisarmoniche, contrabbassi, chitarre e stili ad ampio raggio (forse troppo). I recitati e le liriche con piglio Capossela/Conte/Tom Waits rimandano a una visualità che il CD ovviamente non restituisce. Cercateli dal vivo (contatti: www.fragilvida.com).
Andrea Pomini è un nome notissimo della scena punk/indipendenza musicale da noi e a livello internazionale. Dai Fichissimi agli attuali Disco Drive, Andrea ha sempre creduto e lavorato in quest’area con convinzione e spirito collaborativo. Gestisce la propria etichetta, Loveboat, della quale mi ha passato qualche lavoro recente.
Diane Darby è una autrice americana che propone delicate e intime canzoni sussurrate tra chitarre, celli e qualche percussione. Siamo nel perimetro di Kendra Smith (Dream Syndacate) e Beth Orton. Canzoni sospese e fragili, dal sapore notturno ma pur sempre…rock! Se vi piace la rurale Gillian Welch o la campfire music di Michelle Shockhead questo bel CD fa per voi (contatti: www.love-boat.org).
I Giardini di Mirò sono una band ormai affermata nel panorama indipendente. Questo loro album «Punk… not diet» va benissimo per questa rubrica, Musica a cui voler bene: infatti mi garba assai. Rock minimale, costruito su intrecci di tastiere e chitarre, lingua inglese come trama aggiuntiva, loops elettronici ora gentili ora a stratificarsi come nuvole di De Chirico all’orizzonte. Gatto Ciliegia, Rothko, Godspeed You Black Emperor, Mogwai per far dei nomi (contatti: www.homesleep.it).
Carver Trio «Broken sleep», primo CD della band guidata da Luke Goss, fisarmonicista e session man noto in UK nel circuito folk e jazz. Ottimo e coinvolgente lavoro tra Dino Saluzzi e Charlie Haden comprende stelle musicali di prima grandezza, Dylan Fowler, Oli Wilson-Dickson e Nathan Thomson, che potete trovare anche sul mio ultimo CD… (contatti: luke.goss@virgin.net).
Puntata tutta inglese (o quasi) di questa musica che, against the odds, continua a farsi strada dal cuore di qualcuno verso l’anima di qualcun altro, me ad esempio!
Nessun gruppo e etichetta autogestita più di Stanton e Jonson Family meritano di essere rispettati e amati: al concerto londinese (11 gruppi, 6 ore di musica!) di presentazione del CD «The twominutemen» tenutosi in luglio, gli Stanton hanno suonato per l’ultima volta di fronte a 200 persone tristi e felici allo stesso tempo, come si conviene ai sentimenti più puri, più immediati. Un autentico funerale blues.
Jonson Family, emanazione discografica del gruppo Stanton, continuerà invece a esistere e a rappresentare un tassello importante per l’attitudine indipendente britannica e non solo. Infatti «The twominutesmen», CD che raccoglie 39 bands già pubblicate su vinile, ognuna per 2 minuti 2 di musica, vede all’interno facce sonore dal nostro cortile: Lo-Fi Sucks, Perturbazione, Gatto Ciliegia e chi vi scrive. Senza temere, puntate il topo su www.jonsonfamily.com.
Dal vivo ho visto alcune bands, incluse nella compilation, meravigliose: da Billy Mahonie, Cove, Montana Pete a Charlottefield e Joeyfat. Ogni band ha plastica registrata all’attivo, cercatela.
Di Joeyfat vorrei andare più nel dettaglio però: pubblicati da Unlabel (contatti: www.unlabel.net), questo gruppo riformatosi dopo un paio d’anni di silenzio, mi ha veramente colpito. Un cantante/attore che recita/canta lunghissimi racconti in precisa cadenza con un punk «cerebrale», vedi Slint, vedi Fugazi. Ma, proprio per questo teatrale intersecarsi di parole, sguardi, gesti e riff, mi ha riportato alle stagioni più dada (e, quindi, più felici) del punk anni 80/90, Pere Ubu, Gang of Four, Fall, Raincoats, Detriti e Panico. Fate un giro in rete e cercate Unlabel e, visto che ci siete, l’etichetta sorella di quest’ultima e Jonson Family, Victory Garden.
Se avete la possibilità di organizzare date di gruppi... lontani, tutti quelli nominati in queste righe vi faranno tornare quel profano amore per il Punk, nel senso meno musicale del termine.
Concludo con una breve citazione torinese, per un demo intrigante: Dragster Baby grezzo e potente indie rock da mixare con Hole, Tsunami e Pixies. Il titolo «Lullaby for an Anarchist» vale una corsa del topo su dragsterbaby@libero.it.
Alla prossima.

Stefano Giaccone

Musica per A/Rivista Anarchica

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