rivista anarchica
anno 33 n. 292
estate 2003


 

Il bicchiere mezzo pieno

Laddove il giornalismo (e la politica, e il senso comune) non arrivano, arriverà la letteratura. Prendendo la cosa per il lato buono, come se la metà del bicchiere fosse quella piena, la recente uscita di un paio di romanzi dedicati – in tutto o in parte – al G8 genovese è quasi una consolazione, o meglio ancora uno sprone a non mollare. È la morale che si può trarre dalla pubblicazione di Il giro di boa di Andrea Camilleri (editore Sellerio) e I segni sulla pelle di Stefano Tassinari (Tropea).
I media hanno dimenticato il G8? I politici non hanno mai ritenuto la sospensione dei diritti civili avvenuta a Genova nel luglio 2001 (notata e segnalata da Amnesty International e Parlamento europeo) una cosa degna del massimo impegno? La società italiana, in larghissima parte, ha scelto di dimenticare tutto nel più breve tempo possibile? Consoliamoci con gli scrittori.
Il caso Camilleri è particolarmente interessante, perché porta la contraddizione nell’ambito di un ‘popolo di lettori’ che si ritiene trasversale. Il giro di boa, che è in testa alle classifiche di vendite, si apre con un moto di rabbia e indignazione del commissario Montalbano, il popolare eroe dello scrittore siciliano. Montalbano ascolta alla tv le notizie riguardanti l’inchiesta sulla violenta irruzione alla scuola Diaz: è stato accertato – dice il telegiornale – che gli stessi poliziotti hanno costruito le prove (le due bombe molotov) per giustificare l’arresto dei 93 malcapitati subito dopo il pestaggio, e che l’accoltellamento denunciato da un agente è anch’esso probabilmente falso. Montalbano s’accascia sulla poltrona. Annuncia alla fidanzata che vuole dimettersi: «Io non mi sento tradito. Io sono stato tradito […] Ad assaltare quella scuola e a fabbricare prove false non è stato qualche agente ignorante e violento, c’erano questori e vice questori, capi della mobile e compagnia bella!».
Salvo Montalbano reagisce da poliziotto onesto, da democratico che crede nella legalità e nella costituzione, e si ritiene leso nella sua dignità di uomo e di tutore della legge. «Siamo stati manovrati come pupi nell’opera dei pupi, da persone che volevano fare una specie di test su come avrebbe reagito la gente ad un’azione di forza, quanti consensi, quanti dissensi. Fortunatamente non gli è andata bene».
Ci sarà qualcuno disposto ad aprire gli occhi e a riflettere seriamente su queste cose, fra i tanti italiani, lettori di Camilleri, che avevano mentalmente archiviato i fatti di Genova senza pensare a ciò che rappresentano per il futuro della democrazia e dei diritti civili?
Stefano Tassinari, dal canto suo, ha costruito un intero romanzo sui fatti del G8 e vi ripercorre i passaggi salienti, tutti ampiamente dimenticati dall’opinione pubblica, dalla quasi totalità dei politici, dai maggiori commentatori di tutte le tendenze. Ossia l’aggressione ai cortei autorizzati, i maltrattamenti nella caserma di Bolzaneto, l’uso indiscriminato del gas CS (usato in dosi massicce a Genova per quanto sia vietato dalla convenzione internazionale sulle armi da guerra): la protagonista del romanzo, una giovane giornalista free lance, si ammala gravemente, forse a causa del gas. Tassinari, grazie alla libertà che gli consente la fiction, tratta anche una vicenda misteriosa, alimentata per mesi da indizi e voci però mai provata: la morte nelle strade di Genova, oltre a Carlo Giuliani, di un’altra persona. Una ragazza, nel libro, viene uccisa e portata via poco prima dei fatti di piazza Alimonda, in una strada adiacente: non se ne saprà mai nulla perché si trattava di una giovane agente infiltrata in un gruppo basco. «Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o a persone esistenti è puramente casuale»: è una noticina che Tassinari ha messo all’inizio del libro e che consegna la sua ricostruzione alla dimensione letteraria. Heidi Giuliani, la mamma di Carlo, ha commentato amaramente che «c’è più verità in quest’opera di fantasia che nelle ricostruzioni ufficiali dei fatti». Potremmo aggiungere che in alcune circostanze vale anche il contrario: c’è più fantasia in certe perizie e ordinanze (ad esempio proprio su piazza Alimonda) che nelle versioni romanzesche dei fatti.
Se il bicchiere è mezzo pieno, le opere di Camilleri e Tassinari hanno il merito di mettere nero su bianco alcune verità sui fatti di Genova e di portarle nel cuore della narrativa nazionale. In questo modo i due romanzi vanno a colmare almeno in parte i paurosi vuoti lasciati dalla politica e dal giornalismo, da chi dovrebbe controllare e censurare – quando necessario – i poteri costituiti: un ruolo che in Italia è sempre piaciuto poco e che sui fatti di Genova è stato esercitato da gruppi sparuti, in grande isolamento. In questa chiave il sostegno della letteratura, e in particolare di uno scrittore popolare come Camilleri, è una buona notizia.
Agli occhi di chi vede il bicchiere mezzo vuoto, è però l’ennesima beffa: per raccontare i pestaggi di piazza Manin (contro Lilliput e i pacifisti) e le torture di Bolzaneto c’è voluto un romanziere con la sua «opera di fantasia». E per vedere un poliziotto conosciuto in grado d’indignarsi c’è voluto un commissario immaginario.

Lorenzo Guadagnucci

Stefano Tassinari

L’epidemia libro

Vi è da augurarsi che questa parca recensione abbia soltanto in parte l’effetto morboso che il libro di Mauro Giancaspro, Il morbo di Gutenberg, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2003, pp. 160, € 12,50 – attuale direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli – provoca in chi si sottopone alla sua lettura. Perché alcuna profilassi può purtroppo funzionare, in quanto che Il morbo di Gutenberg è immediatamente contagioso al solo sguardo delle succinte righe che accompagnano la quarta di copertina di questo libro, la cui illustrazione in prima non lascia per giunta scampo, tanti sono i volumi posti in bella mostra sui ripiani di una libreria fotografata di sguincio. Cosicché viene immediatamente la voglia di sfogliarlo per capire di che si tratta, e a quel punto si è invischiati nel vortice di una lettura che parla dell’amore per la lettura…Di più: dell’amore per il libro… ben strano oggetto del desiderio il cui prezzo non c’è alcun mercato che possa stabilirne il vero valore.
Già… il libro: un semplice oggetto, o piuttosto un soggetto…anzi più soggetti, dal momento che la sua stessa lettura è una riscrittura che varia da persona a persona…macché…da stato d’animo a stato d’animo? A pensarci bene la stessa lettura di un libro è transitiva: si crede di leggere un libro e si finisce per essere letti dal libro, e forse proprio per questo il libro – più e più volte letto – suscita sempre diverse sensazioni, emozioni, passioni. Ma, allora, quando un libro cessa di “essere scritto”? E chi – soprattutto – gli dà “vita”? L’autore? L’editore? Il distributore? Il recensore? Il libraio? Il bibliotecario? Il lettore?
Qui sta la felice intuizione di Mauro Giancaspro: il libro è il vettore di un’infezione, una gravissima malattia che “a differenza di quelle che prendono il nome dagli scienziati che le hanno individuate e studiate come, per fare qualche esempio, i morbi di Bürger, di Basedow, di Recklinghausen, deve la sua denominazione a colui che l’ha inconsapevolmente determinata.” (p. 39) Perché dal 1456, ossia da quando Gutenberg stampò la Bibbia delle famose 42 linee a caratteri mobili, il morbo si diffuse come una vera e propria epidemia “che si è propagata e ha moltiplicato i suoi nefasti effetti nel corso dei secoli, trasferendo i suoi germi da libro a libro, dal libro all’uomo, da uomo a uomo, trasmettendo per contagio, per infezione, per via ereditaria, infilandosi perfino nel computer, e da questo in tutte le reti di comunicazione”.
Chi, dunque, meglio di un bibliotecario avrebbe potuto analizzare i sintomi del morbo di Gutenberg, e – al pari di un patologo – classificarli? E così – di pagina in pagina – scopriamo che tre sono le forme in cui esso si manifesta. Tre, come le tre prime lettere dell’alfabeto latino: la Gutenberg A, con i suoi tre stadi: bibliofilia, bibliomania, bibliofollia; la Gutenberg B con due tipologie: grafomania, grafofollia; ed infine la Gutenberg C che provoca la nota reazione detta bibliofobia.
Fin qui tutto bene (si fa per dire), se non fosse che le prime due forme del morbo, invece di mantenersi distinte e differenziarsi, – ci illustra il patologo Giancaspro – recentemente hanno iniziato a frammischiarsi favorendo una vera e propria promiscuità tra lettori e scrittori, tra oratori e ascoltatori tra venditori e acquirenti di libri, causando “l’assoluta mancanza di profilassi culturale, il mancato rispetto per qualsivoglia forma di igiene dell’erudizione, spesso l’assenza di pudore mentale” (p. 41), con la grave conseguenza – tipica di tutte le malattie – di diffondere sia forme benigne del morbo, riscontrabili in chi sa leggere e scrivere, sia forme devastanti e maligne, presenti soprattutto in chi crede di saper leggere e saper scrivere, determinando financo “forme più gravi, e peggio, di voler dare a credere di saper leggere e voler far sapere agli altri di saper scrivere”. (ib.)
A questo punto della lettura puntuale è il riscontrare alcuni sintomi descritti dall’autore nel “noi lettori” che stiamo leggendo febbricitanti il libro. “Sì, è vero… ho tenuto un diario…ho scritto poesie…ho un romanzo nel cassetto… che aspetta di essere pubblicato se trovo l’editore “giusto”…. E se no, lo pubblico io…a mie spese…e poi…e poi, lo distribuisco…lo diffondo su Internet… lo regalo alle Biblioteche…alle Associazioni… agli amici. Sennò a che servono…gli amici?”
Vuoi vedere che – più o meno – siamo tutti contagiati dal morbo di Gutenberg? Ma cosa possiamo farci: ci piace! In fondo, è ’na passione chiu forte d’na catena… E Mauro Giancaspro ha saputo descriverla così bene che vien voglia – al pari suo – di essere tacciati quali untori.

Gianfranco Marelli

 

Parma 1922

«L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente ma opera. […] Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà». Con queste parole inquietanti e sempre attuali scritte da Gramsci nel 1917, Pino Cacucci decide di aprire un nuovo capitolo del suo percorso narrativo dedicato ai ribelli; sovente sconfitti ma grandiosamente intenti a fare la storia e a non subirla.
In questa tessitura di recupero di una memoria collettiva, non può mancare una visita nelle vicende parmensi dell’agosto 1922: quando la resistenza popolare organizzata riuscì a spezzare l’attacco squadrista e a creare il primo serio intoppo nell’inarrestabile ascesa di Mussolini verso Roma.
Oggi, camminando per le strette vie dell’Oltretorrente di Parma (il quartiere tradizionalmente popolare e turbolento, diviso dalla città clericale e nobiliare dal torrente Parma), sembra impossibile che sia stato abitato da gente disposta a tutto pur di difendere la propria libertà. Le piazze rifatte in ‘stile’ piene di caffè e tavolini, rispecchiano una città che ha lasciato alle proprie spalle le radici sociali e, oramai satolla e bottegaia, si guarda melanconicamente indietro rimpiangendo i bei tempi del ducato dei Farnese e di Maria Luigia.
Invece Cacucci ha il merito di recuperare un’altra anima: non quella della Barilla e degli stati pre-unitari ma quando Parma era l’epicentro del sovversivismo italiano. Mai come nei trent’anni a cavallo tra otto e novecento la città è stata viva, creativa e ribelle: snodo vitale della mappa politica italiana.
Bastione delle lotte contadine, dell’Unione sindacale Italiana, dei seguaci di Corridoni e De Ambris la città si trova ad affrontare la crescente marea fascista: l’isola felice si trasforma in cittadella assediata.
Mussolini e Farinacci sanno bene che Parma rappresenta un obiettivo ambizioso e imprescindibile: un baluardo da espugnare con la tattica di sempre. Concentrare da altre province il maggior numero di squadristi, garantirsi l’appoggio delle istituzioni e dell’esercito, operare con vandalica determinazione la distruzione di sedi, camere del lavoro e quant’altro di rappresentativo del movimento operaio e contadino.
Ma le cose non vanno per il verso giusto: il prefetto e l’esercito scelgono di rimanere neutrali e le diecimila camicie nere si trovano ad affrontare i ceti popolari guidati dagli arditi del popolo (organizzazione decisa a rispondere colpo su colpo alla violenza fascista).
I fascisti, abituati a sopraffare si trovano in difficoltà malgrado siano comandati dal loro ras più prestigioso: Italo Balbo. Il solito copione non si ripete; in quest’occasione si trovano davanti gente motivata a resistere, guidata da personaggi determinati come Guido Picelli e l’anarchico Antonio Cieri: uomini e donne che, a dispetto delle decisioni quietiste della CGL, PSI e Partito comunista, decidono di dar battaglia mettendo in rotta dopo giorni di scontri sanguinosi la velleitaria armata fascista.
Nel libro Oltretorrente (Feltrinelli, Milano, 2003, pagg. 188, euro 13,00) la vicenda viene narrata con rigore storico da Cacucci, anzi, più che un romanzo a sfondo storico, l’autore costruisce una storia a sfondo romanzesco, con un filo conduttore: non accettare l’ineluttabile. Il futuro non è scritto. Forse il fascismo sarebbe arrivato al potere comunque ma è un fatto che casi come Parma, Sarzana o Bari dove si decise di non essere vittime sacrificali, misero seriamente in difficoltà il cammino verso la dittatura.
Questo spirito d’Oltretorrente rimane la migliore eredità di una città che oggi ha voluto dimenticare i suoi umori profondi, capace però di ricordare molti anni dopo al trasvolatore Balbo che: ‘T’è pasé l’Atlantic mo miga la Perma’.

Dino Taddei

 

L’intenzione di giustiziare Mussolini

Quando lo intervistammo per il n. 266, Giuseppe Galzerano ci disse che, dopo la biografia dedicata a Gaetano Bresci, si sarebbe occupato degli attentati degli anarchici contro Mussolini.
Lo troviamo nella campagna di Casalvelino Scalo (Sa), nel suo studio, in mezzo a libri, carte, fotocopie e ritagli di giornali. Ha mantenuto fede al suo impegno e il suo nuovo libro, fresco di stampa, stavolta ricostruisce, in 560 pagine, la vita e la tragedia di un giovane anarchico veneto, Angelo Pellegrino Sbardellotto, che il 4 giugno del 1932 venne casualmente fermato e arrestato a Piazza Venezia a Roma. Dopo aver ricostruito gli attentati di Giovanni Passannante e di Gaetano Bresci, è al terzo attentato nel quale scava – ancora una volta – una storia sconosciuta dell’altra Italia.

Allora un nuovo lavoro?

Sì, ma più che un “lavoro” il libro è il risultato di una passione per lo studio, per le storie sconosciute e minori del nostro paese, per le storie delle quali la storia ufficiale non si occupa, le trascura, le dimentica volutamente per la loro carica dirompente e sovversiva. La ricerca mi offre l’occasione per ridare voce e volto ad un “dimenticato” dell’altra Italia, quella che non ha piegato mai la schiena al potere, ad un giovane e coraggioso combattente del fascismo. È una storia anarchica dell’Italia antifascista, non di quella parolaia e vuota, ma di quella dell’azione e del sacrificio personale per ridare la dignità e la libertà ad un popolo calpestato e annullato dal tallone della dittatura mussoliniana. Di fronte alle masse che non insorgono c’è un giovane che si sacrifica.

Diciamo di chi si tratta...

Angelo Sbardellotto, originario di Mel (Bl), aveva appena venticinque anni. Veniva dal Belgio, dove era emigrato per sfuggire alla miseria e alla fame. Qui aveva avuto la possibilità di maturare la sua coscienza politica leggendo la stampa anarchica pubblicata in esilio. Si era convinto della necessità di abbattere il fascismo, che non si poteva abbattere con le chiacchiere, ma con i fatti e allora decise di venire in Italia per realizzare il suo obiettivo. Quando il pomeriggio del 4 giugno 1932 fu arrestato era al suo terzo viaggio ed era riuscito, servendosi di un falso passaporto intestato a certo Angelo Galvini, ad attraversare le frontiere italiane senza problemi. Aveva una pistola e due bombe a panciera, che erano state sagomate alla sua conformazione fisica. Appena arrestato non nascose la sua “intenzione” di far fuori il duce. Sottoposto a tortura fu costretto a confessare un presunto complotto che sarebbe stato ordito in tre capitali europee: a Parigi, dove c’era Alberto Tarchiani, ex giornalista liberale del “Corriere della Sera”, a Bruxelles, dove c’era Vittorio Cantarelli, calzolaio anarchico e a Londra, dove c’era Emidio Recchioni, negoziante anarchico che aveva fatto una certa fortuna con i prodotti italiani. Nessuno degli accusati rivendicherà mai la propria partecipazione a questo complotto. Anzi un tribunale inglese condannerà pesantemente il maggiore quotidiano londinese, il “Daily Telegraph” a risarcire Emidio Recchioni con 1.750 sterline, corrispondenti ad oltre 175 mila euro, che furono generosamente messi a disposizione dell’attività antifascista. La stampa fascista gridò al complotto, anche se Sbardellotto aveva in tasca appena 843 lire, corrispondenti attualmente a 704 euro. Se non si è motivati da una forte esigenza politica di libertà, si può rischiare la propria vita per così poco?

Cosa successe a Sbardellotto?

Dopo l’arresto il 16 giugno 1932 venne processato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e, dopo appena due ore di processo-farsa, fu condannato a morte solo per aver avuto l’“intenzione” di uccidere Mussolini. Fu un’infamia e allo stesso tempo una barbarie giudiziaria e politica. L’“intenzione” non può essere assolutamente equiparata al reato, reato, che non aveva ancora messo in atto. Per poter realizzare un’“intenzione” occorre il contributo di tante altre situazioni favorevoli. La condanna di Sbardellotto fu una terribile mostruosità giuridica, alla quale la milizia fascista, quando lo fucilò la mattina dopo, aggiunse una nuova pena: quella di fargli assistere – ventinove minuti prima – alla fucilazione di Domenico Bovone, un antifascista genovese che era stato condannato ugualmente a morte. Il suo corpo non fu reso alla famiglia e fu seppellito di nascosto a testimoniare che Mussolini aveva paura anche degli anarchici morti!

Angelo Sbardellotto

Dove hai trovato la necessaria documentazione?

In Italia e all’estero. Naturalmente molto materiale si trova all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, dove sono riuscito a consultare anche documentazione riservata. Per quanto riguarda la ricerca sulla stampa anarchica del tempo ho trovato materiale all’Archivio Famiglia Berneri di Reggio Emilia, al CIRA di Losanna, all’Istituto per la Storia Sociale di Amsterdam. Ho trovato sempre la massima collaborazione e disponibilità, che mi ha aiutato ad andare avanti per documentare e ricostruire, con rigore storico e politico, la breve vita del giovane tirannicida e tutte le vicende legate al suo tentativo, insieme all’ammirazione e alle simpatie che il fallito attentato suscita in Italia e all’estero. Nella minuziosa ricostruzione viene utilizzata per la prima volta un’ampia e inedita documentazione archivistica, tenendo conto anche degli articoli pubblicati sui giornali del tempo, dalla stampa fascista italiana e agli introvabili periodici pubblicati dagli anarchici e dagli antifascisti in esilio.

Il prossimo lavoro?

In genere alterno i libri, occupandomi anche delle rivolte della mia terra e a breve uscirà un saggio su una rivolta del Cilento avvenuta nel 1828 e poi subito dopo mi occuperò di altri attentati a Mussolini: o di Michele Schirru del 1931 o di quello del 1926 attribuito al giovane Anteo Zamboni. Nel frattempo preparo la ristampa anastatica del volume di Virgilia D’Andrea Torce nella notte.

Il volume di Giuseppe Galzerano, Angelo Sbardellotto. Vita, processo e morte dell’emigrante anarchico fucilato per l’“intenzione” di uccidere Mussolini, pag. 560 con 40 foto, può essere richiesto direttamente all’editore Galzerano versando l’importo di euro 25,00 a copia (per richieste di almeno 5 copie sconto del 30%) sul conto corrente postale n. 16551798 intestato a Giuseppe Galzerano 84040 Casalvelino Scalo/Sa o telefonando al telefax 0974 62028.

M. S.