rivista anarchica
anno 33 n. 292
estate 2003


costume

Chi imita chi
di Carlo Oliva

 

L’arte racconta la vita o è la vita (politica inclusa) ad imitare l’arte?

Nella penultima puntata di Un medico in famiglia, come ricorderete, la protagonista femminile giovane – quella che, nel linguaggio delle vecchie distribuzioni teatrali, si sarebbe definita «l’ingenua» – entra in salotto e trova la sua controparte maschile – il «primo amoroso», per restare a quella terminologia – tra le braccia di una bellona piuttosto discinta. Gli spettatori sanno che il poveraccio, una volta tanto, è del tutto innocente, perché è stata la donna – poco più di una comparsa, nella logica della vicenda – a buttarglisi addosso di sua iniziativa, ma lei, l’ingenua, prima non c’era e deve credere ai propri occhi: offesissima da quello che ha tutta l’aria di un tradimento patente, tanto più doloroso perché, dopo lunghe esitazioni, si era «fidanzata» con il giovanotto solo nella puntata precedente, gliene dice di ogni e gli intima di uscire dalla sua vita. E ce ne vorrà di fatica, nell’episodio finale, per rimettere le cose al loro posto, lasciando aperto appena quel tanto di ambiguità necessario per continuare la storia, se sarà il caso, nella prossima serie.

Lino Banfi

Dieci milioni di spettatori

Che ci sarà una prossima serie, mi dicono, è piuttosto probabile (salvi diktat Mediaset o capricci degli attori), perché quella appena conclusa ha riscosso l’apprezzamento – o, come si dice oggi, lo share – di non meno di nove dieci milioni di spettatori a puntata. Dieci milioni di rispettabili cittadini (e quibus ego, non lo negherò, sia pure in latino) che hanno seguito per mesi questa vicenda di moderate crisi domestiche, buoni sentimenti e amori più o meno appassionati sul piano ancillare, adolescenziale e senile, senza lasciarsi distrarre dalla sua evidentissima improbabilità. E quando dico improbabilità non mi riferisco al fatto che non devono essere poi troppo diffusi, sul territorio nazionale, siffatti gruppi familiari allargati, o le allegre ASL come quella in cui presta la sua opera il protagonista: in fondo, perché una data situazione possa assurgere a soggetto di una fiction qualsiasi deve essere in sé un poco insolita, altrimenti, con tutto il rispetto per il verismo, interesserebbe a ben pochi. No, l’improbabilità più notevole è quella dei singoli avvenimenti, dei casi di cui, puntata per puntata, si sostanzia la narrazione. Perché sappiamo tutti che, nella vita normale, è rarissimo (e quindi improbabile) che una bellona discinta ti si butti tra le braccia, e quando capita ci vorrebbe un surplus di sfiga davvero eccessivo per fare sopravvenire, proprio in quel momento, la tua fidanzata. Anche se in questo mondo bislacco le coincidenze non vanno mai escluse, è prassi normale quella di considerarle eventi occasionali e improbabili, incapaci – in ultima analisi – di modificare più che tanto lo svolgersi della nostra esistenza. Le incomprensioni, visto l’imperfetto sistema di comunicazione di cui ci serviamo, sono sempre possibili, ma in genere ci si capisce abbastanza. Sappiamo tutti che, il più delle volte, la frase «Scusa, non ti avevo capito» è, appunto, solo una scusa.
Eppure, equivoci, coincidenze e fraintendimenti vari sono alla base dello spettacolo di intrattenimento da tantissimo tempo. Gli autori del Medico in famiglia, da questo punto di vista, non hanno inventato niente. Si sono solo ricollegati a una tradizione teatrale e parateatrale che risale, attraverso la commedia brillante (cinema incluso), il teatro boulevardier, l’opera buffa, la commedia dell’arte, le sue fonti rinascimentali, e su, su, la palliata, l’atellana e via andare, a quella «commedia attica nuova» di Menandro e soci, che ha preso forma, se ricordo qualcosa dei miei studi classici, attorno al quarto secolo avanti Cristo. Fu allora, più o meno, che si cominciò a cercare di intrattenere il pubblico pagante con una raffigurazione stilizzata della vita di tutti i giorni, in cui certe occorrenze casuali venivano enfatizzate anche al di là del verosimile e i personaggi tendevano a fissarsi poco per volta secondo tipologie fisse. L’idea era, in un certo senso paradossale, perché mescolava le dimensioni del prevedibile e dell’inconsueto, ma ha avuto un successo storico straordinario. C’è voluto parecchio, naturalmente, per arrivare ai nostri telefilm, ma il percorso, in sé, è abbastanza chiaro. Si sono persi per via i personaggi meno confacevoli ai tempi (come il lenone malvagio e la ruffiana compiacente, che all’inizio andavano così forte), si sono adattati usi e costumi, cercando, magari con qualche ritardo, di tenere il passo dell’evoluzione del quadro valori, ma la struttura narrativa di quei prodotti si è rivelata ben salda nei secoli. La Maria della serie televisiva da cui siamo partiti, così, si sforza in tutta evidenza di essere una ventenne dei giorni nostri (o, meglio, quello che le autorità competenti pensano debba essere oggi una ventenne in quello che è il problema base del personaggio, come a dire la disponibilità di sé nel rapporto amoroso), ma non ci riesce fino in fondo perché nelle sue vene scorre il sangue di tutte le Mirandoline, le Isabelle, le Clizie, le Glicere, che l’hanno preceduta. Nessuno la chiama più così, ma è (e resta) una «ingenua», non nel senso che sia del tutto priva di malizia, ma perché a quelle improbabili reazioni e a quell’improbabile modo di relazionarsi col mondo il suo personaggio non può sottrarsi. E lo stesso vale, naturalmente, per gli altri.

Prepotenti smargiassi e presuntuosi saccenti

Bene. Tutto questo potrà essere più o meno vero, ma non sembra possa o debba interessare ad altri che i cultori di storia delle forme teatrali. Eppure… eppure potrebbe valere la pena di interrogarsi su quanto l’improbabile riesca a entrare nella nostra vita di tutti i giorni. Sarà perché la vita ha l’irrefrenabile tendenza a imitare l’arte, o perché ai modelli di plausibilità offertici da una tradizione così lunga e così radicata non riusciamo, nostro malgrado, a sottrarci (che è, poi, come dire la stessa cosa), ma capita sempre più spesso di avere a che fare, nella «realtà», o in quello che diamo per tale, con figure e situazioni che sembrano usciti da una commedia o da un telefilm. Di ingenue, forse, non se ne troveranno più in giro tante, ma di prepotenti smargiassi, servi intriganti, poveri ingenui gabbati e presuntuosi saccenti, per citare soltanto quattro delle tipologie più amate e sfruttate in ventiquattro secoli di mimesi comica, non si sente certo la mancanza.
C’è di più. Menandro e i suoi seguaci, si sa, limitavamo le proprie trame ai casi della vita domestica e familiare: escludevano per programma le allusioni alle grandi vicende pubbliche, quelle che, in altra fase storica, avevano nutrito la comicità politica di un Aristofane. Noi siamo più evoluti: abbiamo riportato la commedia nell’ambito pubblico e non ci stupiamo se i politici agiscono come protagonisti di una commedia. Prendiamo pure, per non perdere inutilmente tempo con i minori, l’esempio più insigne: non è, il presidente Berlusconi, un personaggio perfetto da telefilm? Lo è, oltre che per la familiarità con il mezzo (nel senso di medium) e gli atteggiamenti caricati che esibisce, per la tipicità stessa delle sue reazioni, per quel mix di improbabilità e di plausibilità che, come tutti i grandi tipi comici (in senso tecnico, Presidente: niente di personale) si porta con sé.
L’oscurità del concetto è solo apparente. È un fatto che spesso, di fronte a figure del genere, viene da pensare che siano veramente troppo improbabili, che non ci sia posto per loro nel mondo reale. E pure, una volta ammessane l’esistenza, si capisce che non potrebbero reagire altrimenti di come reagiscono.
Questo significa, naturalmente, che figure del genere sono al di là di ogni possibile cambiamento ed evoluzione. Come il capitan Matamoros non potrà mai smettere i panni del miles gloriosus o Arlecchino non potrà mai dismettere la sua casacca multicolore, Berlusconi, in sostanza, non può esistere che come se stesso: è irrigidito nella tipicità delle grandi maschere, dei grandi personaggi di fiction. Soltanto così può dare credibilità alla trama, anch’essa affatto improbabile, della sua carriera politica, alla storia del grande imprenditore che giunto, a forza di impegno e di duro lavoro, ai vertici del settore, rinuncia a tutto e «scende in campo», con grave sacrificio personale, per salvare il paese da una minaccia incombente. Ammetterete anche voi che di fronte a ipotesi narrative del genere, le improbabilità delle vicende della famiglia del Medico in famiglia, con ASL annessa, tendono a vanificarsi e che quella saga ci appare come un colosso di realismo sociale. Non si scappa: la vita, quella politica inclusa, imita proprio l’arte.
Solo che in televisione, naturalmente, c’è il lieto fine.

Carlo Oliva