rivista anarchica
anno 33 n. 292
estate 2003


ambiente

Lo stato delle cose
di Andrea Papi

 

Di fronte al depauperamento sistematico dell’ambiente viene spontaneo chiedersi se siamo giunti al punto di non-ritorno, o se rimangono delle possibilità d’inversione di una tale devastante tendenza.

Sono molte le cose che fanno supporre che, con un elevato livello di probabilità, non siamo lontani dalla resa dei conti. Ha poca importanza se ci sarà fra qualche anno, qualche decennio, o qualche secolo. Rispetto al tempo cosmico si tratta sempre comunque di un «batter di ciglia».
Il problema che voglio sottolineare è che la nostra specie, finalmente mi verrebbe da dire spinto da un’autoironica pulsione cinica, fra non molto, comunque molto prima di ciò che spereremmo, dovrà rendere conto del proprio modo di stare al mondo, a se stessa ed allo stesso mondo.
Con una noncuranza desolante ed un’inconsapevolezza sconcertante l’intero mondo civilizzato vive all’interno di una logica e di un senso di separazione. È oggettivamente parte del mondo, ma si concepisce e si immagina, non tanto fuori, ma sopra di esso, cioè parte separata e non integrata del contesto globale. Sembra quasi che il mondo, ma con l’inizio dell’era spaziale anche l’intero universo, esista con il solo scopo di servire ai suoi bisogni, ai suoi capricci ed ai suoi «sfizi». Culturalmente la nostra specie non riesce e non vuole sentirsi parte integrata del contesto in cui e per cui esiste, mentre lo considera come il luogo per eccellenza, simbolico e reale allo stesso tempo, strutturato ed impostato per permetterle di agire a suo piacimento, senza né dover né voler tener conto d’altro che della propria autoreferenza.
Eppure non è sempre stato così. Questa collocazione autoreferenziale di separazione della specie umana dal resto, di cui è comunque parte, ha cominciato ad affiorare da pochissimo tempo, solo da qualche millennio, più o meno col sorgere delle civiltà, riuscendo ad imporsi definitivamente in modo incontrastato con l’avvento della modernità, cioè da qualche secolo. Secondo gli studi più recenti, infatti, si calcola che, come tipologia di specie, quella umana esista sul pianeta terra da circa sette milioni di anni. Che cosa sono in fondo qualche millennio, anzi addirittura qualche secolo, davanti a sette milioni di anni? Metaforicamente, in proporzione possono essere fatti corrispondere ai rantoli degli ultimi giorni di vita.

Visione magico-sacrale

Nella prima metà del secolo scorso l’antropologo Lévy-Bruhl, che ha dedicato gran parte della sua ricerca e delle sue opere a studiare la mentalità dei primitivi, cioè delle culture pre-storiche, arrivò ad identificare che l’approccio che quei nostri antenati avevano col mondo era sorretto da una visione magico-sacrale. Essi non guardavano alle cose ed ai fenomeni col nostro sguardo, proteso a vedere gli oggetti e ciò che avviene come esclusive manifestazioni di ciò che chiamiamo materia e che si mostra. Per loro il «visibile» non era interessante e, soprattutto, non lo ritenevano reale. La realtà di cui intuitivamente ed emozionalmente si occupavano, quella che consideravano realtà vera, era al di là di ciò che appare, al quale invece si ferma il nostro guardare. Ma, soprattutto, erano mossi da un’intima convinzione che a muovere ed a causare ciò che appare non sono le cose ed i fatti come si dispiegano alla nostra visione, bensì forze (oggi diremmo energie) invisibili, sfuggenti all’apparenza, vissute come la vera essenza nascosta della manifestazione apparente.
Quello dei pre-storici è un linguaggio metaforico, mitologico, a tratti favolistico, che rifugge la descrizione. Essi non dovevano né volevano descrivere i fatti, o lo svolgimento dei fenomeni, o l’aspetto delle cose, semplicemente perché li consideravano non rilevanti, addirittura non reali. In altre parole, per loro non esistevano fatti, o avvenimenti, né tantomeno fenomeni e ciò che appare era vissuto per quello che effettivamente è: pura apparenza. Erano invece attratti e cercavano di conoscere i percorsi invisibili che conducono all’emergere di quelli che noi oggi identifichiamo come fatti, fenomeni e avvenimenti. Per usare un’espressione presa in prestito dalla fisica subatomica erano interessati ai processi e consideravano tutto ciò che vedevano come risultanti di concause e processi che si svolgono dietro ed oltre il percepibile. La realtà vera per loro si nascondeva ai nostri occhi offuscata da un «velo», quello dell’apparenza. Per questo la loro ricerca del vero era continuamente protesa allo «svelamento», all’identificazione del movimento reale che si cela dietro ciò che appare. Per questo erano attenti ai segnali, anche i più insignificanti, come uno spostamento d’aria o il volo degli uccelli, perché sapevano che, se ben interpretati, potevano indicare e suggerire il percorso delle cose nel modo in cui stava avvenendo.
La loro visione ed il loro approccio al mondo erano perciò magici e sacrali insieme. Visione magica perché vedeva i movimenti delle cose e gli aspetti del reale all’interno di dimensioni fantastiche nell’ambito di un’atmosfera incantata. I pre-storici, infatti, erano culturalmente calati dentro l’incanto del mondo, vissuto essenzialmente come luogo del divino e non della materia, nel senso che tutta la manifestazione era interamente collegata al soprannaturale. Approccio sacrale perché ogni cosa ed ogni aspetto del reale, visibile ed invisibile, era vissuto come sacro, cioè connesso ed inerente alla presenza dell’onnipresente divino.
Questa visione li portava, naturalmente e spontaneamente, a vivere il mondo in ogni suo aspetto con grande rispetto e venerazione. Qualsiasi cosa facessero od avessero intenzione di fare era perciò vissuta come un’operazione che necessariamente doveva collocarsi nel movimento naturale delle cose, sacro e divino insieme. Sempre secondo Lévy-Bruhl, a loro non interessava il come, bensì il perché. Il loro spirito si orientava istantaneamente ed irresistibilmente verso il soprannaturale, di cui avvertivano emozionalmente la presenza. Diffuso e condiviso aleggiava un intenso emozionalismo, mai dissociato dal misticismo, che permette all’antropologo di identificare una categoria culturale pre-storica, che definisce categoria affettiva del soprannaturale. Ecco perché il loro muoversi era costellato di rituali e riti sacri, propiziatori e magici, che dovevano mettere in moto la possibilità e la capacità di agire senza entrare in conflitto col movimento invisibile delle cose, rimanendo cioè all’interno dell’equilibrio delle forze.

Parte integrante del tutto

Ne derivava così una perfetta integrazione col e nel contesto ambientale di riferimento. Naturalmente e spontaneamente si sentivano parte integrante del tutto. Lo erano e lo volevano, al punto che per loro era addirittura inconcepibile non esserlo. Ciò che capitava ad ogni individuo umano, come a qualsiasi altro essere vivente, come a qualsiasi sasso o granello di sabbia, nella loro visione non poteva non avere una ripercussione ed un’interrelazione con tutto il resto. Tutto era collegato, correlato ed interrelato, in un equilibrato, costante e cosmico rapporto di reciprocità e scambio. Una visione che oggi chiameremmo olistica e, senza remore di alcun tipo, naturalmente e spontaneamente ecologica.
Ad un certo punto, ineffabile e non identificabile come tutti i certi punti di cui non si ha documento di memoria, è iniziato il disincanto, nel senso weberiano di distacco, di allontanamento dal divino. Non è stato un big-bang, cioè uno scoppio improvviso capace di cambiare all’istante e all’improvviso la struttura in modo irreversibile, bensì un processo, dapprima inavvertibile e lentissimo però inesorabilmente progressivo, poi sempre più incisivo e così penetrante da riuscire a modificare totalmente la visione e la percezione originarie della pre-storia. Da una visione del mondo originariamente magico-sacrale, attenta all’invisibile e perfettamente integrata negli ecosistemi di cui la specie si sentiva parte integrante, ad una secolarizzata e scientifica, attenta alla percezione del visibile ed alla conoscenza della sua struttura, mossa dall’intento di modificarla e di plasmarla a proprio esclusivo vantaggio. Non più specie integrata nel contesto, ma sovrapposta ad esso nel costante tentativo di dominarlo. Molto probabilmente si è cominciato a prestare sempre più attenzione all’ambito della materia ed a ciò che si vedeva, non più con lo sguardo dell’incanto, che conduceva ad essere intimamente convinti che ciò che appariva all’occhio ed ai sensi non era in realtà reale. Sempre più interessati invece a quella che prima era considerata semplice apparenza, fino a considerarla l’unica vera ed apprezzabile realtà reale, mentre l’invisibile veniva degradato a fantasma dell’immaginazione, degno di un approccio fantastico, ma del tutto indegno di un approccio d’indagine conoscitiva del reale.
In altre parole, dal punto di vista del collocarsi, cioè della coscienza, del modo di sentire e del modus vivendi, mentre prima eravamo immersi nella natura e ci consideravamo sue componenti, ora siamo sopra la natura e la concepiamo quale contesto del nostro esclusivo dominio. Dal punto di vista della relazione con essa, non ha nessuna importanza se prima il nostro esserci era determinato da un sentire fantastico e magico-sacrale, che oggi consideriamo fuori dalla realtà, mentre ora c’illudiamo di essere padroni della sua conoscenza. Ciò che veramente conta è che prima, di fatto, ne eravamo una componente simbiotica e vivevamo un rapporto naturale di armonico equilibrio ecologico, mentre oggi, al contrario, siamo sempre di più un corpo estraneo, metaforicamente un virus, che tende ad appropriarsi di tutto ciò che trova depauperando sistematicamente l’ambiente. Prima eravamo parte di una ricchezza universale, ora siamo solo una maledetta causa continua di un progressivo impoverimento universale.

Dominio come ragione di vita

È importante sottolineare che la sfera del dominio, nel suo manifestarsi ed estendersi, non si è limitata al rapporto tra specie e natura, ma, cosa fondamentale ai fini della comprensione del senso del nostro esserci, è diventata una vera e propria ragione di vita. Ha cioè occupato l’intero ambito esistenziale della specie, divenendo il senso e la spinta fondamentali per la conduzione dell’esistente, estesa ad ogni ambito del nostro modo di vivere, compresi il rapporto con le cose e le altre specie viventi, la politica, cioè l’ambito della gestione societaria, e la morale, cioè l’ambito della direzione e della consapevolezza dei comportamenti. Il dominio è così diventato il senso per eccellenza, capace di determinare totalitariamente la qualità ed il tipo della relazione col mondo, sia al nostro interno, la società, sia al nostro esterno, la globalità della natura. Nel nostro immaginario consolidatosi, da troppo lunga data il rapporto col mondo e con noi stessi è così ormai all’insegna del bisogno di dominare.
Come tutte le scelte, anche questa, che fra l’altro è una scelta di fondo alla base del senso primario dell’esistente, comporta delle conseguenze. E la conseguenza principale e fondamentale è che, come scrivevo all’inizio, non siamo lontani dalla resa dei conti. Lo dico con la consapevolezza lucida di rischiare una considerazione catastrofista. Però non me ne sottraggo, perché in cuor mio sono arciconvinto che se c’è un riferimento alla catastrofe esso non risiede in alcun modo nella mia considerazione, bensì nello stato delle cose per come si è determinato e continua inesorabilmente a propugnarsi. Anche perché non sono tanto io a dirlo, la qual cosa non avrebbe in sé valore pur rimanendo la legittimità del pensiero, quanto i resoconti dei vari convegni sul clima e sull’ambiente condotti dagli organismi internazionali ufficiali, i quali ogni volta, con gran numero di argomentazioni e di documentazioni di riconosciuto rigore scientifico, ci mettono di fronte all’appropinquarsi accelerato dell’imminenza di catastrofi globali, ogni volta sottolineando il pericolo, sempre più imminente, della loro irreversibilità.
Viene spontaneo chiedersi se ormai siamo irrimediabilmente giunti al punto di non ritorno, o se al contrario rimangono delle possibilità concrete d’inversione di una tale devastante tendenza. Personalmente sono convinto che siamo ancora in tempo, anche perché madre natura ha più volte mostrato capacità di recupero sorprendenti, poi perché non val mai la pena dichiarare forfait prima che i segni della sconfitta siano effettivamente evidenti. Ma per riuscire ad essere ancora in tempo sarebbe necessario intervenire abbastanza in fretta, mettendo fine al più presto al nostro modo vigente di stare al mondo, responsabile del permanere d’un tale stato di cose.
Bisognerebbe superare ed abbandonare la costante tensione di dominio che caratterizza la nostra attuale relazione col mondo, fino a riappropriarci dell’originaria tensione di perfetta integrazione col e nel contesto ambientale di riferimento. Dovremmo riuscire in breve a tornare a sentirci parte correlata ed interrelata della natura e della materia nel loro complesso e cominciare a considerarci componenti armoniche dell’equilibrio universale, a sentirci realizzati nel pensare e nell’operare per il suo mantenimento e il suo perfezionamento. Se invece continueremo a proporci ed imporci come se fossimo sopra la natura e la materia, convinti in modo del tutto autoreferenziale di essere una specie superiore per le specifiche capacità intellettive e culturali che ci distinguono, quindi autolegittimati a dominare tutto ciò che ci circonda, magari limitandoci furbescamente soltanto a correggere il tiro per allentare la nostra pressione sul contesto, nella vana illusione di riuscire a controllare il processo di devastazione di cui siamo responsabili, allora l’irreversibilità della completa resa dei conti non sarà evitabile in alcun modo.

Tornare all’incanto pre-storico?

La qual cosa non vuol dire che dovremmo ritornare pari pari all’antico incanto pre-storico di una visione del mondo magico-sacrale. Quelle epoche della nostra genesi non possono né devono tornare più, con tutti i loro complessi e misterici rituali, con i loro specifici linguaggi metaforici, le loro affascinanti allegorie e le loro leggendarie mitologie.
Quella capacità espressiva ed evocativa inimitabile rimane un meraviglioso retaggio ancestrale, ormai connaturato nel nostro DNA. Prese quella forma e quel modo per un processo di spontanea integrazione e di felice adattamento ad un ambiente che all’occhio umano non poteva che apparire misterioso, imbelle e meravigliosamente fascinoso, capace di suscitare intense e profonde emozioni, intrise di paura, curiosità ed incanto per tutto ciò che non mostrava pur facendolo captare intimamente.
Ciò che dovremmo riuscire a fare, invece, è la costruzione di una nuova coscienza olistica, dettata dalla consapevole riappropriazione dell’incanto di un’appartenenza nuovamente integrata all’insieme del tutto, di cui necessariamente siamo parte. Si tratta semplicemente di scegliere se vogliamo continuare ad essere una componente che vuole imporsi e dominare tutto il resto, quindi destinarci all’inevitabile devastazione, oppure ridiventare parte armonica dell’equilibrio cosmico indispensabile alla perpetuazione dell’esistente, capaci di riconsiderare e valorizzare in forma attuale la sacralità della vita, quale espressione continuamente riproducentesi di molteplici processi, correlati ed interrelati all’interno dell’acentrica (priva di un centro dominatore) e multiforme manifestazione dell’insieme.
Potremmo benissimo farlo, solo che lo volessimo, per mezzo dell’indagine scientifica e della capacità tecnologica che siamo in grado di mettere in campo. Da diversi decenni esse stanno già esplorando quotidianamente l’invisibile, regalandoci con grande frequenza nuove conoscenze e nuove acquisizioni che stanno progressivamente cambiando, di giorno in giorno, la visione del mondo che si era consolidata fino a qualche decennio fa con la modernità. I concetti positivisti di materia e fisicità hanno ormai subito una svolta irreversibile e ci stiamo sempre più accorgendo che per comprendere il reale dobbiamo osare, per andare oltre il regno dell’apparenza sensibile. Ora sappiamo, in una nuova forma scientifica, che non esistono fenomeni separabili, ma processi correlati ed interrelati, non diretti dall’alto da nessuna entità gerarchica, i quali danno senso al procedere del divenire.

Equa distribuzione del benessere

Dovremmo solo cambiare senso ed indirizzo all’uso che facciamo sia dell’indagine scientifica sia della grande capacità tecnologica. Invece di finalizzarli a priori al dominio del mondo, alla gestione dei poteri e del comando centralizzati e alla realizzazione di profitti finanziari, dovremmo operare per realizzare un’equa distribuzione del benessere, inteso sia per tutti gli esseri umani sia per ogni appartenente ad ogni altra specie vivente sia per il mantenimento dell’equilibrio ecologico naturale. La conoscenza e le realizzazioni di tecnologia sofisticata dovrebbero diventare strumenti realmente a beneficio del mondo, quindi anche della nostra specie, non più innanzitutto della nostra specie, che considera utile a sé lo strapotere di decidere a suo piacimento la vita e la morte di ogni cosa o essere vivente che riesce ad annettersi, fra l’altro ad esclusivo vantaggio dell’esigua minoranza che ha il privilegio di avere in pugno il potere d’imposizione. Si dovrebbe smettere prima di pensare poi di produrre tutto ciò che entra in contrasto con l’armonia degli equilibri omeostatici e geotermici, mentre dovrebbe trionfare l’idea principe che ogni sforzo realizzativo non può e non deve prescindere dall’essere confacente e in coerenza con i principi di correlazione ed interrelazione sistemica. Ci dovrebbe sorreggere costantemente il presupposto, in fondo semplice e «naturale», del rifiuto tassativo di operare in contrasto col contesto che ci permette di vivere.
Per completare l’opera, dovremmo arrivare a superare la cultura prevalente del dominio in ogni aspetto del nostro stare al mondo, in particolare in riferimento alla gestione politica. Come rilevavo più sopra, c’è un’intima profonda connessione tra il modus operandi interno alla specie, quello sociale, e il modus operandi esterno, nei confronti del contesto ambientale, dal momento che il dominio è ormai il senso per eccellenza, capace di determinare totalitariamente la qualità ed il tipo della relazione con l’universo. Ciò che va superato è l’effetto deleterio della pulsione che spinge al bisogno, capace di diventare spasmodico, di imporsi e dominare a scapito di qualsiasi altra cosa. Ciò che va cambiato alla radice sono l’intenzionalità e l’atteggiamento, assieme alla volontà, del modo di continuare ad esserci. Dobbiamo liberarci della voglia di dominare ed imporci, cominciando ad assaporare il piacere e la gioia dell’essere in armonia col mondo, respirando a pieni polmoni l’aria pulita e salutare della libertà, opposta per sua natura a quella inquinata ed inquinante del dominio.

Andrea Papi