rivista anarchica
anno 33 n. 289
aprile 2003


guerra

Compatte nuvole oscure
di Antonio Cardella

 

Se la guerra scoppierà... Forse, quando leggerete questo articolo, sarà già realtà. Comunque…

Probabilmente, quando questo numero di “A” andrà in edicola, la guerra sarà già una realtà o, al meglio, un’eventualità assai prossima. Non c’è, purtroppo, da alimentare alcuna illusione: la guerra è stata decisa da tempo e se non è ancora guerreggiata è perché l’amministrazione Bush ha tentato sin qui di farne pagare le spese – come avvenne per la guerra del Golfo – alla comunità internazionale. E sarà un conflitto, quello che gli Stati Uniti scateneranno contro l’Iraq di Saddam Hussein, inedito e che coinvolgerà, in prima istanza, l’area mediorientale, ma che, fatalmente, si estenderà poi in larghissima parte del pianeta.
Inedito, questo conflitto voluto da George Bush, perché, per la prima volta nella storia, una nazione esplicita senza mezzi termini la propria intenzione di egemonizzare il mondo, esportando, con le buone o con le cattive, il proprio modello di sviluppo e il proprio ordinamento politico-giuridico-sociale, in nome di una globalizzazione, la cui attuazione non sarà compiuta se non abbraccerà tutti i settori della vita associata degli uomini. Al confronto, la protervia napoleonica, vera o presunta che fosse, appare come la nevrosi visionaria di un puerino, staccato anzitempo dal seno della madre.
Si tratta, tuttavia e purtroppo, di un disegno che appare realistico, a giudicare dalle forze in campo, per due buoni motivi. Il primo è che non esiste attualmente un modello alternativo forte da opporre al modo di produzione capitalistico, di cui la globalizzazione è fase conseguente. Ci sono, è vero, voci dissonanti, iniziative anche concrete che propongono di coniugare, con cadenze diverse, i tempi, i modi e i criteri della produzione e della distribuzione delle risorse, in modo che siano più rispondenti alle reali esigenze degli uomini, di tutti gli uomini, salvaguardandone anche quei diritti che non siano direttamente riconducibili alla dimensione economica. Ma sono progetti e iniziative, certamente meritori per la gran parte, che raramente affrontano il problema dalla radice: troppo spesso, anzi, appaiono come variazioni sul tema dell’esistente, condannati, quindi, a ricadere nella logica che intendono combattere. Su questo versante, perciò, c’è ancora moltissimo da fare e non mi sembra, francamente, che il movimento new global si muova velocemente in questa direzione.
Il secondo motivo che giuoca a favore del progetto dell’amministrazione Bush è la potenza militare che può mobilitare, smisuratamente più grande di quella che le altre coalizioni, effettive o virtuali, possano, volendolo, contrapporgli. Gli arsenali di armi convenzionali e non, posseduti dagli Stati Uniti, coniugati con uno straordinario apparato informatico di sorveglianza e di spionaggio, mettono i militari americani nelle condizioni di colpire mortalmente qualunque paese vicino o lontano che sia. Quindi, neppure da questo versante c’è molto da sperare, mettendo nel conto anche il cinismo di una nazione che, in gran parte ancora, si sente impegnata in una sorta di prosecuzione aggiornata delle guerre di conquista che ne segnarono le origini.

Spiragli di luce

Ma se l’orizzonte sembra chiuso da compatte nuvole oscure, non è detto che qualche spiraglio di luce prima o poi non traspaia. Dove sta la debolezza del progetto americano?
Per la verità, di crepe in questa gigantesca costruzione se ne scorgono già parecchie. Cominciamo dalla principale, che può apparire come la conseguenza di una visione ottimistica della condizione umana, alla quale è difficile conferire peso specifico: il processo di globalizzazione prevede, per definizione, che vi sia un centro dell’impero dal quale tutte le cose provengano e al quale tutte le cose risalgano. Il resto, comunità, fedi religiose, consuetudini esistenziali diverse dalle proprie, è tollerato a condizione che non interferisca sulle rotte del grande navigatore.
Non vi è dubbio che, attualmente, il centro dell’impero sia la potenza americana e non passa giorno senza che George Bush ce lo ricordi.
Se questi, però, sono gli onori, agli oneri non ci si può sottrarre, e sono oneri gravosi. Bisogna difendere l’impero alle frontiere, tanto vaste quanto è vasto l’impero; occorre provvedere a sfamare le popolazioni ed a sorvegliarle, e ciò implica una rete burocratico-poliziesca dalle dimensioni gigantesche.
Nella storia moderna gli imperi hanno avuto sempre vita non facile e relativamente breve. Poi, di norma, si costituivano come esiti di conflitti fra istituzioni statuali: i popoli contavano poco, tanto lontana era la loro esistenza dalle tattiche e dalle strategie dei loro amministratori. Se mi è consentita, a mo’ di esempio, una parentesi personale, ricordo che, alla fine degli anni Sessanta, in giro per la campagna calabra per documentarmi su una riedizione critica del romanzo verghiano I carbonari della montagna, in quelle plaghe ambientato, mi trovai a chiedere ad un contadino della Sila se sapesse chi fossero i Savoia. Nel suo dialetto duro e cadenzato mi confessò di non saperlo, ma che forse si trattava di biscotti che si preparavano nella lontana città di Catanzaro. Probabilmente si trattava di un caso limite, ma è certo che, se si escludevano i grandi centri urbani dove il confronto politico era più visibile, nelle periferie e, soprattutto nel contado, se la popolazione si scontrava con le istituzioni, i motivi andavano ricercati nella precarietà della vita che era costretta a vivere, piuttosto che in una visione politica determinata. Del resto, per avere conferma sullo stato delle cose di allora, basta scorrere le statistiche del tempo sul livello di scolarizzazione, sulla precarietà, per non dire inesistenza, dei mezzi di comunicazione di massa e sulla difficoltà della circolazione degli individui, quando non costretti ad esodi dolorosi per garantirsi la sopravvivenza.

Mobilitazioni impensabili

Oggi, per fortuna, almeno su questo versante, la situazione è assai diversa. C’è, nei popoli, una consapevolezza incommensurabilmente più rilevante dei propri diritti, primo fra tutti quello di partecipare attivamente alle decisioni che sono destinate a pesare sulla comunità di appartenenza e sul contesto geopolitico complessivo.
Appena pochi anni fa, mobilitazioni popolari per il lavoro e contro la guerra quali quelle che si sono viste in ogni angolo di mondo in questo scorcio di secolo, erano impensabili. E questo complica oltre ogni misura la fattibilità di un disegno imperiale.
A prescindere, comunque, da tali difficoltà obiettive, nel caso specifico dell’amministrazione Bush occorre aggiungere una carenza di livello strategico davvero sorprendente.
Già nella giustificazione degli interventi in Afghanistan e in quello ipotizzato in Iraq, sono state fornite almeno tre versioni tra loro diversissime. Appena dopo l’11 settembre, si disse che occorreva prepararsi ad un trentennio di guerra continua contro il terrorismo islamico; poi si affermò che gli interventi militari erano necessari per abbattere l’inumana dittatura di Saddam Hussein e per sollevare il popolo iracheno dalla schiavitù e dalla fame; infine – e non è detto che sia l’ultima versione – si dichiarò che la lotta al terrorismo è solo un episodio del ben più impegnativo disegno di stabilizzare lo scacchiere medio orientale, provocando un effetto domino che, a partire dall’Iraq, modifichi in senso democratico l’assetto politico dell’area.
Com’è facile rilevare, si tratta di giustificazioni che hanno respiri strategici assai diversi l’uno dall’altro e che implicherebbero, se fossero credibili, tre distinte procedure, sia in termini di mobilitazione di risorse, sia nella preparazione diplomatica dell’impresa prescelta. Per esempio: in una lotta contro il terrorismo che non fosse pretestuosa, si otterrebbe, come del resto si ottenne, un’ampiezza di consensi (e, quindi, una partecipazione alle spese) che sarebbe molto più problematica se si trattasse di intervenire nel modo descritto in Medio Oriente.
In quest’ultimo caso, gli interessi in giuoco sarebbero assai poco convergenti. Il problema, infatti, si porrebbe non in termini di guerra sì o guerra no, ma di sapere cosa si vuol fare dopo, dando per scontato l’esito a favore dell’America dell’evento bellico. Per quanto poco credibile, in Afghanistan un leader come Karzai c’era, ma in Iraq l’opposizione al regime di Saddam non esprime alcun esponente che abbia quel minimo di carisma necessario per compattare il paese, senza considerare poi che, scomparso il dittatore, un laico che tutto sommato non urtava la suscettibilità religiosa di alcuna fazione, le tensioni interne, proprio di carattere religioso, esploderebbero. Ed è per questa ragione che alcuni osservatori non escludono la possibilità di uno smembramento dell’Iraq in tre parti: a nord i curdi, che rivendicherebbero i territori con le città di Mosul e Kirkuk; i sunniti al centro con la capitale Baghdad; gli sciiti a sud, dalla città di Nagal sino al confine con il Kuwait. Questa ipotesi allarma la Turchia, che vede la possibilità della riedizione di uno stato curdo al sud. E tale preoccupazione non è certamente estranea all’improvvisa e imprevedibile impuntatura del parlamento nel negare il transito delle truppe americane per un attacco da nord dell’Iraq. (Mentre scriviamo non siamo in grado di stabilire se il veto verrà mantenuto o si tratta solo di una dilazione)
In ogni caso, comunque vadano le cose, occorrerebbe sempre una sorta di protettorato militare del territorio iracheno della durata dai cinque ai dieci anni, per rimettere in piedi un sistema politico-amministrativo in grado di governare in qualche modo il paese, con un costo annuo valutato intorno ai 20 miliardi di dollari, ai quali bisognerebbe aggiungere le spese per i profughi e l’assistenza alle popolazioni. Se a questi costi si sommano quelli per la sola impresa bellica, valutati intorno ai 100 miliardi di dollari, non si vede come un’economia in stagnazione quale quella americana possa sopportare un peso così esorbitante.
Consolatoriamente si afferma che a pagare la maggior parte delle spese sarebbe la commercializzazione del petrolio iracheno, liberato da ogni embargo. Ma la prospettiva è consolatoria perché, ammesso che nel corso della guerra i pozzi principali non vengano incendiati – evento assai probabile – ci vorranno anni per ripristinare i sistemi di estrazione e di raffinazione non utilizzati per le limitazioni imposte dall’ONU dopo la Guerra del Golfo del 1992.

Effetti collaterali

Che dire, poi, degli effetti collaterali (ma non meno pesanti) di un’occupazione militare, che sarebbe vista dalle popolazioni dell’intera area come una riedizione del protettorato britannico (durato in pratica sino a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso), il cui ricordo è ancora dolorosamente vivissimo?
Probabilmente un effetto domino ci sarebbe, ma non nel senso auspicato da Bush. È assai probabile, infatti, che un’occupazione militare in un’area nevralgica per la molteplicità degli interessi che vi gravitano, ricompatterebbe il fronte islamico meno propenso ai compromessi politici e più prossimo all’intransigenza religiosa, con una conseguente ricomparsa della guerriglia nelle zone occupate (molto attiva nel periodo del protettorato britannico) e dell’intensificarsi degli atti di terrorismo in tutti i paesi dell’Occidente. Senza considerare che si interromperebbe bruscamente quel faticoso processo di modernizzazione intrapreso da paesi quali l’Arabia Saudita e l’Egitto, che sarebbero fatalmente risucchiati dall’onda antioccidentale ed esposti ai revanscismi di minoranze fanatiche, come accade oggi nella sfortunata Algeria.
Queste le prevedibili conseguenze di una guerra condotta sul territorio iracheno per quel che riguarda la regione direttamente interessata.

Divide et impera

Per il resto, a mio giudizio, l’amministrazione Bush continua a ritenere valido il vecchio criterio del divide et impera e non la preoccupano più di tanto (o li sottovaluta) gli esiti devastanti che la guerra avrebbe per l’intero mondo occidentale. Probabilmente mette nel conto che, se la guerra non riuscisse ad ottenere l’avallo dell’ONU, (ma, per altri versi, anche se l’ottenesse), l’ONU stessa, la NATO e il processo di unificazione europeo, così faticosamente avviato, salterebbero e lo sbocco verso un mondo egemonizzato dalla potenza americana sarebbe più agevole. Non riusciamo, infatti, a trovare alcun’altra giustificazione alle continue violazioni del sistema giuridico internazionale. L’arrogarsi il diritto di stabilire quali siano gli stati amici da proteggere e quali gli stati nemici da abbattere; il decidere unilateralmente quale assetto politico debba avere un’area del pianeta (il sistema democratico a stelle e strisce imposto a suon di missili intelligenti e persino di bombe atomiche tattiche); il rifiuto di contribuire alla creazione di un nuovo e più efficiente tribunale internazionale per dirimere le vertenze tra gli stati; il concetto stesso di guerra preventiva, ripetutamente affermato per combattere il Male, dovunque si manifesti: sono segni evidenti di un disegno egemonico che mira a destabilizzare il sistema di regole condivise che, bene o male, ha sin qui retto il contesto politico internazionale.
Insomma, se la strategia dell’America di Bush è questa, e risultasse vincente, ci ritroveremmo presto a vivere in un mondo senza altre regole che non siano quelle dettate dalla potenza egemone.
Si può assistere senza reagire ad un mutamento così radicale della logica di convivenza tra gli uomini?
Io credo che, a prescindere dai pur rilevanti interessi di bottega, che certamente esistono, le opposizioni o, almeno, le esitazioni che si manifestano, specialmente in Europa, nei riguardi della politica americana abbiano questa origine e vadano ben oltre la questione medio orientale.
In quest’ottica, valutare in funzione di un’egemonia in Europa il ricostituito solidarismo franco-tedesco è esercizio di miopia politica: l’Europa come entità coesa e sufficientemente autonoma è ancora solo un auspicio e niente di più. Non c’è quindi nulla da egemonizzare, soprattutto se si considera che della nuova Europa sono incerti persino i confini (non si sa ancora chi entrerà e chi rimarrà fuori), e che, a guardarla con le prospettive di breve termine, è ben lontana dal poter assemblare una forza economico-militare che le consenta di competere con eventuali blocchi contrapposti.
La sopravvivenza di organismi quali l’ONU e la NATO, magari riformati, sono quindi essenziali per evitare che il Vecchio Continente venga investito dal ciclone nord americano.
Il dilemma si porrà presto in termini ultimativi. Se americani ed inglesi porranno alla valutazione delle Nazioni Unite una seconda risoluzione che, di fatto, darebbe inizio al conflitto contro l’Iraq, la Francia, con la Russia e la Cina dovranno decidere se esercitare il diritto di veto, dissolvendo l’ONU, oppure astenersi e lasciare che accada l’ineluttabile. Nell’uno e nell’altro caso l’America avrebbe poco di che rallegrarsi. Farebbe certamente la guerra che così tenacemente persegue, ma gli esiti, in termini economici e diplomatici, sarebbero anche per lei disastrosi.
Se è vero che, come abbiamo già detto, un impero è impero solo se tutte le cose da lui provengano e tutte a lui risalgano, con un mondo depresso e disarticolato, di risalite ce ne sarebbero davvero poche.

Antonio Cardella