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                  Quando la Cia a(r)mava 
                  Bin Laden  
                
                Sabato 20 ottobre 2001, il Centro Studi Libertari e il Laboratorio 
                  Libertario, con la collaborazione del Comune di Venezia, hanno 
                  promosso un incontro con John Cooley presso il Municipio di 
                  Mestre. Questa è la presentazione di Piero Brunello. 
                   
                   
                  1. John Cooley è un giornalista americano e lavora per 
                  la ABC News. Questo libro (Una guerra empia. La Cia e l’estremismo 
                  islamico, Elèuthera, Milano 2000, pp. 399, L. 35.000) 
                  è stato pubblicato a Londra nel 1999 con il titolo Guerre 
                  empie. Afganistan, America e terrorismo internazionale: 
                  le “guerre empie” sono le “guerre sante” condotte – così 
                  viene dichiarato – in nome dell’Islam (1).  
                  Il libro si apre con una citazione da Il Principe di 
                  Machiavelli, dove si dice che “l’arme mercenarie sono inutile 
                  e periculose”. Così si entra nell’argomento del libro: 
                  quando nel 1979 l’Unione Sovietica invase l’Afganistan, gli 
                  Stati Uniti promossero una “guerra santa”, e reclutarono a tale 
                  scopo nel mondo islamico 250mila mercenari, i quali, dopo avere 
                  respinto l’invasione sovietica, diedero vita a un terrorismo 
                  su scala mondiale, in primo luogo contro gli Stati Uniti.  
                  L’alleanza promossa dagli Stati Uniti era formata da “alcuni 
                  tra i più reazionari e fanatici esponenti dell’Islam” 
                  (p. 13), e cioè la dittatura militare pakistana e il 
                  governo dell’Arabia Saudita. Alla coalizione aderirono la Cina 
                  (p. 111) e il governo inglese della Thatcher (p. 152). Inoltre 
                  sarebbe stato “fondamentale” il ruolo di Israele, ma non ci 
                  sono prove (p. 64).  
                  Funzionari della Cia e ufficiali pakistani addestrarono i mercenari 
                  che l’A. chiama “islamisti” e non “fondamentalisti”, termine 
                  che giudica “logoro e impreciso” (p. 14). Il reclutamento fu 
                  delegato a enti religiosi o filantropici musulmani (p. 138). 
                  Furono aperte a tale scopo scuole religiose islamiche (p. 139). 
                  In un primo tempo la consegna delle armi era fatta in segreto 
                  (p. 94), ma nel 1984-85 c’è una autorizzazione del Congresso 
                  statunitense per la consegna ai combattenti afgani “dei micidiali 
                  missili Stinger” (p. 180). La Cia trasportava con aerei americani 
                  armi egiziane in Pakistan, affidandole all’esercito locale, 
                  che le distribuiva “con bella percentuale di sprechi e di corruzione” 
                  (p. 67). Per scampare alla guerra, da due terzi a metà 
                  degli abitanti afgani si rifugiarono in Pakistan o in altri 
                  paesi; Kabul fu ridotta ad ammassi di rovine.  
                  I mercenari erano pagati bene, da 100 a 300 dollari al mese: 
                  “somme enormi” per gli standard dei loro paesi (p. 177). I fondi 
                  destinati agli islamisti passavano attraverso società 
                  di comodo con sede in Svizzera, Francia, Stati Uniti (p. 203). 
                  Nel primo anno di occupazione sovietica il giornalista americano 
                  Bob Woodward parla di cento milioni di dollari destinati ai 
                  guerriglieri antisovietici (p. 179); altrettanto denaro era 
                  fornito dal regno saudita; infine “si aggiungevano i milioni 
                  di dollari provenienti dai patrimoni arabi privati” (p. 182). 
                  Bin Laden, apparve ai sauditi e alla Cia il leader ideale (p. 
                  194), e aprì un ufficio a Londra (p. 201).  
                  La guerra in Afganistan diede “un impulso decisivo” al “mostruoso 
                  e redditizio business internazionale” del traffico di droga 
                  (p. 209). La droga sequestrata negli Stati Uniti – eroina, cocaina 
                  – veniva venduta ai soldati russi, e di lì nella società 
                  russa. Da allora la tossicodipendenza si è diffusa fino 
                  a raggiungere “proporzioni gigantesche” nella società 
                  postsovietica (pp. 210-211). I mujahedin afgani aumentarono 
                  la produzione di droga per comprare armi (pp. 215, 226). Inoltre 
                  missili Stinger americani finirono nelle mani dei “contrabbandieri 
                  di droga che intendevano così eliminare gli elicotteri 
                  che ostacolavano i loro traffici” (p. 281). Nel 1999 l’Afganistan 
                  risulta il primo paese produttore d’oppio (p. 225).  
                   
                  2. Sconfitta l’Unione Sovietica nel 1989, i reduci dalla guerra 
                  in Afganistan portarono le “guerre empie” in altre parti del 
                  mondo.  
                  In Algeria furono veterani dell’Afganistan “armati e ben addestrati, 
                  a istigare, scatenare e guidare le prime azioni terroristiche 
                  e di guerriglia delle milizie islamiche” (p. 21): tra il 1992 
                  e il 1998 furono uccise 100.000 persone.  
                  Il terrorismo, compiuto da mercenari afgani, cominciò 
                  a colpire la provincia dello Xinijang, in Cina, abitata da popolazioni 
                  musulmane (p. 111).  
                  Nella regione indiana del Kashmir, guerriglieri che avevano 
                  combattuto nella guerra afgana, appoggiati dai servizi segreti 
                  pakistani, diedero il via a un piano terroristico volto alla 
                  secessione dall’India (p. 22). Crebbero i conflitti sanguinosi 
                  tra indù e musulmani. Nel marzo 1993 le bombe a Bombay, 
                  capitale finanziaria dell’India (“un parallelo interessante 
                  con l’obiettivo del World Trade Center, nel centro finanziario 
                  di New York”, osserva Cooley) fecero in India oltre 300 morti 
                  e circa 1.200 feriti (pp. 373-374).  
                  Nel 1994 fallì un piano dei terroristi islamisti che 
                  agivano nelle Filippine, per impadronirsi nello stesso giorno 
                  di 11 aerei americani nel Pacifico (p. 377).  
                  Fu un terrorista egiziano, addestrato nella guerra afgana, a 
                  dirigere l’uccisione di 58 turisti stranieri a Luxor, in Egitto, 
                  nel 1997 (p. 299)  
                  Infine, il terrorismo “si muove ora all’attacco degli Stati 
                  Uniti” (p. 22). Le bombe al World Trade Center del 26 febbraio 
                  1993, fecero sei vittime e migliaia di feriti. Molti responsabili 
                  erano stati addestrati dalla Cia (p. 356); la bomba, che aprì 
                  un cratere di 65 metri, “risultò composta di nitrato 
                  di ammonio e nafta, come da manuali della Cia”, di cui alcune 
                  copie “furono trovate in possesso dei cospiratori” (p. 381). 
                  Dopo questo inizio, un piano “prevedeva di distruggere almeno 
                  undici aerei di linea americano in un sol giorno” (pp. 22-23). 
                   
                  Nell’estate del 1998, bombe scoppiarono nelle zone vicino alle 
                  ambasciate americane di Nairobi e di Dar-es-Salaam. Ci furono 
                  più di 200 morti e oltre 4.500 feriti (p. 351). Gli Usa 
                  bombardarono i campi di Usama bin Laden in Afganistan, progettati 
                  dalla Cia e dai servizi segreti pakistani, e una fabbrica in 
                  Sudan, accusata di produrre materiale bellico: dopo molte proteste 
                  nei paesi arabi, giornali come il “New York Times” e il “Washington 
                  Post” ammisero che si trattava di una fabbrica di medicinali 
                  (pp. 353-354).  
                  Alla fine del secolo, scrive Cooley, “i responsabili di gran 
                  parte del terrorismo politico postbellico in Occidente non sono 
                  tanto governi criminali quanto magnati privati”; questa “privatizzazione 
                  strisciante” della guerra “fu il frutto dell’alleanza tra Arabia 
                  Saudita e Stati Uniti” (p. 183). Tra questi “magnati” spicca 
                  la figura di Usama bin Laden, a cui Cooley sembra attribuire 
                  un ruolo di primo piano, a differenza di altri osservatori. 
                  Prima dell’attacco alle Twin Towers, alcuni ritenevano infatti 
                  che bin Laden fosse diventato “al di là delle azioni 
                  che gli vengono attribuite, la star di fiction hollywoodiana 
                  planetaria, dove recita nel ruolo del bad guy, garantendo 
                  il successo dei programmi televisivi, riviste, libri e siti 
                  web a lui dedicati, e servendo da giustificazione ad alcune 
                  scene politiche americane” (2).  
                   
                  3. Le fonti di informazione di Cooley sono uomini politici, 
                  studiosi, giornalisti, funzionari di ambasciata. Non sempre, 
                  come spiega nei Ringraziamenti, l’autore può riportare 
                  i nomi.  
                  La parte del volume che si basa su documentazione di prima mano, 
                  riguarda il coinvolgimento statunitense nella guerra in Afganistan, 
                  che tutti gli osservatori sottovalutano. Altre parti del libro 
                  utilizzano invece inchieste e studi esistenti, verso cui l’A. 
                  dimostra gratitudine e ammirazione. La storia del traffico di 
                  droga per esempio, scrive Cooley, è “quasi sconosciuta 
                  salvo a due tre intraprendenti scrittori europei che hanno letteralmente 
                  rischiato la vita per conoscerla” (p. 226).  
                   
                  4. Il senso di questo libro si capisce meglio pensando al teatro. 
                  La politica, così come ci viene presentata dai media, 
                  si svolge sulla scena. Cooley invece indaga nel retroscena. 
                  Faccio un solo esempio, riferendomi al mondo occidentale. Nel 
                  1982 la Cia fu esonerata – in segreto – dall’obbligo di denunciare 
                  il contrabbando di droga da parte dei suoi funzionari (p. 218). 
                  La Cia copriva il traffico di droga da parte dei contras 
                  in Nicaragua e cominciava a fare la stessa cosa in Afganistan. 
                  Sempre in quell’anno il compito di promuovere le campagne antidroga 
                  negli Usa venne sottratto alla Dea (l’agenzia americana contro 
                  la droga), divenuta un intralcio, e affidato all’FBI. Tutto 
                  questo si svolge nel retroscena. Invece sulla scena vediamo 
                  comparire la moglie del presidente Reagan e annunciare “una 
                  sua personale crociata, rivolgendosi soprattutto ai giovani 
                  americani con lo slogan «Diciamo no alla droga» 
                  (p. 219). Sul palcoscenico può andare in scena una farsa, 
                  come in questo caso; oppure una tragedia, se pensiamo all’enorme 
                  incremento delle tossicodipendenze in Pakistan (pp. 245-246), 
                  in Unione Sovietica, negli Stati Uniti.  
                  Sulla scena i protagonisti sono due, contrapposti: un maschio 
                  adulto occidentale e un maschio adulto musulmano. Nel retroscena 
                  – considerando solo i maschi adulti – le parti sono mescolate. 
                  Anche qui, un solo esempio. Chi dirigeva la Bank of Credit and 
                  Commerce International, una delle banche che ha finanziato la 
                  guerra afgana, era uno sceicco, era amico di Carter e aveva 
                  stretti rapporti con la Thatcher; la banca aveva conti segreti 
                  in Svizzera, Londra, Miami (p. 187).  
                  La politica che si svolge sulla scena fa appello a valori che 
                  nel retroscena vengono calpestati. Non è argomento del 
                  libro spiegare in che modo “guerre empie” – guidate da uomini 
                  d’affari, narcotrafficanti e dittatori appoggiati fino a ieri 
                  dagli Stati Uniti – possano essere vissute nei paesi musulmani 
                  o nelle comunità immigrate in Occidente come “guerre 
                  sante”. Per quanto riguarda i paesi occidentali, i governi ignorano 
                  i principi di democrazia e di libertà sui quali chiedono 
                  il consenso. Le scelte politiche decisive sono prese in segreto 
                  da apparati militari e finanziari.  
                 
                5. Come tutti i discorsi che si ispirano a Machiavelli, e che 
                  analizzano le azioni politiche sulla base della loro efficacia 
                  rispetto alla conservazione o alla perdita del potere, le pagine 
                  di Cooley possono svelare i crimini su cui si fondano i governi, 
                  oppure possono essere consigli al Principe. Nell’Introduzione 
                  all’edizione italiana, scritta nel marzo del 2000, Cooley 
                  scrive infatti che “il mondo dovrà subire tragedie ancora 
                  peggiori se gli Stati Uniti e il resto del mondo occidentale, 
                  nel ventunesimo secolo, non saranno più cauti nella scelta 
                  degli alleati”. Soprattutto – aggiunge – , non si dovrà 
                  sostituire l’Islam al comunismo quale “avversario diabolico 
                  che deve essere sconfitto” (p. 24).  
                  L’autore non si chiede come la “guerra santa”, cresciuta dopo 
                  la scomparsa del messianismo socialista e del nazionalismo arabo, 
                  possa esprimere e mobilitare la rivolta contro l’imperialismo 
                  americano e occidentale, né come possa dare risposte 
                  al vuoto culturale provocato dai modelli occidentali di modernizzazione, 
                  e neppure come possa rientrare nelle strategie di Stati “non 
                  occidentali”. L’argomento del libro restano le alleanze militari 
                  degli Stati Uniti.  
                  Ma da che punto di vista queste alleanze possono essere considerate 
                  un errore? Su che base si dà per scontato che “il resto 
                  del mondo occidentale” debba appoggiare la politica americana? 
                  E basterà nel futuro una maggiore cautela nella scelta 
                  degli alleati “non occidentali”? La “guerra santa” in Afganistan 
                  appare essere stata un aspetto di una politica più generale: 
                  dai bombardamenti e dall’embargo sull’Irak, al sostegno ai regimi 
                  reazionari arabi, al veto nei confronti delle risoluzioni dell’Onu 
                  sulla questione palestinese, per arrivare al controllo economico 
                  e militare delle aree petrolifere.  
                  Il libro di Cooley dimostra che la retorica messa in scena nei 
                  paesi occidentali nel corso della “guerra santa” contro i sovietici 
                  in Afghanistan ha poco a che vedere con gli obiettivi perseguiti 
                  realmente. Leggendo il libro dopo l’attacco alle Torri di New 
                  York, e mentre continuano i bombardamenti sull’Afganistan, ci 
                  si chiede quali sono gli obiettivi che contano nel retroscena 
                  della nuova “guerra giusta”.  
                  
                  Piero Brunello 
                  
                Note 
                1. Non userò il termine “jihad”, che a 
                  detta degli studiosi non può essere tradotto con “guerra 
                  santa”.  
                  2. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo 
                  islamico, Carocci, Roma 2001, p. 359. Secondo Kepel l’islamismo, 
                  in declino alla fine del secolo, è destinato a sfaldarsi 
                  rapidamente perché non riesce a tenere insieme le diverse 
                  classi e i diversi settori della società che aveva coagulato 
                  (pp. 11-19). 
                  
                Politica di 
                  parola  
                Parole non consumate – libro di recente 
                  pubblicazione (Liguori editore, pp. 157, £ 24.000)  
                  apporta l’intrigante sottotitolo donne e uomini nel linguaggio. 
                  Ne è autrice Chiara Zamboni che, insieme ad altre ha 
                  dato vita, presso l’Università di Verona dove insegna 
                  Filosofia del linguaggio, alla Comunità filosofica “Diotima”. 
                  Attiva fin dal 1984 nella ricerca di quello che viene nominato 
                  pensiero della differenza sessuale, la comunità 
                  anima il dibattito anche attraverso seminari pubblici dove la 
                  politica delle donne trova luogo di espressione e punto di riferimento 
                  per l’elaborazione simbolica. Chiara Zamboni ha collaborato 
                  infatti ai saggi collettanei di “Diotima” (il nome della donna 
                  straniera a cui Socrate, nel Simposio di Platone, riconosce 
                  autorità in tema d’amore) e ha scritto opere di pregevole 
                  spessore filosofico e letterario: Favole e immagini nella 
                  matematica; Interrogando la cosa - Riflessioni a partire 
                  da Martin Heidegger e Simone Weil; L’azione perfetta; 
                  La filosofia donna - percorsi di pensiero femminile. 
                   
                  Pur affrontando un tema desueto e di non facile approccio, “Parole 
                  non consumate” costituisce un gioiello di chiarezza ed un contributo 
                  di raffinato valore per il senso di orientamento offerto  
                  con scrittura pura ed illuminante  dal pensiero della 
                  differenza sessuale alla storia della filosofia e al suo 
                  impianto metafisico. Non è comunque un testo classico 
                  teso a ripercorrere per tappe quanto i filosofi antichi hanno 
                  teorizzato sul linguaggio. Rappresenta invece un testo storico 
                  perché evento di portata simbolica per l’ontologia sulla 
                  e della parola in esso rintracciabile. E per la creazione  
                  ipso tempore  di un logos metafisico prossimo alle 
                  realtà quotidiane.  
                  Testo dunque di filosofia del linguaggio e non di storia del 
                  linguaggio, in esso l’essere e la sua dicibilità, 
                  felicemente, non coincidono. Sulla loro distanza si gioca 
                  la vita simbolica delle esistenze di donne e di uomini.  
                  Certo non mancano diretti riferimenti a filosofi-maestri come 
                  Ludwig Wittgenstein, a psicanaliste dell’infanzia come Françoise 
                  Dolto, ad outsider come Walter Benjamin, a pensatrici del tutto 
                  particolari come Simone Weil e la teologa Mary Daly, o a politici 
                  addirittura spirituali come Gandhi. Essi fungono però 
                  da punti qualificanti su cui e da cui il discorso dell’autrice 
                  si fa parola viva. Il libro è anche  e a mio avviso 
                  essenzialmente per ciò  un testo di politica 
                  prima; quella dove lo spazio di parola mette al mondo altro 
                  essere e l’essere-altro crea parole di verità. Parole 
                  non consumate appunto, di cui, tuttavia consumabili, ci si può 
                  nutrire vicendevolmente.  
                  Ma quali sono allora le parole logore, vuote, morte al senso 
                  del nostro più profondo sentire, quelle intorno alle 
                  quali si sono andate ad allestire le guerre, come lucidamente 
                  scrive Simone Weil (Sulla guerra - scritti 1933-1943, 
                  Pratiche editrice, Milano, 1998)?  
                  ‘Nazione’, ‘Patria’, ‘Capitale’, ‘Classe sociale’ hanno (avuto) 
                  il loro carico di responsabilità bellica. Sono le astrazioni 
                  preconfezionate rispetto alle verità dei fatti, irriflettuti 
                  e subito colmati da parole d’ordine imperativo a senso unico. 
                  Ecco come insorgono i fideismi che prescindono dal vivo dei 
                  rapporti diretti tra esseri umani. Su di essi gli eserciti ideologici 
                  e fondamentalisti si compattano sul comune denominatore di una 
                  dimenticanza: la sintassi dei contingenti bisogni vitali viene 
                  obliata per instaurare la grammatica dell’omologazione a tutti 
                  i costi.  
                  Sono i termini del già detto, dell’ancora insistentemente 
                  ripetuto, all’intero dei quali, spesso, più donne che 
                  uomini si sentono ingabbiate e ne patiscono il disagio. Perché 
                  le non-parole hanno perso il contatto con il mondo delle esperienze 
                  quotidiane e con il flusso delle emozioni abbandonate a sensazioni 
                  tanto mute quanto deprivate dalla ricchezza che il lavoro del 
                  pensiero e lo scambio di parola – con altre e con altri  
                  comportano.  
                  Si sbaglierebbe d’altra parte se il libro di Zamboni fosse ritenuto, 
                  per malinteso femminismo di principio egualitario, un incitamento 
                  alla proliferazione tecnica di un lessico sessuato da immettere 
                  nella lingua in forza del genere grammaticale. Per intendersi, 
                  ridurre a convenzione linguistica gli effetti di presa simbolica 
                  che l’opera del pensiero ricava dalle pratiche agite in contesto. 
                  Senza il tempo della riflessione e senza lo spazio di parola 
                  per significarlo, l’agire umano perde il vivo senso della realtà 
                  a cui non viene restituito ciò che ha dato. Predominano 
                  facilmente e fatalmente il linguaggio-etichetta, lo slogan, 
                  il dogma congelato in certezza anche se travestiti da pomposi 
                  linguaggi specialistici. Il codice della lingua si sovrappone 
                  alle parole dei desideri, le sole mediazioni necessarie a non 
                  perdere il radicamento vitale delle singole esistenze. Adeguato 
                  al mantenimento dei dispositivi di potere che lo applicano (in 
                  alcune storiche circostanze addirittura lo impongono o lo hanno 
                  imposto), il freddo codice della lingua segnala, rispetto ai 
                  ruoli sociali, una gerarchia a dir poco bizzarra, per cui sono 
                  quest’ultimi a dar valore agli individui in carne ed ossa e 
                  non viceversa.  
                 
                Il discorso di “Parole non consumate” si congeda 
                  dall’impasse del soggetto unico, cogitante e identico a se stesso, 
                  chiuso nella sua propria autosufficienza, a cui ha condotto 
                  l’impianto metafisico e gnoseologico della tradizione filosofica 
                  occidentale. La soggettività in Parole non consumate 
                  si decentra invece verso una posizione ‘ a latere’, da dove 
                  lo scarto esistente tra atto di pensiero e atto di parola risulta 
                  fertile alla trasformazione di sé e del mondo dall’interno 
                  del linguaggio-visto, quest’ultimo, quale abito dell’essere 
                  al mondo e nel mondo peculiare dell’essere umano.  
                 
                Il movimento simbolico mette in moto qualcosa 
                  di meno e qualcosa di più che resiste al linguaggio assodato 
                  del codice. Non tutto ciò che è del cuore viene 
                  alle labbra. L’ampia parte riservata dallo studio di Zamboni 
                  sul linguaggio delle creature, elaborato da Walter Benjamin, 
                  chiarisce i contorni di tale spostamento. Ma ancor più 
                  illuminanti sono i passaggi di Chiara Zamboni che precisano 
                  il discorso sulla Lingua materna. Intesa non nell’accezione 
                  nazionalistica di madrelingua, bensì nella dimensione 
                  originaria in cui essere e Parola fanno la spola 
                  creaturale tra l’essere infante e la madre parlante.  
                   
                  Il congedo da un universo linguistico chiuso in se stesso apre 
                  ad altre modalità di pensiero e di parola. Partire 
                  da sé, sapere esperenziale, pensiero come 
                  movimento trasformativo fanno tessuto di filosofia. Essi 
                  indicano significanti non categorici cui dare libera significazione, 
                  differente per virtù dell’agire in fedeltà a sé 
                  e in relazione ad altre e ad altri. Essi lasciano agire la differenza 
                  sessuale sul piano politico-simbolico secondo una duplice onda: 
                  di resistenza all’inquadramento sistematico di cui la parola 
                  patisce l’oggettivazione e di singolare riscatto relazionale 
                  oltre la genericità del codice assoluto. Giacchè 
                  del linguaggio si parla dal suo interno – ossia con il linguaggio 
                  – e i suoi segni sono colti nell’esteriorità del corpo 
                  e dell’espressione verbale.  
                  Senza dover travisare la sostanza di questo bel libro per un 
                  elogio del linguaggio del corpo, se di elogio si sottointende 
                  esso è piuttosto rilanciato alla vita della mente 
                  e alla materialità esperenziale che alimenta ed è, 
                  a sua volta, alimentata. Movimento simbolico-reale c’è 
                  quando una parola ci tocca; quando la parola – oggetto di sé 
                  – ci parla.  
                  Ben al di là di una critica accademica alla pretesa universalistica 
                  implicita nei linguaggi dominanti e dello ‘specialismo’ che, 
                  non di rado, specificando forme di dominio millenario, il testo 
                  di Zamboni si articola in positivo, rivelando nell’asimmetria 
                  tra essere e linguaggio la condizione di possibilità 
                  offerta al corso per il libero senso di ogni esistenza.  
                  “Come donne e uomini siano in gioco nel mondo” – si legge – 
                  “non è dunque oggetto di discorso, bensì è 
                  in primo luogo una interpretazione su di noi data dal linguaggio 
                  dominante e in secondo luogo- in conflitto con tale interpretazione 
                  – un senso che scopriamo e produciamo in un tessuto vivente 
                  del quale siamo parte”.  
                  È un dire che ha a cuore ciò che sta fuori la 
                  definizione assertoria del logos oggettivante. Ha a cuore 
                  l’agire dei soggetti di discorso. E Chiara Zamboni ricorda 
                  che di donne e di uomini si tratta. Da loro e da lì il 
                  mondo della parola lascia baluginare ciò che non si consuma, 
                  giacché l’essere uno, unico e stabilmente identico cede 
                  al brillio dell’essere in divenire. 
                   
                  Monica Cerutti 
                  Giorgi 
                  
                Stirner e lindividualismo 
                Potrebbe apparire improprio affermare che Enrico 
                  Ferri dedichi La città degli unici. Individualismo, 
                  nichilismo, anomia (Giappichelli, Torino 2001, pp. 460) 
                  esclusivamente a Max Stirner. Egli ci offre una più generale 
                  riflessione sul fenomeno giuridico-politico dell’individualismo. 
                   
                  Il volume parla del pensatore di Bayreuth; sia nella 
                  prima che nella seconda parte del libro Ferri propone una propria 
                  lettura stirneriana, che non si limita al solo celeberrimo L’unico; 
                  egli, infatti, si addentra in un’analisi di alcuni dei cosiddetti 
                  scritti minori, indicandone l’importanza per una più 
                  complessiva comprensione della speculazione di Stirner. Nel 
                  volume vengono qui riprodotti, oltre al una breve nota autobiografica 
                  di Stirner, Sulle leggi scolastiche, L’ingannevole 
                  principio della nostra educazione ovvero l’umanesimo e il realismo 
                  e A proposito de «La tromba del giudizio universale», 
                  tutti scritti sorti in seno al circolo berlinese dei Liberi. 
                   
                  Stirner va infatti collocato all’interno del dibattito della 
                  sinistra hegeliana; Ferri si occupa di tale movimento di pensiero 
                  filosofico-politico iniziando da Feuerbach e ci propone delle 
                  illuminanti testimonianze epistolari su Stirner: le lettere 
                  di Edgar Bauer e di Engels a Hildebrandt.  
                  Di Stirner si parla, e in proposito Ferri si sofferma 
                  sulle interpretazioni che del pensatore tedesco sono state offerte: 
                  lo Stirner anticipatore/ispiratore di Nietzsche, lo Stirner 
                  visitato dalla destra (Mussolini, Evola, Schmitt e Jünger), 
                  nonché lo Stirner di Marx ed Engels.  
                  Il San Max che domina L’ideologia tedesca, e senza la 
                  cui critica a Feuerbach, che, come sottolinea Ferri, venne ripresa 
                  e fagocita dai due socialisti scientifici, probabilmente non 
                  avremmo avuto quella rottura epistemologica che diede vita la 
                  materialismo storico.  
                  Nel volume di Ferri si intrecciano almeno tre itinerari di ricerca. 
                  A questi non si poteva non aggiungere la questione relativa 
                  all’appartenenza o meno di Stirner al variegato mondo dell’anarchismo. 
                  Ferri, da prima, ricostruisce il pensiero dei teorici dell’anarchismo 
                  classico (in particolare Godwin, Proudhon, Bakunin e Kropotkin), 
                  riconoscendo come comuni denominatori dei loro itinerari speculativi 
                  l’idea dell’uomo non malvagio per natura, quindi un ottimismo 
                  antropologico che li contrappone alle costruzioni politico-filosofiche 
                  hobbesiane; il fermo richiamo all’autonomia, come capacità 
                  di autoregolazione insita nell’uomo a cui fa corollario la socialità, 
                  il rapporto con gli altri e non la solitudine è l’ambito 
                  della libertà. L’anarchismo classico si coagula altresì 
                  intorno al principio universalistico di eguaglianza. Questi 
                  principi sfociano nel più generale rifiuto di ogni principio 
                  di autorità eteronoma.  
                  Per Ferri molti sono i punti in comune fra l’anarchismo classico 
                  ed il pensiero di Stirner (il rifiuto dell’eteronomia, la prospettiva 
                  dell’autoliberazione, il rifiuto della divinizzazione dei e 
                  nei rapporti sociali e così via). La critica alla società 
                  vigente è per così dire affrontata con le stesse 
                  armi. Diverso è invece il discorso riguardante la progettualità. 
                  “Mentre nell’anarchismo classico una società non organica, 
                  costituita sulla base del libero accordo e con caratteri solidaristici 
                  è vista come un’alternativa allo Stato, Stirner equipara 
                  la società e lo Stato e muove alla prima obiezioni assai 
                  simili a quelle portate al secondo”. In tal senso “l’individualismo 
                  stirneriano, a differenza di quello dei teorici dell’anarchismo 
                  classico, non mostra avere attitudini sociali, non ritiene come 
                  i secondi che l’individuo, sebbene avvia un valore in sé 
                  in quanto tale, possa pienamente dispiegarsi solo nella e attraverso 
                  la società, che quest’ultima sia l’ambiente e la forma 
                  di relazione che l’individuo si dà naturalmente”.  
                  Il rifiuto stirneriano dell’idea di autoregolamentazione, sommato 
                  alla negazione del principio di autorità eteronomo, introduce 
                  nella Verein degli unici il conflitto come elemento endemico, 
                  “naturale”, negatore, quindi, del principio di solidarietà, 
                  proprio all’anarchismo classico. Ciò determina una frattura, 
                  probabilmente incolmabile, fra Stirner propugnatore della Verein 
                  ed il pensiero dell’anarchismo classico e lo avvicina, a parere 
                  di chi scrive, al cosiddetto anarco-capitalismo che vede per 
                  l’appunto nel fantomatico libero mercato (luogo utopico 
                  di conflitto) il garante ultimo della libertà.  
                  
                  Marco 
                  Cossutta 
                  
                  
                Il n. 4? Un 
                  Fest(a)val! 
                  
                La possibilità, da parte di ogni potere, 
                  di controllare i canali mediatici è al centro delle disuguaglianze 
                  e delle tragedie che brutalizzano l’umanità.  
                  Capovolgendo quei significati che sostengono un’integrazione 
                  nel mercato e che smorzano o negano ogni dubbio e dissenso sociale, 
                  abbiamo avviato il progetto ApARTe°. In un agire creativo 
                  anticonformista, critico e costruttivo, non astratto, in una 
                  creatività liberata pensiamo si possano trovare risposte 
                  utili per la riappropriazione di percorsi, anche politici, sempre 
                  negati.  
                  Esistono, e sono sempre esistiti, archetipi di realtà 
                  anarchiche che si manifestano, anche, attraverso ciò 
                  che ci fanno pensare: ApARTe° vorrebbe essere una di queste 
                  realtà e questo proposito soffre come limitativo nell’essere 
                  delineato solo su carta.  
                  Nei giorni 14, 15 e 16 settembre del 2001 abbiamo editato ApARTe°4. 
                  Un numero non stampato e letto, ma totalmente partecipato dal 
                  migliaio di persone che hanno decifrato quanto rappresentato 
                  e scritto da almeno 150 creativi. Un numero sostenuto dalla 
                  solidarietà, dall’intelligenza, dalla poesia, dalla forza 
                  muscolare di compagni e artisti che si sono riconosciuti nel 
                  progetto ed ai quali non può che andare il nostro affetto 
                  e ringraziamento, se ci servivano degli stimoli loro li hanno 
                  dati tutti.  
                  Comunque: negli spazi di un parco di Bologna abbiamo montato 
                  la Prima Biennale di Arte & Anarchia; un fest(A)val che 
                  si componeva di installazioni, mostre di pittura, di arte postale, 
                  di fumetti. Dove sono state rappresentate performances, spettacoli 
                  teatrali e di cabaret; dove sono stati proiettati films e cortometraggi; 
                  declamate poesie ed eseguite musiche e canzoni; dove si sono 
                  tenute tavole rotonde e presentazioni.  
                  Nei tre giorni (anzi quattro poiché siamo partiti il 
                  13) si è venuto a creare uno spazio liberato, una insicura 
                  ma dinamica zattera di uguali (artisti e non pubblico) che si 
                  è saputa staccare da tutto quello che vuol rendere sacrale 
                  la creatività. Una zattera sempre più lontana 
                  da una cultura dove l’arte viene amata e promossa poiché 
                  è merce in un commercio che porta ricchezza e potere 
                  per pochi, dove le innovazioni vengono consentite solo se inefficaci 
                  a smantellare l’apparente necessità dell’integrazione 
                  nel Grande Fratello.  
                  Una zattera non statica come una platea, che ha abbandonato 
                  l’usuale con la certezza di navigare e che, questo viaggiare 
                  da disertori, costruisce l’organizzazione dell’utopia possibile; 
                  che sobilla la creazione di altre migliaia di zattere progettate 
                  per migliaia di direzioni... via, contro e lontane dall’ottusità, 
                  dalla ferocia di ogni cella, dall’umiliazione delle costrizioni: 
                  verso il rispetto e la dignità.  
                 
                   
                  Banda 
                  ApARTe 
                  
                   
                    
                Chi volesse ricevere il pre-catalogo del Fest(A)val 
                  2001 ed il manifesto può richiederlo versando lire 15.000 
                  sul c.c.p. n°12347316 intestato a: Fabio Santin c/o ApARTe° 
                  c.p.85 succ.8, 30171 Mestre - Ve.  
                  Allo stesso modo può essere attivato un abbonamento per 
                  due numeri di ApARTe° al costo di lire 50.000 ed oltre. 
                 
                  
                 
                  
                 
                  
                 
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