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                 Ramón Perez il 27 settembre stava 
                  guidando un gruppo di giornalisti a Loma Alta, uno degli accampamenti 
                  militari che dal 1998 mantengono il tropico di Cochabamba sotto 
                  stato d’occupazione. Da tre settimane i presidi sono accerchiati 
                  e presidiati dai cocaleros. L’obiettivo è quello di sempre: 
                  contrastare le eradicazioni. La stampa reagì condannando 
                  il fatto come gravissima aggressione al diritto d’informazione, 
                  tuttavia le misure prese dall’autorità proseguivano nella 
                  direzione di sempre: aumentare il numero degli effettivi. Nei 
                  giorni successivi si contarono altri quattro feriti e per sabato 
                  6 ottobre si convocava una riunione generale dei sindacati nei 
                  pressi di Chimoré.  
                  I campesinos sembrano giunti allo stremo. Le eradicazioni hanno 
                  distrutto l’economia e le strategie di sviluppo alternativo 
                  sono unanimemente definite un fallimento. La maggioranza dei 
                  circa cento partecipanti si dichiara non più disponibile 
                  a collaborare con le ong (organizzazione non governative) né 
                  con gli organismi responsabili dei programmi. Tre confederazioni 
                  su sei si esprimono per il blocco immediato della strada che 
                  collega Santa Cruz a Cochabamba. Tuttavia la lunga paralisi 
                  del settembre dell’anno passato non raggiunse alcun risultato, 
                  se non mettere in ginocchio la già esausta economia del 
                  tropico e provocare una scia di morti. Conduce l’incontro Evo 
                  Morales, leader cocalero da tre anni eletto deputato nazionale. 
                  I delegati denunciano nuove violazioni dei diritti umani e affermano 
                  che in molti campi sia arrivata la fame. Sentono d’avere perso 
                  tutto e sono disposti alla lotta a oltranza. Evo prende una 
                  posizione moderata, si dichiara fiducioso nelle trattative con 
                  il governo, che riprenderanno il prossimo lunedì. La 
                  bandiera comune, il punto irrinunciabile, è il cato di 
                  coca. Si tratta di una parcella di 1,6 ettari per famiglia di 
                  cui è richiesta la concessione per un periodo transitorio. 
                  L’estensione media delle proprietà supera i dieci ettari, 
                  tuttavia molti campi ora rimangono incolti.  
                  Le speranze nel paese che negli anni ’80 sperimentò gli 
                  squadroni neo nazisti di García Mesa non hanno vita lunga. 
                  Le trattative sono state sospese il secondo giorno. I blocchi 
                  stradali sono posticipati a metà ottobre, invitando le 
                  confederazioni dell’altopiano a unirsi alla lotta. La posizione 
                  del governo, nonostante il recente cambio alla presidenza, si 
                  mantiene ferma. In gioco ci sono gl’ingenti finanziamenti Usa 
                  e dell’Unione europea. In gioco è il piano economico 
                  nazionale, centrato su un aumento massiccio della produzione 
                  di gas e petrolio nei prossimi quattro anni. Il tre di ottobre 
                  il Presidente Quiroga rendeva pubblico un mega progetto di produzione 
                  e commercializzazione d’idrocarburi verso il nordamerica. Si 
                  tratta di costruire un impianto per la liquefazione del gas, 
                  gas da trasportare mediante navi cisterna dal porto di Arica 
                  in Cile. Attualmente il 40% della produzione boliviana proviene 
                  dal tropico di Cochabamba.  
                  La miseria nei campi si è fatta evidente. Mortalità 
                  infantile e malattie endemiche sono in aumento; soprattutto, 
                  si segnalano casi di denutrizione. Incontriamo Alfredo Escobar, 
                  maestro del presidio scolastico di San Rafael, nei dintorni 
                  di Villa Tunari. “Negli ultimi anni abbiamo avuto una diminuzione 
                  di un quarto degli alunni. Le famiglie non hanno più 
                  soldi per mandarli a scuola e il problema fondamentale è 
                  l’alimentazione. Il 20% dei bimbi soffre di malaria, si segnalano 
                  casi di tisi, tetano e febbre gialla. I controlli sanitari sono 
                  diminuiti e dalla militarizzazione le condizioni sono gravemente 
                  peggiorate. Alcune famiglie hanno preso la decisione di andarsene 
                  dal Chapare. Ci manca materiale didattico e lo stipendio attuale 
                  di un insegnante è di circa 100 dollari il mese”.  
                  Dati che contrastano con le dichiarazioni di Pino Arlacchi, 
                  direttore dell’Agenzia antidroga delle nazioni unite, pubblicate 
                  dall’Espresso” il 27 dicembre dell’anno passato. La Bolivia, 
                  dove gli interventi iniziarono vent’anni fa, è presentata 
                  come un modello di sviluppo alternativo (1). “È stato 
                  scritto […] che nel Chapare ci sarebbero 40.000 famiglie di 
                  cocaleros. Le quali rivendicherebbero un pezzetto di terra per 
                  coltivare la droga. Ora i cocaleros consistono in 4 mila nuclei 
                  familiari per un totale di 20 mila individui... Abbiamo favorito 
                  le culture alternative: per esempio ananas e banane. Abbiamo 
                  mandato in pezzi lo stereotipo che solo la coca fa guadagnare 
                  i contadini. Le 1.550 famiglie coinvolte nel progetto agro-forestale 
                  gestito dalla mia Agenzia ricavano ogni anno 4.000 dollari di 
                  reddito ciascuna, contro i 300 di tre anni fa”. Arlacchi sostiene 
                  inoltre che si siano costruiti migliaia di chilometri di strade, 
                  centinaia di scuole, ospedali, linee elettriche...  
                  
                 
                  
                 
                 
                    
                  Soci dei narcos?  
                 
                La realtà del Chapare dimostra invece come strategie 
                  di militarizzazione e sviluppo siano fondamentalmente incompatibili. 
                  Come non si possa parlare di mercato senza la disponibilità 
                  da parte dei paesi ricchi ad aprire i loro propri mercati. Un 
                  esempio significativo è offerto dallo stato di crisi 
                  dichiarata da una delle industrie alimentari di punta della 
                  zona. Si tratta dell’Indatrop, del gruppo Duralit, che commercializza 
                  palmito in latta. Il direttore Ruddy Rivera afferma che il prezzo 
                  alla cassa, in particolare a causa delle concorrenza ecuadoriana, 
                  dal 1995 sia diminuito del 50%. Gli standard e gli accordi commerciali 
                  vigenti nel Primo mondo impediscono l’ingresso ai prodotti boliviani. 
                  I mercati di riferimento si restringono a quello nazionale e 
                  al Mercosur (2). Una situazione anche peggiore riguarda un altro 
                  dei prodotti chiave dello sviluppo alternativo, l’ananas, il 
                  cui prezzo crollò fino a indurre molti produttori ad 
                  abbandonare la coltivazione. Da parte loro i blocchi stradali 
                  hanno a più riprese isolato il Chapare, provocando danni 
                  enormi alle imprese. I tentativi di lanciare il turismo sono 
                  a loro volta falliti, data la scarsa attrattiva di una regione 
                  in stato di guerra. La costruzione di un mega complesso nei 
                  pressi di Villa Tunari, dotato di piscine e campi da golf, è 
                  stata recentemente sospesa.  
                  Riguardo alla situazione è interessante considerare i 
                  dati contenuti nel Piano di sviluppo del tropico pubblicato 
                  nel luglio del 1999 e frutto della collaborazione tra il Ministero 
                  dell’agricoltura, la Prefettura di Cochabamba e la cooperazione 
                  tedesca. La popolazione dell’area è valutata in 188.238 
                  abitanti, con un incremento del 5,2% e un 70% di immigrati nel 
                  medio-lungo periodo. Dato quest’ultimo che, incrociato con le 
                  località di origine, si rivela utile per comprendere 
                  il quadro di arretratezza tecnica che caratterizza le campagne. 
                  Si tratta di famiglie provenienti dalle zone più povere 
                  dell’altipiano che s’insediarono 20, 25 anni fa, tentando di 
                  adeguare le tecniche tradizionali al clima e al suolo tropicali. 
                  Scelsero la coca per la redditività e per la facilità 
                  di coltivazione. In breve il prodotto giunse a rappresentare 
                  il 71% delle entrate nette agricole locali. In Chapare non esistono 
                  istituti di credito e i tentativi fatti nel decennio passato 
                  non hanno avuto esito. In ogni caso, i tassi praticati in Bolivia 
                  arrivano al 24% ed è attivo un movimento nazionale di 
                  debitori rovinati dai contratti stipulati con le banche. Un 
                  quarto della popolazione adulta è analfabeta e il sistema 
                  scolastico, assolutamente insufficiente.  
                  Opinione comune in Europa, come in molti dipartimenti di Bolivia, 
                  è che in passato i campesinos del tropico abbiano accumulato 
                  grandi somme con il commercio della coca. Li si descrive come 
                  soci dei narcos, ma le loro condizioni sono terribili. Nel Chapare 
                  si salva dalla povertà un misero 13,1% della popolazione; 
                  i moderatamente poveri rappresentano il 40,1% e gli ingenti 
                  la maggioranza, raggiungendo un tasso del 41,6%. Fuori da qualsiasi 
                  analisi si pongono i marginali: il 5,2 del totale. Solo un quarto 
                  delle abitazioni raggiunge gli standard di vivibilità 
                  e già nel 1997 il 35% dei minori di cinque anni soffriva 
                  di denutrizione (3). La domanda comune è: “dove sono 
                  finiti i centinaia di milioni di dollari spesi per la cooperazione 
                  in questi anni?”. Alcune strade e linee elettriche, qualche 
                  fabbrica e struttura sanitaria, molte ricerche. Ma anche mani 
                  lunghe dei politici e la spaventosa corruzione di questo paese. 
                  Da molto tempo la gente di qui ha perduto la fiducia nello stato 
                  e da qualche anno la fiducia nei programmi di sviluppo.  
                  L’altra faccia della medaglia Chapare è l’occupazione 
                  militare. Nonostante la fase delle eradicazioni massicce si 
                  sia conclusa, le operazioni continuano coinvolgendo aree dell’interno 
                  e campi minori. I posti di blocco e le perquisizioni sono frequenti 
                  e la strategia degli umopares, reparti speciali antidroga, mira 
                  a spaventare e dividere i cocaleros. Le denunce più frequenti 
                  di violazione dei diritti umani riguardano le eradicazioni. 
                  Coloro che segnalano i campi illegali ricevono un compenso, 
                  ma quali collaboratori dei militari rischiano la vita per mano 
                  delle loro comunità. Il clima è segnato dal sospetto 
                  e dalla paura: chiunque può tradire, chiunque può 
                  essere il nemico. Il peggioramento delle condizioni aumenta 
                  le tentazioni di passare dall’altro lato.  
                  
                 
                 
                    
                  Bombe lacrimogene  
                 
                Padre Sperandio Ravasio vive in Bolivia da diciotto anni e 
                  sostenne un ruolo significativo durante le trattative che posero 
                  termine alla sollevazione dell’anno passato. “Credo che come 
                  Chiesa dobbiamo fare ascoltare la nostra voce. Qui si spendono 
                  20.000 dollari al giorno per la sola alimentazione del personale 
                  militare e c’è una situazione di violenza che appare 
                  senza uscita. La miseria della gente è assoluta. L’anno 
                  scorso, causa gli svenimenti che avvenivano in classe, abbiamo 
                  svolto un’indagine nella scuola Don Bosco. Scoprimmo che il 
                  72% degli alunni soffriva di anemia. La situazione è 
                  drasticamente peggiorata negli ultimi anni e lo sviluppo alternativo 
                  fino a ora non ha dato risultati. In primo luogo non esiste 
                  mercato. Il palmito è frutto di due anni di lavoro: all’inizio 
                  lo pagavano 2,50 bolivianos – 0,38 dollari , ora si vende 
                  per 50 centesimi. L’ananas, che in Chapare dà frutti 
                  giganti e permette due raccolti l’anno, si vende per 20 centesimi. 
                  Recentemente lanciarono il peperoncino, dicendo che se ne sarebbero 
                  tratti cinque bolivianos, ma il prezzo è sceso a un boliviano 
                  la cuartilla – unità di circa 800 grammi. C’è 
                  molta corruzione e i tecnici incaricati dei piani sono tutti 
                  dell’Azione democratica nazionalista, partito di governo”.  
                  “Il governo si era impegnato a creare mercato; sono state stanziate 
                  cifre enormi. Andai a La Paz a parlare con Guillermo Fortún, 
                  Ministro del governo di Banzer: dovette ammettere che su 100 
                  dollari iniziali, in Chapare, quando arrivano, ne arrivano 20. 
                  ‘Sviluppo’ non può significare portare qui una folla 
                  di tecnici e ingegneri, dotati di fiammanti fuoristrada; Arlacchi 
                  sostiene d’aver costruito, costruito... Costruito cosa? Sono 
                  discorsi che si possono spacciare in Europa, dove non si conosce 
                  la situazione. Le condizioni della gente e i dati parlano chiaro 
                  (4). Il denaro serve a mantenere un complesso militare impressionante. 
                  Un lacrimogeno costa 12 dollari, 18 se provoca vomito. L’anno 
                  passato siamo stati gassificati per due settimane. E qui si 
                  vede chi tira le fila: durante gli scontri ci fu un ferito grave. 
                  Era necessario l’intervento di un elicottero: ci dissero che 
                  bisognava chiedere un’autorizzazione, ma non al ministro, bensì 
                  agli americani. Così domandai ai militari: ‘non vi sentite 
                  umiliati?”.  
                  Viaggiamo all’interno della municipalità di Villa Tunari 
                  con destinazione Isinuta, sede di un accampamento militare accerchiato, 
                  nel quale negli ultimi giorni si sono segnalati incidenti. La 
                  strada non è asfaltata, le sue condizioni peggiorano 
                  lungo il cammino. I villaggi sono miserabili ed è difficile 
                  indovinare i segni dell’antico benessere legato alla coca. Molte 
                  catapecchie sono tirate su con assi di legno, il pavimento in 
                  terra e un tavolato ammezzato che funge da dormitorio. Ci accompagna 
                  Rolando Gomerrez, rappresentante locale della Assemblea per 
                  i diritti umani. Ci parla delle ultime azioni dei militari e 
                  della recente gassificazione del villaggio con bombe lacrimogene. 
                  “I proiettili provocano vomito, irritazioni agli occhi e alle 
                  vie respiratorie: arrivarono alla una della notte, approfittando 
                  del nostro riposo”. Nell’occasione il vice sindaco locale fu 
                  aggredito e pestato a sangue nel suo ufficio. Per Rolando, la 
                  morte di Ramón Perez non può rappresentare un 
                  incidente: i militari sparano senza tregua. Denuncia detenzioni 
                  illegali e gravi e continue minacce ai dirigenti. Giungiamo 
                  a destinazione e incontriamo i membri del sindacato riuniti 
                  in assemblea. I pigli sono battaglieri, ma i visi rivelano la 
                  stanchezza, gli sguardi sono amareggiati. Dietro di noi giace, 
                  vuoto, il mercato della coca. La riunione è breve, gli 
                  oratori si esprimono in un misto di quechua e castigliano e 
                  la piccola folla si disperde dopo aver deciso di riprendere 
                  il presidio il lunedì successivo.  
                  L’accampamento si trova alla fine del villaggio, tra la riva 
                  del fiume e il complesso scolastico. Camminiamo a lato delle 
                  installazioni, sorvegliati a vista dalle sentinelle appostare 
                  su di improvvisate torri di guardia. Di fronte all’ingresso 
                  ci attende una pattuglia, aria aggressiva e fucili spianati. 
                  Ci circondano, ci requisiscono i documenti e ci obbligano a 
                  entrare. Spunta un ufficiale che asserisce di averci incontrati 
                  giorni prima nel medesimo posto osservando le installazioni 
                  e d’aver scattato foto. La situazione per un momento si fa critica: 
                  qualsiasi giustificazione è usata a nostro carico. In 
                  particolare si accusa Rolando di aver introdotto persone estranee 
                  nell’area. Interviene il capitano, che si rivolge a noi in tutt’altra 
                  forma e spiega che, trattandosi di una zona rossa, sono in vigore 
                  misure eccezionali. In una mezz’ora ci restituiscono i documenti 
                  e l’ufficiale ci offre una bibita fresca. L’interno dell’accampamento 
                  è misero. La maggioranza dei soldati sono ragazzi di 
                  leva: i permessi sono sospesi e le uniche distrazioni sono un 
                  televisore sotto una tettoia e il piccolo chiosco dove siamo 
                  seduti. Le tende sono sgualcite e alla steccionata d’assi annerite 
                  mancano alcuni tratti. Come alleati dei poderosi yankee, non 
                  appaiono in buone condizioni.  
                  Il capitano afferma che sua principale preoccupazione è 
                  che attorno al campo non corra sangue. La voce è cortese, 
                  lo sguardo afflitto. Ci domandiamo se si tratti dello stesso 
                  ufficiale che il giorno prima diede l’ordine d’attacco. Si dichiara 
                  amareggiato dalle conseguenze di questa guerra tra boliviani 
                  e mal sopporta i limiti alla sovranità imposti dalla 
                  presenza nordamericana. Ricorda come un tempo i politici incentivassero 
                  e si arricchissero con il traffico e si rende conto della povertà 
                  che lo circonda: “tuttavia le decisioni fondamentali non sono 
                  nostre...”. Un rappresentante dei diritti umani e un ufficiale 
                  dell’esercito di occupazione seduti alla stessa tavola: che 
                  sia un segno del destino?  
                  
                  Massimo Annibale Rossi 
                  
                Note 
                1. Le dichiarazioni di Arlacchi sono messe a confronto 
                  con quelle di Padre Sperandio Ravasio, che partecipò 
                  alle trattative dello scorso settembre, e di Luciano Invernizzi, 
                  direttore della Ciudad del niño di San Rafael, in: Chi 
                  mente sul Chapare?, “Narcomafie”, aprile 2001, Torino, p. 
                  16.  
                  2. Luz Marina Canelas, El palmito chapareño tiene 
                  dura competencia, “Los Tiempos”, Cochabamba, 7 octubre 2001, 
                  p. c7.  
                  3. I dati sono tratti dal Plan de Desarrollo del Trópico 
                  de Cochabamba; nei due anni successivi alla pubblicazione, la 
                  situazione si è aggravata.  
                  4. Padre Sperandio si riferisce al citato Plan de Desarrollo. 
                 
                  
                 
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