rivista anarchica
anno 31 n. 275
ottobre 2001


G8

Mal di stomaco tristezza e rabbia
di Francesco Codello

Queste le sensazioni che hanno caratterizzato il ritorno a casa del nostro collaboratore, e redattore di "Libertaria". E non solo lui.

Scrivo queste riflessioni pochi giorni dopo essere stato a Genova in occasione delle manifestazioni di protesta contro il G8, ovvero contro la presunzione e la pretesa da parte di otto uomini di decidere e disporre delle sorti dell’intera umanità.
L’ostentata esibizione della violenza del Potere appare evidente fin da subito. L’impatto con la città svuotata e blindata, fortificata e difesa nelle zone centrali, alimenta sicuramente un forte senso istintivo di repulsione verso l’arroganza e la logica stessa del Vertice.
Condivido queste prime impressioni con un anonimo abitante genovese che casualmente incontro in un autobus e che mi rappresenta tutto il suo disagio e la sua preoccupazione per questa torbida e pesante aria che incombe sulla città. Tutto lascia presagire che la tragedia possa scoppiare con la sua carica di devastazione e morte.
Sono andato a Genova spinto da una forte tensione etica, con un grande senso di responsabilità e accompagnato da una sorta di dovere morale e politico di unire la mia flebile voce a quella di migliaia e migliaia di altri, alcuni più vicini alle mie idee, altri con diverse idee, ma convinto di partecipare ad un movimento nascente, spontaneo, confuso forse, ma limpido e sostanzialmente positivo, teso ad affermare i diritti degli esclusi, dei vilipesi, degli sfruttati, degli ultimi.
Torno da Genova col mal di stomaco, con la tristezza nel cuore, con la rabbia di chi viene sbattuto innanzitutto ancora una volta contro la faccia più violenta del Potere, ma anche con la delusione di chi pensava che la storia più o meno recente avesse insegnato qualche cosa anche a chi dichiara di stare dalla parte della libertà e della solidarietà ma agisce in senso diametralmente opposto.
Mi continuo a chiedere ossessivamente cosa possa avere io, e presumo molti altri anarchici come me, da dividere, da condividere con chi fa della violenza alla hooligans, di chi si copre il volto e fa dell’anonimato una scelta politica, di chi manda buste e bombe che colpiscono nel mucchio, feriscono (solo casualmente non uccidono) persone che nulla hanno a che fare col Potere, o con “Black Bloc” che pensano e agiscono come se fosse possibile e soprattutto coerente con la nostra idea imporre ad altre migliaia lo scontro per lo scontro, la violenza ribellistica e demenziale, isolandosi volutamente da un contesto diffuso e ampio che sta faticosamente muovendo i primi passi per riaffermare i valori e i principi di una società migliore di questa.
Nulla, assolutamente nulla.


A volto scoperto

Certamente, come sosteneva Malatesta, noi non possiamo (e non dobbiamo aggiungo) pensare di costruire una società libera da soli, abbiamo il compito di stare fra la gente, suggerire e praticare esperienze e metodi libertari, denunciare ogni forma di potere costituito o che si forma sulla testa dei movimenti più spontanei, testimoniare con il nostro comportamento quotidiano la nobiltà e la grandezza dei nostri principi e dei nostri valori. Anarchia, sosteneva sempre Malatesta, “vuol dire nonviolenza, non-dominio dell’uomo sull’uomo, non-imposizione per forza della volontà di uno o di più su quella degli altri”. A volto scoperto, con le nostre contraddizioni che derivano dal vivere una vita fatta di tante cose comuni con tutti coloro che non praticano dominio in alcuna forma, dalla parte di chi subisce, per far si che cresca, prima di tutto eticamente, l’idea di una nuova società, che non può essere un qualche cosa di totalmente altro ma che si sviluppa continuamente, incessantemente, magari anche contraddittoriamente, come una rete che si annoda e si amplia sempre più. Tutto questo con quella serenità e determinazione propria di chi sa, come diceva Paul Goodman, quando occorre “tracciare il limite” oltre il quale non si accettano compromessi con il Potere, ma anche con la convinzione che un altro limite invalicabile va segnato nei confronti di chi pensa di poter imporre un mondo nuovo che non può certo arrivare senza una coerente tensione etica tra mezzi e fini.
La violenza è comunque gerarchica e se esistono momenti storici nei quali il suo uso può essere inevitabile per difendere la propria e altrui libertà dalla tirannia e dall’oppressione, occorre anche essere consapevoli che proprio per la sua intrinseca natura autoritaria essa può giustificarsi quando appartiene alle moltitudini che si ribellano ai pochi; può essere capita, ma essere politicamente inutile, quando si afferma come gesto individuale contro il tiranno.
Dobbiamo avere il coraggio di uscire dall’equivoco che ci portiamo appresso e di considerare “anarchici” alcuni compagni che sbagliano, perché sono i comportamenti che determinano la discriminante e non le autodichiarazioni di appartenenza.
Faticosamente, con enormi sacrifici, centinaia e migliaia di noi hanno contribuito e contribuiscono a far sì che le nostre idee vengano assunte da un sempre maggior numero di persone come utili e positive risposte alle devastanti soluzioni imposte e ai problemi generati dalle forme del dominio psicologico, culturale, sociale, economico e politico. E l’anarchismo sempre più sta lì, come seme sotto la neve, come suggerisce Colin Ward e fa sbocciare spontaneamente soluzioni antiautoritarie e libertarie ai vari problemi che vengono creati dalle società dello sfruttamento e dell’oppressione.
Il nostro posto è dentro la società non fuori di essa, senza paura di sporcarsi le mani con chi non la pensa come noi, ma anche senza il timore di confrontarsi quotidianamente con le ingiustizie e le malvagità che molti di noi subiscono, corroborati dalla nostra fermezza etica, dai sentimenti umani e dalla ragione politica.
Poco importa se questo anarchismo può venir tacciato di riformismo, di gradualismo, di imbecillità senile come purtroppo abbiamo sentito dire. Sono sempre i comportamenti che contano, la tensione etica tra mezzi e fini, la coerenza quotidiana, la lucidità politica e la sensibilità sociale e culturale che contribuiscono a far si che sempre più individui riconoscano nelle risposte anarchiche le migliori soluzioni per allargare lo spazio della felicità umana.

 

Fare chiarezza

Le autodichiarazioni referenziali dei “rivoluzionari di professione” non ci devono spaventare, anzi ci devono inorgoglire e confermare che siamo sulla strada giusta, proprio perché anche limpidamente contraddittoria, e soprattutto non aristocraticamente e leninisticamente astratta e profondamente autoritaria.
E’ indispensabile fare dunque chiarezza, non lasciare spazio a zone d’ombra, a complicità, ad ammiccamenti con chi pensa (ammesso che pensi) di poter cambiare il mondo con la convinzione che basti accendere il fuoco del ribellismo, dell’esasperazione, della violenza per far sì che vi sia una presa di coscienza collettiva in senso libertario.
Un anarchismo per il XXI secolo non può non considerare come indispensabile ripensare e superare quella parte del suo pur straordinario patrimonio storico di esperienze che hanno avuto ragione e senso in un’epoca storica che non c’è più, tanto per intenderci quella che termina con la rivoluzione spagnola del ‘36-’39. E’ inevitabile pensare ad una nuova analisi che tenga conto dei profondi ed epocali cambiamenti che si susseguono con la rapidità che tutti noi subiamo. Ma al contempo è altrettanto indispensabile tenere fermi e solidi alcuni valori di sempre, questi si nella loro essenza assoluti, come la libertà, l’autonomia, la solidarietà.
Troppo spesso nel corso della nostra storia, non solo recente, abbiamo dovuto ripartire da zero per ricostruire un tessuto sociale libertario, un’immagine vera e positiva dell’anarchismo concreto, quello che c’è già nei meandri della società autoritaria, quello che nasce spontaneamente o comunque accolto liberamente perché utile a far vivere meglio e più liberamente le persone oppresse, per poterci permettere ancora una volta di lapidare questa ricchezza per l’umanità intera.


Come suggerisce Colin Ward

Allora bisogna avere il coraggio di rischiare di perdere per strada qualche ribelle perché ci ritiene accondiscenti o “riformisti” e non “rivoluzionari” se questo serve, come serve, per incontrare quante più persone che anarchiche non sono o che non sanno di essere, magari settorialmente, su alcune questioni che coinvolgono la loro quotidiana vita, almeno libertarie.
L’etichetta a questo punto serve a poco. Come suggerisce Colin Ward, probabilmente abbiamo bisogno di “meticizzarci” sapendo comunque che l’etica sostanziale del nostro DNA è sempre la stessa.
Da questa ulteriore spinta verso le suggestioni e le proposte più stimolanti che provengono dalle diverse forme sociali, potremo ricavare ancora nuova linfa per ribadire che siamo anarchici e orgogliosi di esserlo.

Francesco Codello