rivista anarchica
anno 31 n. 275
ottobre 2001


G8

Né legalitari né pacifisti
di Antonio Cardella

Siamo lontani mille miglia dal voler criminalizzare qualcuno, ma...

Non siamo tra coloro che ritengono la storia "magistra vitae", anzi crediamo che all'uomo contemporaneo, frastornato da esigenze, vere o presunte, di un presente che incalza, lo sbirciare nel passato non insegni proprio nulla e non lo affranchi dal rischio di ripetere errori già commessi da lui stesso o dai suoi simili.
Qualche volta, però, il ricorso alla memoria può servire a qualcosa: se non proprio a raddrizzare la prora della nostra precaria imbarcazione, almeno a riconoscere i pericoli che la navigazione ci riserva.
Così eccoci qui a rimeditare – a proposito dei Black Bloc – un'esperienza vissuta più o meno direttamente, nel lontano (anni luce!) 1972.
All'inizio di quell'anno, i compagni di Milano declinarono l'invito di cogestire, o, almeno, di partecipare alla manifestazione indetta per l'11 marzo, nel capoluogo ambrosiano, che aveva come tema principale "Valpreda libero - Fuori i fascisti dalla città".
I compagni, dopo una serie di riunioni, avevano valutato negativamente le modalità organizzative e alcune delle finalità che i gruppi extraparlamentari intendevano imporre alla manifestazione. Ritenevano soprattutto che non fosse coerente con il costume anarchico la struttura militaresca che si voleva predisporre per la "difesa" del raduno, né i propositi, pressoché espliciti, di provocare lo scontro fisico con la polizia.
Tale diniego dei compagni di Milano, ovviamente, non era dettato né da una vocazione legalitaria, né da una particolare sensibilità pacifista – istanze che non figuravano certamente nel dna degli anarchici – ma dalla convinzione che lo scontro era già messo in conto dagli organi repressivi dello stato e che si sarebbe inevitabilmente esercitato contro la maggior parte dei partecipanti che allo scontro non erano per nulla preparati.
Per la cronaca, la manifestazione si tenne alla data stabilita e, alla fine, purtroppo, si contarono decine di feriti e un centinaio di arrestati.
Torniamo allora al nostro discorso sull'attualità e, in particolare, ai tre giorni del G8 a Genova.
Era chiaro che un governo arrogante e velleitario, come quello presieduto da Berlusconi, avrebbe di certo tentato di cogliere l'occasione per presentarsi al mondo intero – a due mesi scarsi dal suo insediamento – come il governo capace di arginare e possibilmente sconfiggere un movimento – quello antiglobal – che aveva destato vaste preoccupazioni in tutti i paesi dell'occidente industrializzato.
Così, "picchiare duro" e senza alcun riguardo per i manifestanti, qualunque fosse il loro comportamento in piazza, erano le parole d'ordine che verosimilmente circolavano nelle caserme di polizia e carabinieri, i quali, a loro volta, avevano addestrato squadre speciali di infiltrati per rendere più agevole la realizzazione del disegno complessivo.
La presenza di Fini nelle sale operative delle forze repressive era certamente emblematica.
I fascisti, negli ultimi cinquant'anni di vita politica in Italia, sono sempre stati la manodopera ottusa della violenza dello stato, democristiano o consociativo che fosse. Sono sempre stati loro a sporcarsi le mani (con la copertura, la connivenza o addirittura con la partecipazione attiva dei servizi segreti, per pudore definiti deviati) per ristabilire equilibri precari di governo o per arginare le spinte "eversive" di un proletariato che intendeva esercitare i propri diritti al benessere ed alla libertà.


Comportamenti scriteriati

Tutto, quindi, era pronto, garantito dai continui viaggi che Berlusconi e la parte più rappresentativa della sua corte dei miracoli compirono nel capoluogo ligure prima del grande evento.
Sappiamo che, poi, molte cose non funzionarono secondo i loro intendimenti, ma questo riguarda gli apprendisti stregoni del governo e dei suoi organi repressivi, che non seppero dare un'adeguata regia al copione. Questo però non assolve i comportamenti scriteriati dei Black Bloc, che avrebbero potuto arrecare danni ben più pesanti al movimento, oltre a quelli già gravissimi che si possono sintetizzare negli oltre cinquecento feriti e in centinaia di arrestati.
Il nostro discorso, ovviamente, non riguarda gli infiltrati, i naziskin o i provocatori di professione, vestano o no una divisa, ma quella parte di manifestanti che, in perfetta buona fede, ha creduto di potere elevare il livello dello scontro politico, non seguendo le indicazioni nonviolente della maggioranza dei manifestanti.
Ci auguriamo che essi, nei prossimi appuntamenti, abbiano maturato la convinzione (suffragata da una lunga esperienza) che atti di violenza indiscriminata hanno sempre avuto, come esito immediato, di provocare l'istintiva riprovazione dell'opinione pubblica anche non moderata (e, quindi una sottrazione di consenso) e, soprattutto, l'ulteriore divisione del proletariato, che, pur volendosi battere contro il sistema che non lo garantisce, ripudia forme di violenza che non abbiano come retroterra motivazioni forti e riconoscibili.
Appare chiaro, da quanto abbiamo detto, che siamo lontani mille miglia dal voler criminalizzare qualcuno o dal voler dare contenuti moralistici alle nostre argomentazioni.
Vogliamo solo ribadire un principio anarchico, consolidato da cento anni di storia.
Lo scontro duro, anche armato, contro la repressione gli anarchici lo hanno esercitato quando si è trattato di difendere un processo rivoluzionario condiviso e supportato da una parte consistente della società oppressa. Se così non fosse stato, gli anarchici avrebbero confuso e condiviso la loro sorte con la sorte di quanti, in tutte le epoche, hanno compiuto fughe in avanti senza preoccuparsi di chi li seguisse.
Costoro – si chiamassero bolscevichi, avanguardie o partiti egemoni – dopo aver tradito e spesso eliminato quanti erano portatori di istanze autenticamente rivoluzionarie, furono sempre e ignominiosamente cancellati dalla storia e le loro ideologie rimosse dalla coscienza popolare.
Noi anarchici, invece, ci sentiamo ancora bene e non accusiamo molti acciacchi: segno che seguiamo una dieta rigorosa e salutare.
Ritorniamo, allora, all'inizio del nostro ragionamento.
In quel lontano 1972 i compagni di Milano avevano seguito la buona regola di non cedere alla tentazione di sferrare un pugno ad un avversario che non era ancora alla loro portata.
Bisognava allora (e bisogna oggi) avere pazienza, fare di tutto per irrobustirsi e crescere di numero.
La vocazione al martirio non è una virtù rivoluzionaria e non ha mai fatto molti proseliti.
Il povero Carlo Giuliani è vittima dello stato, che ne ha premeditato l'omicidio. Sarebbe riduttivo e mistificatorio considerarlo martire del Movimento.

Antonio Cardella