rivista anarchica
anno 30 n.263
maggio 2000


dossier ex-Jugoslavia

Come la Nato realizzò il sogno di Enver Hoxa
di Pino Cacucci

 

Nel primo anniversario dell'intervento "umanitario" della Nato nei Balcani, qualche informazione utile sulle menzogne di allora e sulle vergogne di oggi.

 

Se mai volessimo l'ennesima conferma storica che stalinismo e nazismo traggono linfa da radici comuni, l'Uck sarebbe l'esempio odierno più concreto.
Viviamo in un'epoca nella quale sia il progetto di Hitler - dominare il mondo - che quello di Stalin - controllare cuori e menti degli esseri umani - sono stati portati a compimento non da una singola nazione o alleanza di stati, bensì dal coacervo di imprese transnazionali che chiamano questo incubo "globalizzazione", mentre il mezzo con cui lo concretizzano, il "neoliberismo", è in sé una contraddizione in termini: mai il mercato è stato meno libero, perché ferreamente controllato e spietatamente escludente, capillarmente a senso unico (come sostiene da anni Noam Chomsky, "il neoliberismo è una ricetta i cui propugnatori impongono alle proprie vittime ma si guardano bene dall'adottare"). Tornando agli albori di quello che , all'apparenza, sembrerebbe un assurdo storico - la convergenza di intenti tra un satrapo staliniano e la Nato - va ricordato che l'Uck è in fondo una creatura del dittatore albanese deceduto nel 1985, fu lui a vagheggiare la "Grande Albania" - sebbene il progetto fosse già caldeggiato dal governo collaborazionista durante l'occupazione fascista - e a organizzare, armare e sovvenzionare il primo nucleo di "guastatori" kosovari albanesi, negli anni che lo vedevano acerrimo nemico di Tito e della Yugoslavia fermamente antistalinista (anche se per motivazioni tutt'altro che libertarie...).
La memoria cortissima dei nostri mezzi d'informazione ha ignorato alcuni illuminanti reportage pubblicati in epoca non sospetta dal... New York Times (d'ora in poi NYT), cioè lo stesso giornale che più tardi avrebbe capeggiato la campagna in favore dell'intervento "umanitario". Nel 1982 l'inviato David Binder descriveva una situazione con termini sorprendentemente simili rispetto a quella che diciassette anni dopo avrebbe scatenato la guerra, ma diametralmente opposta: la minoranza serba risultava vittima di ogni sorta di soprusi da parte della maggioranza albanese, mentre il governo centrale si guardava bene dall'intervenire per non alimentare il nazionalismo di entrambe le parti e non fornire pretesti alla bellicosità di Tirana.
Scriveva Binder il 9 novembre dell'82, dopo l'ennesima aggressione con tentativo di bruciare vivo un bambino serbo: "Incidenti di questo genere hanno spinto molti degli abitanti del Kosovo di origine slava a fuggire dalla provincia, favorendo così la richiesta dei nazionalisti di un Kosovo etnicamente puro e albanese. Secondo le stime di Belgrado, 20.000 serbi e montenegrini hanno abbandonato per sempre il Kosovo dopo i tumulti del 1981". Riguardo i quali, il NYT del 28 novembre pubblicava quanto segue: "In una spirale di violenza iniziata con gli scontri all'università di Pristina nel marzo 1981, un gran numero di persone sono state uccise e centinaia ferite. Con frequenza settimanale, si sono registrati casi di stupri, incendi, saccheggi e sabotaggi con lo scopo di espellere dalla provincia gli slavi ancora rimasti nel Kosovo". Nel 1986 un altro inviato, Henry Kamm, riportando il clima di aggressione ai danni degli "slavi" (serbi e montenegrini) sottolineava che le "autorità comuniste locali, di etnia albanese" coprivano i crimini dei nazionalisti.
Considerando che dall'altra parte della frontiera Enver Hoxa finanziava i gruppi paramilitari, embrioni del futuro Uck, il NYT non aveva remore nel descrivere la situazione. Va ricordato che risale ad allora la coniazione del termine "stupro etnico", largamente usato dai kosovari albanesi ("comunisti", a quei tempi) per "convincere" i serbi ad abbandonare terre e case. Binder tornò in Kosovo nel 1987, e l'11 gennaio scrisse: "Gli albanesi nel governo locale hanno dirottato fondi pubblici e modificato regolamenti per impadronirsi di terre appartenenti ai serbi, sono state attaccate chiese ortodosse, hanno avvelenato pozzi e bruciato raccolti. Molti giovani albanesi sono stati istigati dagli anziani a stuprare le ragazze serbe". Difficile definire tutto questo "vittimismo serbo": gli archivi del NYT non sono stati colpiti da missili intelligenti e chiunque, magari nella sua prossima vacanza nella Grande Mela, può andare a verificare. Milosevic fu molto abile nello sfruttare l'esasperazione della minoranza serba per raccogliere voti (giurando alla folla che non avrebbe mai più subìto soprusi e violenze dalla maggioranza albanese), ma non dovette faticare granché, vista la serie di orrori praticati per anni con quotidiano accanimento dai giovanotti che propugnavano la Grande Albania e ammiravano Enver Hoxa. Gli stessi che anni dopo sventoleranno bandiere a stelle e strisce, con notevole capacità di trasformismo politico.


Sarajevo, l'Holiday Inn nel quartiere Marindvor - albergo che durante l'assedio ospitava la stampa internazionale.

 

Stupri e saccheggi

Orfani del satrapo di Tirana, i nazionalisti specializzati in stupri e saccheggi hanno trovato, un bel giorno, il più potente protettore che il destino potesse loro riservare: George Tenet, direttore quarantaseienne della CIA. Tenet viene da una famiglia albanese, sua madre fuggì "dal comunismo" (quello di Hoxa) a bordo di un sommergibile inglese, e nel luglio del '97 è diventato uno degli uomini più potenti del mondo per volere di Clinton, che lo ha messo a capo della centrale di spionaggio statunitense al termine di una carriera folgorante e con il compito di ristrutturarla a fondo. Da allora, George Tenet ha lavorato in modo assiduo per gli ex connazionali. E ha individuato nel Kosovo il punto nevralgico di una strategia che con i nazionalismi non c'entra nulla, ma che riguarda esclusivamente il controllo delle risorse energetiche e la destabilizzazione dell'Unione Europea all'indomani del varo dell'Euro, per fiaccare sul nascere l'unica potenza economica in grado di impensierire quella statunitense (prima o poi toccherà alla Cina, già "avvisata" proprio durante la guerra contro la Yugoslavia). Gli oleodotti e i gasdotti che dalla Russia e dall'Iran - via Mar Nero-Romania-Serbia - avrebbero potuto rendere meno dipendenti i paesi dell'Europa mediterranea dai giacimenti del Mare del Nord (controllati da Gran Bretagna e Stati Uniti, il che spiega esaurientemente l'atteggiamento di Blair al riguardo), sono tornati lettera morta.
Washington considera il Caucaso parte della sfera di intervento Usa e Nato, e ha sostenuto la costruzione dell'oleodotto Baku-Supsa (in Georgia) proprio per tagliare fuori la Russia diminuendone l'influenza geopolitica nell'area: l'apertura è avvenuta dopo una serie di manovre militari congiunte tra Azerbaigian, Ucraina e Georgia in un piano di alleanze che comprende anche la Moldavia, collegata alla Nato tramite la "Nato Partnership for Peace" (Orwell ci ha insegnato che non può mai mancare la parola "pace" quando si tratta di scatenare guerre...). Ma dal Vietnam in poi, è assodato che prima di far decollare i bombardieri occorre conquistare l'opinione pubblica, compito non certo difficile, considerando la pressoché totale inesistenza di organi d'informazione indipendenti in grado di incidere in profondità sulle coscienze (anche a questo riguardo, si veda l'illuminante produzione di Noam Chom-sky, in particolare Mani-facturing Consent, La fabbrica del consenso, scritto in collaborazione con Edward S. Herman). E così, è stato messo a capo dell'Organiz-zazione per la Sicurezza e la Coope-razione in Europa (Osce) il famigerato William Walker (senza che nessun giornale si chiedesse perché un nordamericano dovesse mai comandare un organismo prettamente europeo).
Fatalmente omonimo dell'avventuriero che invase il Nicaragua nel 1855 per conto della multinazionale Vanderbilt, Walker ha un curriculum degno del compito assegnatogli. Entrato in "diplomazia" nel 1961, specialista di questioni latinoamericane, iniziò la carriera come funzionario in Perù, quindi assegnato al Dipar-timento di Stato nell'ufficio per l'Argentina, e a Rio de Janeiro tra il '69 e il '72 durante la sanguinosa dittatura di Garastazu Medici, la prima di un'assidua frequentazione di gorilla genocidi sud e centroamericani. Tra il '74 e il '77 Walker diresse la sezione politica dell'ambasciata Usa in Salvador, ai tempi delle famigerate formazioni paramilitari di "Orden", addestrate dalla CIA e dai Berretti Verdi. Nell'82, con Reagan, lo spedirono in Honduras, paese strategico in funzione anti-Nicaragua sandinista, dove vennero dislocati i contras.
Lavorando in stretto contatto con il colonnello Oliver North, quello dello scandalo Iran-Contras per i fondi occulti al terrorismo antisandinista, Walker ha frequentato a quei tempi persino Felix Rodriguez, istruttore di reparti speciali dal Vietnam all'America Latina, che interrogò Ernesto Che Guevara dopo la cattura a La Higuera e trasmise l'ordine di ucciderlo. Nonostante il successivo scandalo dei fondi, con Walker che compare in ben 13 passi del rapporto della commissione d'inchiesta, la sua stella non sarebbe mai tramontata. Nel 1988 fu nominato ambasciatore in Salvador, dove, l'anno seguente, in occasione dell'elezione di Alfredo Cristiani a presidente, diede un party per festeggiarlo e invitò il maggiore Roberto D'Aubuisson, organizzatore degli squadroni della morte e mandante, tra gli innumerevoli eccidi, anche dell'assassinio del vescovo Oscar Romero.
Quando il 16 novembre del 1989 i militari salvadoregni fanno irruzione nell'Università Centroame-ricana e massacrano i docenti gesuiti, Walker dichiara di non avere nulla da dichiarare... Nel '92 ha lasciato il Salvador per occuparsi di Croazia, e quindi del "Supremo" Tudjman, campione degli interessi Usa nei Balcani. Infine, è stato inviato in Kosovo, per creare i presupposti di un conflitto a scopo preventivo che limitasse una futura espansione economica russa - e di conseguenza anche iraniana - e permettesse agli Stati Uniti di costruire la più grande base militare nei Balcani - l'odierna Bondsteel, nei pressi di Orahovac - i cui lavori in corso sono di tale portata da dimostrare che le truppe Usa resteranno lì per secoli. Il pretesto all'intervento "umanitario" a suon di missili e proiettili all'uranio lo avrebbe inventato il 15 gennaio 1999 a Racak.


Ingresso del cimitero ebraico... assedio-abbandono-esodo.

 

Spudorata messinscena

Quello che sarebbe passato alla storia come il casus belli della "guerra umanitaria", cioè la cosiddetta "strage di Racak", è ormai pienamente provato che si trattò di una macabra, spudorata messinscena. L'inviato del Figaro Renaud Girard fu tra i primi a denunciare l'eccidio di 45 civili albanesi, ma soltanto due giorni dopo pubblicò un secondo articolo denunciando di essere stato "preso in giro dall'Uck" al pari degli altri giornalisti. Poi, anche Le Monde e Liberation hanno smascherato l'inganno, ma troppo tardi (e comunque, al di fuori della Francia non hanno riscosso alcuna eco). Girard si recò sul posto il 15, su invito delle autorità serbe, in seguito a un attacco dell'Uck e a un contrattacco della polizia, con un bilancio di 15 combattenti albanesi uccisi. Sia i giornalisti che gli osservatori dell'Osce non videro alcuna vittima civile, e il villaggio "appariva del tutto normale".
L'indomani, Racak era tornata sotto il controllo dell'Uck, e i giornalisti furono portati a vedere il massacro: 45 corpi che prima non c'erano, apparsi molto tempo dopo il ritiro delle forze serbe. Girard pubblicò il 20 gennaio un dettagliato resoconto dell'inganno subìto, dove, in pratica, erano stati mostrati cadaveri di persone uccise lontano da Racak e trasportati lì per la messinscena della strage: perché il giorno in cui sarebbe avvenuta, nessuno nel villaggio ne sapeva nulla? E perché Walker si era riunito per 45 minuti con i capi militari dell'Uck proprio a Racak? L'articolo mandò su tutte le furie i corrispondenti anglosassoni, che accusarono Girard di "uccidere la loro notizia"... Il mondo fece come gli osservatori dell'Osce: ignorò la verità e giudicò sacrosanto l'inizio della guerra. Ottimo lavoro, mister Walker.

 

Il "solito" tragico errore

Riaffermare che "la verità è la prima vittima di ogni guerra", appare ormai scontato, ma vale sempre la pena soffermarsi sugli esempi concreti, per quanto sia la nostra una lotta di minuscoli Don Chisciotte contro mulini a vento globalizzanti.
Tra le poche incrinature nella campagna di disinformazione monolitica, vanno registrate le corrispondenze di Paul Watson da Pristina, inviato del Los Angeles Times, cioè di un organo tutt'altro che critico nei confronti della guerra. Anche Watson, rispetto alla "strage di Racak", dapprima avalla la versione di Walker, ma in seguito esprime gravi dubbi e intervista addirittura alcuni abitanti del villaggio che confermano le deduzioni avanzate dagli inviati francesi.
Quando iniziano i bombardamenti, Watson si rifiuta di lasciare il Kosovo e assume la scomoda posizione di testimone diretto, affermando a più riprese che la Nato "sta colpendo soprattutto chi dice di voler salvare" e gli obiettivi degli attacchi sono sempre civili inermi, senza distinzione tra profughi dell'una o dell'altra etnia. Ben presto lo sconcerto di Watson si trasforma in indignazione: il 17 aprile dichiara alla Cbc canadese che la Nato sta mentendo riguardo i presunti massacri di civili albanesi a opera dell'esercito serbo a Pristina, aggiungendo "Non posso essere d'accordo con i governi della Nato che stanno solo cercando di nascondere le loro responsabilità per l'esodo dei profughi dal Kosovo.
È molto improbabile che un esodo di tale entità sarebbe avvenuto se non fosse stato per i bombardamenti". E il 20 giugno scrive: "Come unico corrispondente statunitense in Kosovo per buona parte dei 78 giorni di bombardamenti della Nato sono passato attraverso una guerra di cui la prima vittima è stata, come nella maggioranza dei conflitti, la verità. La Nato ha chiamato la sua devastante guerra aerea un "intervento umanitario", una battaglia tra il bene e il male per fermare la pulizia etnica e far ritornare i kosovari albanesi alle loro case.
Ma vista dall'interno del Kosovo, questa guerra non è mai apparsa così semplice e pura. È sembrato piuttosto come aver chiamato un idraulico per riparare una perdita ed averlo osservato allagare completamente la casa".
È anche a causa della presenza di Watson (e di un fotoreporter della Reuters) se la Nato ha dovuto ammettere il massacro del 14 aprile, quando oltre 80 profughi kosovari albanesi rimangono uccisi in ripetuti attacchi aerei (ben quattro, a distanza di tempo uno dall'altro, e non l'errore di un singolo pilota). Nelle ore successive, i telegiornali mostrano servizi nei quali diversi presunti "profughi scampati al bombardamento" giurano di aver riconosciuto le insegne di Belgrado sui velivoli responsabili della carneficina.
Ma in seguito alle immagini diffuse dall'inviato della Reuters e alle descrizioni inviate da Watson, la Nato ammetterà "il tragico errore". Resta solo da chiarire un punto: i testimoni erano vittime di psicosi collettiva o avevano ricevuto l'ordine di dichiarare il falso? È assolutamente impossibile confondere i colori yugoslavi dalle insegne statunitensi che spiccano su ali e timoni di coda. Comunque fosse, rappresentano un esempio da tenere sempre bene in mente, quando assistiamo a certe "accuse irrefutabili di testimoni oculari".

 

Nessun problema

Qualche mese dopo la fine dell'intervento "umanitario", persino le tanto sbandierate fosse comuni hanno subìto un drastico ridimensionamento. Nessuno potrebbe mai negare la ferocia dei paramilitari serbi - fermo restando, come ha affermato persino una funzionaria dell'Osce, che questi si sono scatenati dopo l'inizio degli attacchi Nato, e non prima, a riprova che l'incolumità dei kosovari albanesi è stata solo un pretesto per altri scopi - ma le famose foto satellitari di presunte sepolture di massa, sono risultate altrettante bufale a uso e consumo della propaganda. Durante il conflitto la Nato ha diffuso la spaventosa cifra di 10.000 civili uccisi dai serbi: calata l'attenzione dei media, risulteranno essere circa duemila, dei quali la maggior parte combattenti dell'Uck, mandati allo sbaraglio dai loro comandi per ottenere maggiori riconoscimenti sul campo, e resta inoltre impossibile quantificare quanti civili albanesi siano stati uccisi dall'Uck perché considerati "collaborazionisti". Il 17 ottobre 1999 la Fondazione Stratford, un centro di studi strategici di Austin, Texas, ha emesso un approfondito rapporto in cui tra l'altro si legge: "Nel caso che gli Stati Uniti e la Nato si fossero sbagliati (sulla cifra di 10.000 vittime) i governi dell'Alleanza che, come quello italiano e quello tedesco, hanno dovuto a suo tempo fronteggiare pesanti critiche, potrebbero venirsi a trovare in difficoltà. Ci saranno molte conseguenze qualora risultasse che le dichiarazioni della Nato riguardo le atrocità commesse dai serbi erano largamente false". Sembra che il problema non sussista: è trascorso un anno senza la benché minima "difficoltà" nel digerire e dimenticare qualsiasi falsità ingoiata.


Sarajevo, ragazzi giocano a basket tra i resti di un edificio.

La cacciata degli ebrei

Poi, avremmo assistito a una capillare pulizia etnica, stavolta davvero totale: a parte i serbi, anche turchi, montenegrini, croati, goran, rom ed ebrei hanno dovuto lasciare il Kosovo, cacciati a forza di stragi e distruzioni sistematiche. Una pagina del tutto taciuta dall'informazione globale è quella che riguarda il dramma della comunità ebraica di Pristina. Jared Israel, del Brecht Forum di New York, ha intervistato Cedda Prlincevic, presidente della comunità, scampato al pogrom scatenatosi con l'ingresso della Kfor - cioè dei "liberatori" - e rifugiatosi prima in Macedonia e quindi a Belgrado grazie all'aiuto di un amico israeliano, Eliz Viza, e del presidente della comunità ebraica di Skopje. Riportiamo alcuni stralci delle sue dichiarazioni. "Sono successe cose orribili. Ma i serbi come popolo, come nazione dall'inizio della loro storia fino a oggi non hanno commesso atrocità né genocidi.
Ci sono stati individui che hanno compiuto atti che non avrebbero dovuto compiere. Ma qualcuno sta sfruttando questo, lo sta esagerando: il popolo serbo non aveva problemi con gli albanesi del Kosovo. Si sono aiutati a vicenda, specialmente nell'ultimo periodo. Ma appena sono entrate le truppe Kfor e il confine è stato aperto alla Macedonia e all'Albania, sono arrivati moltissimi albanesi da fuori e si è creata un'enorme confusione, con molte uccisioni. Durante i bombardamenti nei luoghi dove viveva la gente comune non si sono verificati massacri commessi dalla popolazione locale. Anzi, spesso erano gli stessi serbi a difendere gli albanesi dalle milizie paramilitari. (...) Poi, con la ritirata dell'esercito, c'erano gruppi paramilitari da entrambe le parti, allora la situazione è diventata sporca. Prima, non si verificavano eccidi. A Pristina ci rifugiavamo in cantina insieme con gli albanesi. Tutti insieme, rom, serbi, turchi, albanesi, ebrei, tutti inquilini dello stesso condominio. Stavamo tutti insieme. (...) Il pogrom è stato messo in atto dagli albanesi stranieri. Loro parlano una lingua diversa. Un altro dialetto. Non posso garantire al cento per cento che siano soltanto gli albanesi d'Albania a farlo, ma non ho visto neppure un albanese di Pristina compiere una vendetta contro un vicino di casa. (...)
Noi non siamo stati cacciati dagli albanesi di Pristina, ma da quelli venuti dall'Albania. È la stessa gente che alcuni anni fa dimostrava in Albania e che stava demolendo l'intero paese. Adesso, sono venuti in Kosovo. Nessuno li sta fermando. La Kfor è lì, vede tutto e permette di fare ciò che hanno fatto. La popolazione si aspettava davvero protezione dalle truppe Kfor. Ma invece di difendere la popolazione, sono rimasti a guardare, e tra giugno e luglio almeno trecentomila abitanti non albanesi hanno dovuto lasciare il Kosovo.
Persino molti kosovari albanesi hanno avuto grossi problemi, non solo chi era contrario al separatismo, ma persino chi si è limitato a non sostenerlo". C'è una domanda su cui Cedda Prlincevic sembra reticente, quasi imbarazzato, tanto che Jared Israel gliela pone più volte: riguarda le notizie della stampa sulle atrocità compiute dall'esercito yugoslavo contro gli albanesi durante i bombardamenti. Infine, il presidente della comunità ebraica dice: "Anche se ne parlassi, nessuno ormai si fida più dei serbi. Persino se affermassi che non è accaduto, nessuno crederebbe ai serbi. E se un ebreo di Pristina dicesse che questa accusa è falsa, sarebbe molto difficile per lui essere creduto."

 

L'uranio negato

La guerra in Kosovo ha colpito quasi esclusivamente i civili - si calcola che siano soltanto 13 (tredici!) i carri armati serbi distrutti dalla Nato, mentre oltre duemila i civili uccisi dai bombardamenti. Ma questo bilancio, per quanto spaventoso, è poca cosa al confronto delle conseguenze terrificanti che si verificheranno negli anni a venire, e che colpiranno le future generazioni per decenni e forse per secoli. Perché la guerra "umanitaria" in Kosovo non è stata assolutamente di tipo "convenzionale", cioè con l'uso di armi "previste" dalla Convenzione di Ginevra, bensì chimico-nucleare. Infatti, come in Irak, anche contro la Serbia - e sul territorio kosovaro, cioè quello che si diceva di voler "liberare" - sono stati impiegati proiettili e missili con testate all'uranio cosiddetto "impoverito" (Depleted Uranium), ottenuti rifondendo le scorie delle centrali nucleari.
Solo di recente, in seguito a una precisa richiesta dell'Onu, la Nato ha ammesso - il 7 febbraio 2000, in una breve lettera del segretario generale George Robertson a Kofi Annan - di aver lanciato durante il conflitto almeno 31.000 (trentunomila) proiettili all'uranio, senza però specificare che le ogive dei missili Tomahawk sono anch'esse a base di Depleted Uranium. Soltanto lungo la strada che collega Pec a Prizren, dove attualmente sono dislocati i militari italiani della Kfor, si calcola in oltre dieci tonnellate il quantitativo di uranio lanciato sul terreno.
Per gli Stati Uniti, che si ritrovano con almeno 500.000 tonnellate di scorie radioattive da smaltire dalle proprie centrali nucleari, il riciclaggio sotto forma di proiettili e testate di missili è un doppio business: si "distribuiscono" all'estero rifiuti altrimenti costosissimi da stoccare e isolare, e si ottiene un'arma letale, infinitamente più efficace delle munizioni convenzionali. Infatti, un proiettile all'uranio, che pesa il doppio del piombo ma è estremamente più denso e duro, all'impatto con la corazza di un mezzo blindato brucia ad altissima temperatura fondendo qualsiasi metallo, e incenerisce all'istante gli occupanti chiusi all'interno.
Bruciando, l'uranio si trasforma in finissime particelle di ossido radioattivo, che si spargono nell'atmosfera e quindi ricadono al suolo. Ogni particella inalata crea cellule cancerogene nei polmoni e nel sangue, successivamente, sotto forma di polvere impalpabile, penetra nelle falde acquifere ed entra nel ciclo alimentare. È' stato calcolato che ogni missile Tomahawk con testata all'uranio può causare in media 1620 casi di tumore nella popolazione che vive intorno al punto in cui è esploso.
Un volontario di una ONG italiana ha prelevato nel gennaio di quest'anno un campione di terra nella città di Novi Sad e lo ha fatto analizzare al suo rientro in Italia: ne è risultata una radioattività da isotopo 238 - quello presente nel Depleted Uranium a uso bellico - addirittura 1000 (mille!) volte superiore al limite considerato accettabile per gli esseri umani. Oggi sono ormai novantamila i veterani della guerra contro l'Irak del 1991 che, per l'esposizione alle polveri di ossido di uranio provocate dal lancio di proiettili anticarro e missili antibunker, accusano sintomi riconducibili alla cosiddetta "Sindrome del Golfo": molti sono già deceduti per leucemia, tumori linfatici e polmonari, i loro figli sono nati con gravissime malformazioni, mentre un gran numero di sopravvissuti è costretto a un'esistenza enormemente pregiudicata, con costanti dolori alle ossa, nausea, vertigini e stanchezza spossante.
Dato che gli effetti per l'inalazione e l'ingestione di ossido di uranio si manifestano nel medio e lungo periodo, tra qualche anno avremo un lungo elenco di militari della Kfor che denunceranno i propri governi chiedendo un risarcimento (proprio in questi giorni si è diffusa la notizia dei primi due militari italiani morti di leucemia dopo essere stati inviati in Bosnia, tra il novembre del '98 e l'aprile del '99, in una zona contaminata da proiettili all'uranio). Ma la popolazione serba e kosovara, i bambini che nasceranno con gravissime malformazioni, le madri condannate al cancro, gli operai delle fabbriche distrutte che per primi hanno tentato di ricostruirle esponendosi alla contaminazione, i contadini kosovari "liberati" che avranno ingerito acqua e cibi tossici a loro insaputa, tutte le vittime innocenti di questa "guerra umanitaria", a chi chiederanno un risarcimento? E in quali ospedali potranno sperare di farsi curare, e con quali medicine, in un paese devastato dalle bombe prima e stremato poi dall'embargo, o in un Kosovo governato dalla mafia del narcotraffico?


Mostar, il ponte ieri... prima della guerra.


Mostar, il ponte oggi... dopo la guerra.

 

Occhio alle cluster-bombs

Tutto questo, per vedere il regime di Milosevic più forte di un anno fa, con le opposizioni progressiste delle città duramente colpite dai bombardamenti a risultare le vere forze sconfitte e ridotte al silenzio. Infine, l'Italia sopporterà il peso più oneroso tra i paesi che hanno partecipato a questa sciagurata alleanza. Oltre all'inquinamento ambientale che ci colpirà nel lungo periodo - prima toccherà agli altri paesi balcanici e alla Grecia, dove già si registrano impennate nei tassi di radioattività - l'Adriatico è infestato di ordigni pericolosissimi, le famigerate cluster-bombs a frammentazione, ufficialmente vietate dalla Convenzione di Ginevra e successivamente da quella di Ottawa.
Le cluster-bombs sono micidiali ordigni che esplodono al contatto con il terreno solo parzialmente, infatti si calcola che circa il 30 per cento rimane inesploso ma attivo, pronto a deflagrare appena il singolo cilindro - poco più grande di due lattine di birra - viene rimosso. Decine di migliaia, forse centinaia di migliaia di cluster-bombs (ogni singolo contenitore a forma di serbatoio subalare ne racchiude circa duecento) sono state sganciate in mare dagli aerei della Nato al rientro dalle missioni, su preciso ordine dei comandi per "questioni di sicurezza" (evitando di atterrare negli aeroporti con quel carico potenzialmente devastante). Non passa giorno senza che i pescatori del Veneto, della Romagna, delle Marche, della Puglia, di tutte le regioni costiere, ne segnalino la presenza tra le reti tirate in secco, e sono già diversi i feriti gravi per le esplosioni avvenute a bordo o poco distante dai pescherecci. E la Nato continua a rifiutarsi di indicare con precisione i punti in cui sono state sganciate. In effetti, nelle migliaia di incursioni aeree effettuate, risulta ormai impossibile stabilire dove e quante siano, le cluster-bombs finite sul fondo del mare divenuto tra i più inquinati al mondo, nelle cui acque, tra l'altro, riposa ancora l'intero carico in bidoni di gas nervino di una nave statunitense affondata dai tedeschi nei pressi del porto di Bari (ufficialmente non dovrebbe esistere, perché "ufficialmente" gli Alleati non hanno usato gas nervino nella Seconda guerra mondiale...).

Forse, un giorno, nelle università dei nostri paesi, facoltà di Scienze Politiche, si studierà l'inesplicabile, assurdo caso di un'Europa che contribuì, nel lontano 1999, a destabilizzare se stessa e a condannare intere generazioni ad affrontare la più subdola e pericolosa delle forme di inquinamento letale.

Pino Cacucci