Rivista Anarchica Online
Cina - Il libretto rotto di Mao
di Camillo Levi
Frammentarie, parziali, a volte contraddittorie, continuano ad arrivare dalla Cina notizie di
fermenti critici contro il regime di Hua Kuofeng. Che si tratti dell'affissione di tazebao al "muro
della democrazia" per richiedere più libertà, che si tratti di improvvisati cortei popolari contro le
decisioni adottate dalle autorità, che si tratti del processo contro l'elettricista Wei Jinsheng o
contro l'operaia calzaturiera Fu Yuehua, ecc. ecc., è evidente che "qualcosa" bolle in pentola
nella Cina rossa. Un "qualcosa" che va ben al di là dei soliti episodi saltuari di malcontento, se è
vero - come riferiscono numerose testimonianze dirette - che per le strade di Pechino si formano
addirittura file di persone interessate all'acquisto di pubblicazioni clandestine e comunque non-ufficiali fortemente
critiche con il regime.
Alcune persone - si legge nel tazebao riproducente l'autodifesa pronunciata dall'elettricista Wei
Jinsheng nel corso del processo a suo carico, terminato con la condanna a 15 anni di carcere -
credono che sia rivoluzionario accettare qualsiasi cosa dicono i dirigenti del momento e che sia
controrivoluzionario opporsi alle loro opinioni. Non posso essere d'accordo con queste
definizioni superficiali. Essere rivoluzionari vuol dire andare avanti rispetto alle correnti
storiche del momento e lottare contro ciò che è feudale, conservatore e negativo. Più
che per i
suoi contenuti, comunque, questo tazebao è importante per il fatto di essere rimasto affisso per
lungo tempo al "muro della democrazia", letto e discusso da migliaia e migliaia di persone senza
che la polizia intervenisse - come invece avveniva di solito con i tazebao troppo critici con il
regime. Altro sintomo, anche se di segno diverso, di profondi mutamenti nella situazione politico-sociale
cinese è la ripresa delle relazioni tra il Vaticano ed il regime di Hua: i risultati non si sono fatti
attendere. A Canton è stata celebrata il mese scorso la prima messa (ufficialmente autorizzata)
dopo vari decenni; numerose chiese, in passato trasformate in magazzini, fabbriche e caserme,
sono state riadibite a luogo di culto; la quasi totalità dei preti che si trovavano in carcere o nei
"campi di rieducazione" è stata rimessa in libertà; ai gesuiti, banditi dalla Cina, è già
stato
concesso di riprendere la loro attività. Lo stesso Hua Kuofeng, prima di lasciare Pechino per
intraprendere il suo viaggio in Europa, ha tenuto a sottolineare l'importanza che la Cina rossa
annette allo sviluppo di buone relazioni con il Vaticano - sollecitandolo a troncare i rapporti
diplomatici con Formosa, come già hanno fatto tra gli altri gli Stati Uniti. Ma allora, che cosa sta
succedendo in Cina? Sta nascendo una nuova opposizione? È davvero in
atto un processo di "liberalizzazione"? E il mao-tse-tung- pensiero che fine ha fatto? Francamente ci è
ancora impossibile, con le notizie che possediamo, rispondere esaurientemente
a simili interrogativi. Un dato di fatto, comunque, è assodato: è iniziata la parabola discendente
del Grande Timoniere, del "più grande marxista-leninista di tutti i tempi", di
quello-che-alla-vittoria-ci-conduce. Se solo si riflette un attimo su quello che è stato e soprattutto su
quello che ha rappresentato Mao
per vari decenni, e in particolare dal '68 in poi, per milioni e milioni di giovani "rivoluzionari" in
tutte le parti del mondo - con conseguente strepitoso successo editoriale del suo insulso libretto
rosso -, si potrà cogliere la grande importanza che la demaoizzazione (pur ancora ai suoi inizi)
non può non avere. Che di vera e propria demaoizzazione si possa parlare, lo confermano sempre
più numerosi indizi sia a livello ufficiale (p.es., la mancata celebrazione ufficiale delle ricorrenze
legate alla sua vita, in passato sempre "santificate" con parate di leader ed adunate oceaniche) sia
a livello popolare (p.es., la comparsa per vari giorni a Pechino di un tazebao - il primo così
esplicito - denso di critiche durissime contro la figura e l'opera del Grande Timoniere). Sembrava
che almeno per un certo periodo Mao potesse costituire un'eccezione alla regola che vuole i
leader comunisti cinesi (ma non solo quelli) passare dall'incensamento adulatorio, attraverso
critiche, calunnie, "rivelazioni", alla distruzione morale - com'è già successo a Liu Sciaoci, alla
moglie dello stesso Mao con i suoi colleghi della banda dei quattro, ecc.. Invece, anche per
l'uomo che fino alla sua morte è stato oggetto di uno dei più impressionanti "culti della
personalità" di tutta la storia, è cominciata la fine morale. Non dovremmo poi meravigliarci
troppo, ricordando quanto avvenne in soli tre anni (dal '53 al
'56) con Stalin. Quando morì, tutto il movimento comunista internazionale (a parte i trotzkysti,
memori della picozza) lo pianse come il massimo dirigente comunista dopo Lenin: l'Unità
uscì
listata a lutto parlando di Lui in termini esaltanti. Dopo la relazione di Krusciov al XX congresso
del P.C.U.S. tre anni dopo, con le prime "rivelazioni" ufficiali sui crimini commessi da Baffone,
il mito stalinista iniziò la sua rapida parabola discendente - tanto che oggi in gran parte del
movimento comunista viene considerato uno scomodo "cadavere nell'armadio" da tenere
nascosto o da esorcizzare. Una considerazione si impone. Se i dirigenti di Pechino già pensano a
sbarazzarsi
progressivamente del mito maoista, è difficile evitare di pensare che, nonostante l'intensivo
lavaggio del cervello al quale è stato sottoposto il popolo cinese per i tre decenni del regno del
Grande Timoniere, alla fin fine l'adesione popolare a questa mitologia dev'essere stata tutta
esteriore, ad uso e consumo del minculpop cinese. C'è di che sperare.
Se difficile resta penetrare negli sconosciuti meandri della vita politica e sociale cinese, ben più
facile è decifrarne la politica estera per comprendere il significato della recente visita in Europa
di Hua (lo stesso Hua, val la pena di ricordarlo, che si era recato a Teheran per incontrare
fraternamente lo Scià mentre gli oppositori del regime iraniano cadevano sotto il piombo della
polizia di Reza Pahlevi). Tutto sommato, si tratta di un consolidamento della politica estera
cinese, già inaugurata a suo tempo da Mao, basata su alcuni punti fermi: tentare di isolare
l'U.R.S.S. denunciandone continuamente "l'egemonismo", ricerca su scala mondiale di alleanze
di qualsiasi tipo in funzione antirussa, intensificazione delle relazioni con i paesi in grado di
fornire all'economia cinese quelle tecnologie di cui necessita per svilupparsi, rifiuto della
distensione e solidarietà con tutte le iniziative di carattere militare (come la N.A.T.O.) ostili
all'U.R.S.S.. È solo in quest'ottica che si possono comprendere appieno alcune perle
dell'internazionalismo proletario applicato dai dirigenti cinesi: come a suo tempo il
riconoscimento immediato del regime di Pinochet ed il conseguente rifiuto di ospitare nella loro
ambasciata gli antifascisti che vi si rifugiarono, come l'appoggio a regimi (come quello singalese
e indonesiano) responsabili di veri e propri sterminii contro i movimenti marxisti-leninisti
d'opposizione, come l'accoglienza a braccia aperte a vecchi arnesi del conservatorismo europeo
come Fanfani e Strauss. In politica estera, dunque, la "giusta linea" indicata da Mao resta valida.
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