Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 71
gennaio 1979


Rivista Anarchica Online

American Indian Movement
di Franco Melandri

Gran parte dei numerosi articoli sugli odierni "pellerossa" apparsi sulla stampa più o meno specializzata (Atlante, Storia Illustrata, ecc.) più che contribuire alla comprensione dei problemi degli indiani tradisce la ricerca della nota di colore (i "nuovi guerrieri indiani" et similia) spesso unita al vuoto piagnisteo sulla triste storia di questi popoli. Anche molta della stampa di sinistra non sfugge a questo "cliché" e, a fianco dei giornali che addirittura ignorano il problema, molti sono gli organi di stampa che hanno parlato dei movimenti indiani con toni che vanno dal pietistico all'acritico, presentandone solo le caratteristiche superficiali e le gesta eclatanti ma ignorando quasi totalmente i problemi politici e le rivendicazioni che stanno alla base degli stessi movimenti indiani. Non si creda del resto che questo sia un fatto isolato e che il pubblico in genere sia più desideroso di approfondire la questione. Il panorama che vasta parte del "movement indianofilo" offre è costituito da compagni che sanno tutto, o quasi, sulla guerra di Nuvola Rossa, sulla "Lunga Marcia" dei Nasi Forati o sulle decorazioni di perline dei Cheyenne ma che spesso si disinteressano sia della realtà sociale e politica che quotidianamente i militanti indiani devono affrontare sia delle organizzazioni e dei costumi sociali che i militanti indiani vogliono conservare o ricostruire.

Ecco perché nell'opinione di molti compagni spesso il movimento indiano è visto come uno dei tanti movimenti rivoluzionari degli USA (magari un tantino più folkloristico) che ha per fine "il comunismo".

Come nel caso della conoscenza degli usi e dei costumi tradizionali dei "pellerossa" anche per gli indiani odierni molti sono i miti da sfatare e le cortine fumogene da diradare, unica condizione questa perché il problema indiano venga compreso nelle sue complesse sfaccettature e la solidarietà ai militanti indiani sia una reale e critica solidarietà rivoluzionaria e non un più o meno nascosto pietismo venato di curiosità eccentrica.

Le condizioni sociali

Un indice di mortalità infantile fra i più alti del mondo ed una durata media della vita fra le più basse (circa 40-45 anni contro i 60-65 di prima della colonizzazione bianca); la presenza di malattie infettive debellate in ogni altra parte del globo (il Servizio Sanitario per gli Indiani è servito solo a distruggere quel che restava della efficace medicina indiana tradizionale) ed un reddito pro-capite bassissimo, insufficiente a garantire la stessa sussistenza (da cui l'origine delle patetiche messe in scena ad uso dei turisti), unito alla disoccupazione generalizzata, all'impressionante numero dei suicidi e degli alcolizzati; la generale denutrizione e le morti per fame, soprattutto d'inverno, mostrano efficacemente come nel cuore del paese più ricco e industrializzato del mondo esista un "pianeta indiano" costretto a livelli di vita sub-umani, per molti aspetti inferiori anche a quelli di molti popoli del terzo mondo. Con tutti i diritti, quindi, gli indiani possono affermare: "Noi viviamo nell'ingiustizia. I nostri diritti vengono calpestati. Non abbiamo nessun pligth, o condizione causata dal bere; abbiamo l'alcolismo come prodotto di un'ingiustizia. Non abbiamo una "condizione" provocata della povertà; la nostra povertà è causata dalle ingiustizie. Non abbiamo un "problema" di suicidi; abbiamo dei suicidi prodotti dall'ingiustizia sociale. E l'ingiustizia è conseguenza del comportamento dei bianchi" (da L'effetto del colonialismo sulla vita degli indiani, in "Akwesasne Notes", autunno 1974).

Come è noto i colonizzatori bianchi (non contenti del genocidio attuato con lo sterminio di intere tribù non hanno rispettato uno solo dei 370 trattati firmati dal governo USA con altrettante NAZIONI E TRIBÙ INDIPENDENTI ed hanno sistematicamente rubato agli indiani circa 500 milioni di ettari della terra delle "riserve" (1) e le risorse che nelle riserve si trovano sino a giungere al progetto, caldeggiato dal difensore dei diritti umani Jimmy Carter, di togliere agli indiani (fatti diventare a forza, qualche anno fa, cittadini degli Stati Uniti) anche i pochi diritti loro rimasti sulle terre, sulla caccia e sulla pesca nelle riserve (contro questo progetto si è svolta la "Lunga Marcia" dell'agosto 1978). L'organismo che ha patrocinato per conto del governo le ruberie è stato, ed è, il BIA (Bureau of Indian Affairs) che ha sempre cercato di smembrare le 400 tribù scampate al genocidio favorendo, con promesse di lavoro mai mantenute, l'inurbamento nei ghetti delle grandi città (2); ha patrocinato la sterilizzazione praticata, a loro insaputa, a circa 500.000 donne indiane e meticce: ha fatto ogni sforzo per distruggere la cultura tradizionale indiana incarcerando e perseguitando i "leaders tradizionalisti", facendo nel contempo nascere nelle riserve scuole e chiese in cui inculcare agli indiani la cultura e la religione dei bianchi, impedendo contemporaneamente il sorgere di scuole indiane autonome.

Il BIA ha soprattutto cercato di distruggere le organizzazioni sociali indiane, quasi sempre improntate ad uno spirito libertario ed egualitario, imponendo alle tribù dei governi definiti (la forma va sempre salvata) "consigli tribali" e composti da individui graditi al BIA ed eletti, tramite "elezioni democratiche", tra gli indiani ed i meticci già integrati completamente nel sistema bianco. A queste elezioni non hanno mai preso parte che infime minoranze di indiani già coinvolti nel sistema bianco. La gran parte degli indiani delle riserve, oltre a non sentirsi coinvolti da queste elezioni, non possono prendervi parte perché di essi solo il 35-40% conosce l'inglese, tutti gli altri parlano solo la lingua tribale.

Corollario necessario di tutte le manovre governative è sempre stata, ovviamente, la repressione poliziesca attuata ad ogni minimo pretesto (ed accompagnata dal razzismo di gran parte delle popolazioni bianche stanziate vicino alle riserve) e diretta principalmente contro i militanti tradizionalisti che non hanno accettato di piegarsi alle decisioni governative.

I movimenti indiani

Contrariamente a quanto spesso si crede, dopo l'epoca delle "guerre indiane" la rivolta non cessò ed una resistenza indiana ha sempre continuato ad operare con vari mezzi, dalla resistenza passiva agli atti di guerriglia, tendendo sempre non all'integrazione nel mondo dei bianchi ma alla conservazione delle culture e delle strutture sociali tradizionali. Solo negli ultimi anni però la resistenza indiana è riuscita a far parlare di sé la stampa americana e, con l'occupazione di Alcatraz del 1969 e con quella armata di Wounded Knee del 1973, quella internazionale. Animatore di queste lotte, così come delle lotte indiane più importanti degli ultimi anni, è stato l'AIM (American Indian Movement) che, fondato da alcuni studenti indiani nel 1968, ha ben presto avuto larghi appoggi nella quasi totalità delle tribù indiane. L'obiettivo dell'AIM (che pubblica il giornale "Akwesasne Notes") è di far sì che ogni tribù possa riorganizzare la propria vita in maniera del tutto indipendente, e per questo si batte strenuamente contro i "consigli tribali" imposti dal BIA (3), contro ogni ingerenza governativa nelle riserve, per l'immediata scarcerazione di tutti i militanti indiani colpiti dalla repressione, cercando contemporaneamente di riavere le terre confiscate e di salvaguardare le culture tradizionali. Altri gruppi di attivisti indiani non condividono completamente gli obiettivi dell'AIM ed agiscono esclusivamente per migliorare le condizioni dei nativi senza però mettere in discussione la presenza governativa nelle riserve.

È questo il caso di varie tribù aderenti al Council of Energy Rich Tribes (Consiglio delle tribù Ricche di Energie), un'organizzazione costituita sul modello dell'OPEC, il cui obiettivo principale è la rinegoziazione dei prezzi - molto bassi - con cui le compagnie USA pagano le materie prime situate nei territori delle riserve. A mezza strada fra le posizioni fin qui esposte stanno alcune tribù che - come alcuni gruppi di Pueblo o di Seminole - sono riusciti a mantenere nel tempo un certo grado di autonomia, sempre difesa strenuamente, che li porta spesso ad interessarsi solo marginalmente ai problemi delle tribù più oppresse. Un discorso a parte va poi fatto per le tribù della Lega Irochese che, pur se divise geograficamente (alcune tribù risiedono negli USA altre nel Canada), sono riuscite a mantenere salda la loro unione federalista respingendo ogni ingerenza governativa e conservando moltissime prerogative di una nazione autonoma. A favorire questo fatto hanno concorso sia la relativamente buona situazione economica delle tribù Irochesi - che, grazie ai lavori in legno e di carpenteria pesante, godono di un livello di vita più alto delle altre tribù - sia il fatto di essere uno dei gruppi etnici più numerosi. Tutto questo non ha impedito però che gli Irochesi - comprendendo che l'unica soluzione ai problemi indiani sta nel lottare uniti contro l'establishment americano - si interessassero ai problemi delle altre tribù. Entrati nel vivo delle lotte, essi hanno posto tutto il loro peso politico a favore del nuovo movimento indiano: la Lega Irochese ha, fra l'altro, portato la sua voce anche all'ONU, ed è stata, all'inizio degli anni '60, una delle prime organizzazioni americane a prendere contatto con la Cuba castrista prima dell'involuzione autoritaria della rivoluzione.

L'acquisizione della visione internazionalista è stata, fra l'altro, un grande passo avanti nelle concezioni indiane, da sempre "malate" di tribalismo, e si è tradotta in molte iniziative pratiche, fra le quali l'appoggio alla lotta contro lo sterminio delle tribù amazzoniche, per la difesa degli animali minacciati di estinzione anche fuori dal l'America e la promozione, due anni fa, di un convegno dei "popoli nativi" (indiani del Nord e del Sud America, eschimesi, lapponi, alcune tribù africane) al fine di dar vita ad una strategia comune contro i colonizzatori/dominatori.

Unità nella diversità

Data la persistente frammentarietà e la costante scarsità delle notizie che giungono in Italia e data l'inesistenza di contatti stabili fra i movimenti indiani ed i rivoluzionari italiani è impossibile dare, da un punto di vista libertario, un giudizio preciso sui movimenti e sulle lotte dei "pellerossa".

Questo fatto non può però evitare che su qualche aspetto delle lotte alcune valutazioni critiche vengono fatte, tenendo presente che esse - così come la sommaria analisi fin qui esposta - sono sempre sottoponibili a verifiche e revisioni alla luce di nuove notizie e chiarimenti.

Dal punto di vista anarchico la prima nota critica va fatta a proposito dell'"unità nella diversità" dei diversi movimenti indiani. Se questa unità è infatti utile ed auspicabile nella situazione attuale, caratterizzata dalla forte repressione dei militanti e da un incrudimento su tutti i fronti dell'offensiva governativa, non è possibile fare a meno di notare che esiste una grossa contraddizione fra i fautori della totale autonomia delle tribù e coloro che, più o meno chiaramente, accettano l'ingerenza del governo USA nella vita tribale. Questo genere di contrapposizione, che si è spesso posto in passato, è assai pericoloso se si considera che è spesso servito da pretesto per gli interventi repressivi del governo contro i "tradizionalisti" ed ha contribuito a minare dall'interno l'esito di molte lotte poiché, come è facile intuire, la presenza nella vita tribale di indiani fiduciosi di poter convivere col governo dei colonizzatori è servita come elemento di divisione delle tribù col conseguente rafforzamento del BIA. La soluzione che i movimenti "trattatisti" prospettano, inoltre, non risolverebbe alcunché del problema indiano - che è un problema razziale, etnico e culturale ma anche un problema di classe dal momento che gli indiani sono, nella quasi totalità, i più poveri fra i poveri - e servirebbe solo, nella miglior ipotesi, a rendere un po' meno squallida la vita dei "pellerossa" senza ridare loro la libertà. L'unica soluzione realistica è quindi, per chi scrive, quella che vuole per gli indiani una nuova indipendenza in cui, senza rifiutare le innovazioni tecniche utili e non illudendosi certo di poter vivere ancora con la caccia e la pesca, ritornare all'originario modo libero ed ecologico di vita.

Il riesame dei mezzi finora usati per sostenere le loro richieste rappresenta l'altro grosso problema, in gran parte ancora irrisolto che i movimenti indiani devono sciogliere, soprattutto ora che, per contrastare efficacemente l'offensiva del governo, non possono disperdere energie e fondi in mille iniziative spesso slegate e contraddittorie. Infatti, mentre molti militanti scendevano direttamente e risolutamente in campo - con l'occupazione di edifici del BIA, di Alcatraz e di Wounded Knee- altri attivisti, fidando nella legge, intentavano una serie infinita di cause legali al governo USA per ottenere da esso il rispetto dei trattati, la restituzione delle terre, la liberazione dei detenuti, il risarcimento dei danni subiti. Molte speranze erano riposte in queste cause ma i risultati, pochi e parziali (come, ad es. l'autorizzazione per l'apertura di alcune scuole indiane, sempre sotto il controllo BIA), non hanno in nulla migliorato la condizione delle tribù. L'arma delle cause legali si è rivelata, inoltre, a doppio taglio poiché se da un lato ha dato pubblicità al problema indiano (soprattutto le prime cause), dall'altro le molte sentenze negative hanno scoraggiato molti militanti facendo rifluire delle lotte che, se condotte con altri mezzi, potevano sortire migliori effetti.

A questa battuta d'arresto va aggiunta la repressione che sempre più duramente colpisce i militanti indiani - molti di loro (più di 200) sono in carcere e molti sono pure i latitanti - e che non può certo essere fermata da cause in tribunali per lo più razzisti. In questo panorama, per molti versi scoraggiante, alcuni elementi recentemente emersi lasciano però sperare. Il più importante di questi è il rafforzarsi, soprattutto in seno all'AIM, della corrente che non nutre alcuna speranza nelle leggi dei bianchi e ritiene pertanto che l'azione diretta, al di fuori e contro ogni istituzione, sia l'unica strada realistica (4). Questa nuova coscienza ha fatto sì che molti militanti costretti alla clandestinità non abbandonino più le riserve ed invece di allontanarsi dal luogo delle loro attività vi restino rispondendo per le rime alle provocazioni ed alla caccia spietata della polizia e del BIA.

Per concludere è quindi necessario notare che, pur se il panorama dei movimenti indiani rimane ancora contraddittorio, le tendenze libertarie presenti in tante società tradizionali stanno riaffiorando a tutti i livelli ed a esse non può che andare, al di là delle necessarie messe a punto, la nostra solidarietà ed il nostro appoggio, non solo morali ma anche, per quanto è possibile, sostanziali.

Note

1) Il furto "legale" della terra delle riserve è cominciato col "Decreto di lottizzazione Dawes" del 1887. Questo decreto assegnava, introducendo così la proprietà privata in molte società indiane, 80 ettari ad ogni capo famiglia ponendoli, contemporaneamente, sotto la tutela del governo. La terra rimasta in "sovrappiù" dalla divisione venne venduta dal governo ai coloni bianchi.

2) Più della metà del milione di indiani puri e quasi tutti i cinque milioni di meticci vegetano nei ghetti di Los Angeles, Okhlaoma City, San Francisco, Phoenix, New York.

3) L'occupazione di Wounded Knee nel 1973 fu attuata dagli Oglala Sioux per cacciare il "consiglio tribale" comandato dal meticcio Dick Wilson, noto tirapiedi del BIA. Durante i 71 giorni in cui durò l'occupazione tutti i servizi vennero autogestiti e gli Oglala riorganizzarono in una terra libera la loro tribù in maniera tale che "il governo della nazione Oglala indipendente era formato da TUTTI i residenti" (dichiarazione di una donna Oglala partecipante all'occupazione).

4) "Si fa un gran parlare di metodi legali, di leggi. Ma io non credo che ci restino molte speranze, se dobbiamo dipendere dalle leggi dei bianchi. Non mi pare che ci sia da essere ottimisti se dobbiamo fidarci della comprensione dei bianchi. In tutta la storia della sua civiltà ha sempre creato un governo e poi ha costretto il popolo a ubbidire a quel governo. Questo è sempre stato il suo sistema" (da Dobbiamo impegnarci sino in fondo di John Trudell, in "Akwesasne Notes").

"Il Movimento degli Indiani d'America è un movimento che va oltre la richiesta di riforme del sistema elettivo o giuridico" (La sovranità che cerchiamo può essere reale di Sotsisowah in "Akwesasne Notes") "come individui e come gruppo dobbiamo acquistare un autentico controllo delle nostre terre non come consigli tribali elettivi, ma come popoli decolonizzati" (idem).