Rivista Anarchica Online
Tutto il potere ai nuovi mandarini
di A. B.
Esce in questi giorni, nella nuova collana "segno libero" delle Edizioni Antistato (C.P.3246,
Milano), "Gli abiti nuovi del presidente Mao", di Simon Leys, una cronaca dissacrante della
cosiddetta rivoluzione culturale. Questo libro, scritto con stile agile ed arguto - particolarmente
gustose sono, in appendice, le biografie di una trentina di dirigenti cinesi - ma sorretto da un
eccezionale supporto documentario di prima mano, è stato un best-seller in Francia, dove ne sono
già state fatte tre ristampe, tra il 1971 ed oggi - L'edizione italiana è arricchita da "tre post-scriptum" di aggiornamento aggiunti dall'autore in epoche successive fino al febbraio 1977 -
Pubblichiamo qui di seguito la presentazione editoriale al pubblico italiano
All'XI congresso del PCC (agosto 1977), Hua Kuo-feng ha dichiarato che "con l'annientamento della
banda dei quattro viene proclamata la fine vittoriosa della prima grande rivoluzione culturale proletaria
del nostro paese, che è durata undici anni". Già nel '69 era stata annunciata, a dire il vero, la "vittoria
totale e definitiva" della rivoluzione culturale. Poi, nel '74, Mao aveva affermato che dopo otto anni di
rivoluzione culturale era ora di porvi fine. Come osserva argutamente Leys, la rivoluzione culturale è
come un cattivo oratore che vorrebbe concludere il discorso ma non sa come: annuncia venti volte la
fine e annunciandola riparte con una nuova frase. "Non essendo riuscita ad instaurare il 'nuovo potere'
che si proponeva di stabilire, non riesce ad accettare il fallimento, ma nello stesso tempo non è
neppure in grado di tornare all'attacco".
Se ora il successore di Mao, l'ex ministro di polizia Hua (il Beria cinese, come qualcuno l'ha definito),
può decretare ufficialmente la fine della rivoluzione culturale, è proprio perché essa può dirsi
definitivamente sconfitta, con la morte fisica e politica di Mao (1) e con l'eliminazione politica e forse
fisica (esempio: il suicidio - o "suicidio" - in carcere di Mao Yuan-hsin, nipote prediletto del defunto
imperatore) degli ultimi personaggi che avevano promosso la rivoluzione culturale o ne erano stati
promossi: la "banda dei quattro", appunto. Fine vittoriosa? Sì, ma - ennesima cineseria - vittoriosa per
coloro contro i quali era stata scatenata.
L'ufficio politico del comitato centrale del PCC uscito dall'XI congresso è composto di 23 membri, di
cui 12 sono ufficiali superiori dell'esercito, della marina e dell'aviazione e gli altri sono tecnocrati ed alti
funzionari dell'amministrazione. L'età media è di 68 anni.
Il nuovo politburo esprime anche attraverso la sua composizione le scelte fondamentali dell'XI
congresso: ordine, disciplina, sviluppo produttivo, ripristino dell'autorità e del prestigio gerarchico.
Ancora più significativa, se è possibile, la composizione del "comitato permanente" del politburo,
suprema istanza del potere. Composto di 5 membri, esso comprende, oltre a Hua, l'ottantenne
maresciallo Ye Janying, il tre volte silurato e tre volte riabilitato Teng Hsiao-ping (pragmatico
economista, ex braccio destro di Ciu), un altro pianificatore ed ex collaboratore di Ciu, Li Hsien-nien,
ed il generale Wang Dongxing, comandante della famosa unità 8341 (50.000 pretoriani, destinati alla
difesa dei più alti dirigenti). Vecchi sbirri, tecnocrati e burocrati con o senza galloni si dividono il potere,
a coronamento di undici anni di agitazione delle masse e di mobilitazione dei giovani!
In realtà, come scriveva già nel '69 Leys, la "rivoluzione culturale proletaria" non era né culturale, né
proletaria, né rivoluzionaria. Certo, questo era scontato per chi, come gli anarchici, consapevole della
reale natura di classe della dittatura sul proletariato, guardava con diffidenza alle vicende cinesi e con
ripugnanza al culto maoista. Però la "cronaca" di Leys ne dà una documentazione ampia e convincente
per chiunque voglia conoscere e capire la realtà. Inoltre fornisce una chiave interpretativa delle
convulsioni interne al potere cinese che rende comprensibili in un quadro complessivo anche vicende
anteriori (il Grande balzo in avanti, i Cento fiori, ecc.) e successive (la liquidazione di Lin Piao, la
campagna contro Confucio, la "banda dei quattro", ecc.) a quella che è stata la rivoluzione culturale in
senso stretto (gli anni '67-'69) e che è l'oggetto specifico di questo volume. Quegli anni infatti hanno
costituito un momento nodale, la cui conoscenza demistificata è indispensabile per decifrare tutta la
storia cinese contemporanea.
Gli abiti nuovi del presidente Mao (con cui si apre una nuova collana Antistato, nella quale saranno
pubblicati contributi culturali di segno libertario) sono stati il primo studio obiettivo e perciò dissacrante
della più grossa mistificazione cultural-politica degli ultimi dieci anni, una mistificazione cui s'è prestata
gran parte della "intellighenzia" europea di destra, di sinistra e di estrema sinistra. Con questo libro e con
il successivo Ombres chinoises (2), Leys s'è attirato odio e calunnie, com'era prevedibile, ma ha aperto
la strada a successivi (pochi, ma tutt'altro che insignificanti) studi demistificanti sulla realtà del maoismo
e sulla struttura di classe in Cina (3).
Niente rivoluzione, dunque, ci dice o meglio ci conferma Leys, bensì formidabile manipolazione delle
masse (e soprattutto dei giovani) finalizzata a lotte di potere in seno al vertice della "burocrazia rossa".
E nemmeno lotta tra una "destra" (i moderati, i Liu Shao-ci, i Ciu En-lai, i Tenh Hsiao-ping,...) ed una
"sinistra" (i radicali, i Mao, i Ciang Cing, i Cen Po-ta,...). Non nel senso di "sinistra" come socialismo
vero, come aspirazioni egualitarie e libertarie delle masse sfruttate: non nel senso di "destra" come
collettivismo burocratico, come interessi della classe dominante. In questo senso sia i "moderati" sia i
"radicali" erano entrambi di destra. E se per destra si intende il ritorno del capitalismo e per sinistra la
dittatura sul proletariato, allora erano entrambi di sinistra. In breve, erano due espressioni della
medesima classe dominante tecnoburocratica.
Né libertà né uguaglianza
Certo, nella rivoluzione culturale si sono espresse, in qualche misura, anche le classi sfruttate e sono
emerse, in qualche misura, anche genuine spinte antiburocratiche. Ma si è trattato di una potenzialità
rivoluzionaria appena emersa e subito repressa o deviata su falsi obiettivi prima che la mobilitazione
teleguidata dal Palazzo si rivolgesse contro il Palazzo stesso cioè contro il potere burocratico e non
contro una frazione di esso.
Controprova: che cos'è mutato in Cina dopo la rivoluzione culturale per i contadini, per gli operai, per
i giovani? Che cos'è mutato in termini di libertà e di uguaglianza? Assolutamente nulla. E non perché
abbiano vinto gli uni anziché gli altri, ma perché la libertà e l'uguaglianza non erano tra gli obiettivi né
dei "radicali" né dei "moderati".
In termini di libertà. La Cina era e resta lo stato più totalitario dei nostri giorni. Il proletario cinese è solo
spettatore e a volte comparsa (quando lo si mobilita dall'alto, perché non gli è nemmeno lecito
disinteressarsi del potere da cui è escluso) di tutte le decisioni politiche, economiche, ideologiche.... Il
proletario cinese non è libero di scegliersi il lavoro o il luogo di residenza che vuole e non può neppure
muoversi da una provincia all'altra senza un lasciapassare (quando, del resto, potrebbe farlo, dal
momento che non ha diritto a ferie e che non può lasciare il posto di lavoro?). Il proletario cinese non
è nemmeno autorizzato a pensare altrimenti che attraverso i miserabili stereotipi di linguaggio e di logica
del mao-tse-tung-pensiero.
In termini di uguaglianza. Il reddito medio in agricoltura (10 yuan al mese) è 1/4-1/5 del reddito medio
nell'industria (e si capisce allora perché il contadino debba essere tenuto incatenato alla comune per forza
di legge, come un servo della gleba: per impedirgli di fuggire in città). All'interno di un'industria di medie
dimensioni il reddito mensile può variare dai 20 yuan per l'apprendista ai 320 per l'ingegnere. All'interno
dell'università un giovane assistente prende 50 yuan al mese ed un professore barone 340.
Nell'amministrazione statale il reddito del gradino più alto (728 yuan al mese) è addirittura trentasei volte
quello del gradino più basso! D'altro canto l'egualitarismo è sempre stato considerato un'eresia dal
marxismo-leninismo-maoismo. Già nel periodo dello Yenan (anni '40), descritto come l'età eroica e
fraterna della rivoluzione combattente, c'erano compagni "più uguali degli altri" se è vero, come si legge,
che c'erano tre categorie di vestiario e cinque livelli di qualità del cibo (4).
I mandarini rossi
Libertà ed uguaglianza! La realtà è che i burocrati rossi sono asfissianti come ogni burocrazia al potere
e godono di privilegi come ogni classe dominante. Precisiamo. Quando parliamo di burocrazia come
classe dominante in Cina (ed in ogni altra versione nazionale del "socialismo" di stato) intendiamo
proprio riferirci al dominio sociale di una classe e non alla dittatura di un partito: i due fenomeni sono
sovrapposti ma non coincidenti. È vero che, ai massimi livelli, gerarchia del partito e gerarchia dello stato
sono tutt'uno, ma il partito è solo una forma che assume la burocrazia dominante. Lo si è visto in Cina
proprio nel quinquennio '67-'71, quando il partito, fatto a pezzi dalla rivoluzione culturale, era pressoché
inesistente. Quando i pezzi, a partire dal '69, sono stati recuperati e rincollati, s'è ricostituita una struttura
di potere quasi identica a quella precedente, ma resta il fatto che per cinque anni la burocrazia cinese ha
continuato a dominare anche senza partito su 850 milioni di cinesi. Beninteso, non tutta la burocrazia
intesa in senso lato è classe dominante. I venti milioni circa di burocrati cinesi, articolati in 30 gradi
gerarchici minuziosamente definiti, ognuno dei quali dotato di privilegi e prerogative specifiche vanno
nella stragrande maggioranza a costituire il ceto medio della Cina di oggi. La vera classe dominante è
costituita solo dagli alti e altissimi dirigenti che controllano, cioè di fatto possiedono, i mezzi di
produzione e di distruzione.
I "mandarini rossi" godono oltre che di elevati redditi, di una serie di privilegi accessori, di cui il più
curioso e tipicamente cinese è forse l'uso dell'automobile. In Cina non vi sono che automobili
"mandarinali": tutti i mandarini e solo i mandarini usano l'automobile (con l'autista, beninteso). Il
modello, il colore e le dimensioni del veicolo variano in funzione della posizione gerarchica dell'utente:
al basso della scala si trovano auto di media taglia beige o grigie, in cima ci sono le lunghe limousine
nere, marca Hong qi, tutte chiuse da tendinei di tulle che sottraggono il passeggero allo sguardo del
volgo.
Ma, ammettiamolo, la grande rivoluzione culturale qualcosa ha cambiato... non nella stratificazione
sociale, ma nei suoi segni esteriori. Lasciamo la parola a Leys (5). "Nelle ferrovie, nominalmente sono
state soppresse le classi (prima, seconda, terza) e sono state sostituite dalle categorie "sedie rigide",
"sedili rigidi" e "sedili molleggiati", che corrispondono esattamente alle tre classi precedenti, anche nei
prezzi. Anche i segni esterni dei gradi militari sono quasi scomparsi, però gli ufficiali hanno una casacca
a quattro tasche ed i sottufficiali semplici una a due. Perciò un colonnello che viaggia in prima è
diventato un militare a quattro tasche che viaggia su "sedili molleggiati"... con un militare a due tasche
che gli porta rispettosamente la valigia. In città si distinguerà inoltre, tra i militari a quattro tasche, in
ordine decrescente d'importanza, quelli che hanno diritto ad una jeep, quelli che viaggiano in limousine-nera-con-tendine e quelli che viaggiano in limousine-nera-con-tendine-preceduta-da-una-jeep...".
Non c'è bisogno d'essere anarchici per capire che il socialismo è un'altra cosa.
(1) Si veda, sugli ultimi mesi del regno di Mao: Cheng Ying-hsiang e Claude Cadart, Les deux morts de
Mao Tse-tung, Editions du Seuil, Parigi 1977.
(2) Simon Leys, Ombres chinoises, Union géneral d'editions, Parigi 1974.
(3) Suggeriamo la lettura di quello che, a nostro avviso, è il più interessante tentativo di interpretazione
globale: Claude Cadart, "Une dictature de bureaucratie nouvelle", in Regards froids sur la Chine,
Editions du Seuil, Parigi 1976.
(4) Simon Leys, op. cit., pagg.183-189.
(5) Simon Leys, op. cit., pagg.174-175.
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