Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 52
novembre 1976 - dicembre 1976


Rivista Anarchica Online

Sul Parco Lambro

Partiamo un momento dall'esperienza del Parco Lambro, intervenendo nel dibattito comparso su "A" n. 6, e cerchiamo di sottolineare certe contraddizioni che ci sembrano emergere ma che non risultano sufficientemente individuate.

Cinque compagni anarchici discutono sul "fenomeno" di quanto accaduto al Parco Lambro e arrivano alla conclusione, più o meno sfumata, che bisogna abbandonare il purismo per farsi intendere, altrimenti, questa grande massa del rifiuto e dell'assenteismo, entrambi dettati dalla delusione, resterà sempre tagliata dal resto, ancora più grande, cioè dalla massa operaia e contadina che continua tranquillamente a lavorare. E quest'opera di congiungimento deve anche essere compito degli anarchici i quali devono riflettere criticamente, per prima cosa, sul modo politico "tradizionale" di porsi verso il movimento operaio.

A nostro giudizio, almeno così come appare nel dibattito pubblicato, è possibile cogliere delle sfumature sottaciute, degli sbocchi non affrontati con la dovuta energia e chiarezza. Che cosa rappresenta questa grande massa che si è riversata a Parco Lambro? Perché è diversa da quella di sempre? Perché questa esplosione momentanea? Perché la richiesta assurda di soddisfacimenti immediati? Perché il fallimento (o l'impotenza) delle iniziative di animazione? Perché la caoticità?

È su queste domande che vorrebbe avanzare il nostro contributo.

Bisogna fare una piccola premessa. Nel cappelletto editoriale anteposto al dibattito, la redazione di "A" ritiene necessario farci apprendere che al Festival, quest'anno, erano presenti anche gli anarchici (accanto ad altre organizzazioni della sinistra, più o meno, rivoluzionaria) e che la presenza degli "anarchici si è concretizzata, oltre che nell'attiva presenza di nostri compagni in tutte le commissioni promotrici di varie iniziative (Radio Lambro, animazione, cultura e dibattiti, musica, ecc. ecc.), in due stands: uno librario ed uno gastronomico. Quest'ultimo, in particolare, ha servito nell'arco di quattro giorni circa cinquantamila pasti, funzionando in media 18 ore ogni giorno ad un ritmo davvero frenetico, grazie alla spontanea ed entusiastica collaborazione di decine di compagni di ogni parte d'Italia con i compagni lombardi responsabili dello stand stesso".

Questa nota ci turba parecchio. Non che non ammiriamo l'organizzazione, specie quando emerge spontaneamente ed entusiasticamente dal nostro interno (per solito non molto propenso a lavorare 18 ore al giorno), non che non riteniamo indispensabile mangiare un pasto al giorno perché non siamo asceti, ma il fatto è che questo soffermarsi sull'aspetto organizzativo ci pare un sintomo di come si possa essere andati molto vicino al rischio di accostarsi al grosso problema che il Festival nascondeva senza coglierne il senso intimo e (perché no?) rivoluzionario. Non diciamo che questo è accaduto, diciamo solo che può essere stato possibile, nell'affannosa necessità di mettere insieme cinquantamila pasti in quattro giorni, travisare la realtà del fenomeno a causa del fumo delle pentole. Certo, la lettura del dibattito pubblicato avrebbe potuto schiarire questo dubbio, ma non l'ha fatto. I cinque compagni non sono riusciti ad indicarci la strada interpretativa che, secondo noi, può darci conto della realtà, così come si è manifestata nel corso della manifestazione.

Si è sollevato il problema della comunicazione, problema centrale, che potrebbe aiutarci a trovare una risposta alle nostre precedenti domande. Se dobbiamo comunicare dobbiamo sapere a chi. E il compagno Luciano ci fa sapere che ad essere presenti non erano elementi del "proletariato giovanile", ma un insieme di gente dal deluso all'incazzato, al rivoluzionario militante, al curioso. Certo, è almeno poco probabile comunicare con questo insieme eterogeneo.

Gabriele ci dice che non c'è stata una presa di coscienza a livello di massa, ma che i sottoproletari dell'hinterland milanese e del meridione c'erano. Massimo che tutta questa gente cercava di avere ciò che il Festival non poteva dare: un soddisfacimento immediato dei propri bisogni fisici e di felicità. Risultato, continua Massimo, mancanza di prospettive e di chiarezza, che si trasforma in questo ribellismo, in questo malcontento generale che investe tutte le strutture. Quindi non c'è nulla da comunicare. Luciano, inverte il problema e sostiene la possibilità di una comunicazione ad un numero necessariamente limitato di persone, sebbene la rabbia (che si poteva quasi toccare) non possa trasformarsi in rivolta e volontà rivoluzionaria proprio perché priva della necessaria coscienza.

La conclusione, sia di Massimo che di Luciano, è stranamente concorde, i giovani proletari (e qui ritornano ancora i proletari) esprimono dei bisogni che nessun tipo di linea rivoluzionaria è in grado non dico di soddisfare, ma neanche di inglobare all'interno di una strategia (Massimo). Quindi, il porsi in modo politico tradizionale verso il movimento operaio cozza contro un muro di incomprensione, perché il movimento operaio ha accettato in pratica di delegare la sua volontà di lotta ai sindacati ed ai partiti della sinistra, quindi il fare politica nel modo tradizionale con questi giovani non serve (Luciano).

Il problema centrale di tutto ciò sembra essere la persistente necessità di individuare una geografia politica dell'intervento anarchico, un arco in cui le organizzazioni del movimento anarchico possano entrare in contatto con gli sfruttati suggerendo la propria strategia. Il rapporto movimento anarchico/masse sfruttate e loro frange più o meno ribelliste, viene visto come rapporto tra una minoranza che ha raggiunto certe chiarezze e maggioranza che (per motivi precisi) questa chiarezza non riesce a trovare da sola. "Questa gente sta sfuggendo, ma in una maniera un po' pericolosa, cioè in un senso che per il movimento rivoluzionario in questo momento è irraggiungibile", dice Massimo, e noi chiediamo: pericolosa, ma perché? e per chi? Per gli sfruttati stessi o per la minoranza rivoluzionaria che rischia di perdere il contatto? La gente sfugge perché ha piene le tasche di strategie più o meno avanzate, di programmi rivoluzionari o pseudo tali, di retorica e di bandiere, la gente sfugge a tutto ciò perché l'arco di slancio qualitativo realizzatosi intorno e dopo il '68 si è quasi del tutto concluso, perché il perbenismo e il più bieco conformismo hanno catalogato atteggiamenti e parole, suoni e speranze, sigle e bandiere. Se la gente sfugge tutto ciò non è facile dargli torto. Quindi, sembrerebbe che il pericolo visto da Massimo non riguardi il fatto che la agente sfugge, ma che sfugga proprio al contatto con coloro che avevano preteso indirizzarle (badiamo bene, anche con le migliori intenzioni del mondo, che qui non vogliamo individuare avanguardie o mosche cocchiere), e non sappiamo quanto, nell'intervento di Massimo, sia rintracciabile la preoccupazione che la necessità di recupero sia tale non tanto per le masse (povere e abbandonate a se stesse e al loro bieco ribellismo) quanto per la minoranza agente che non riesce a far propri i bisogni espressi da questi "giovani proletari". E se il punto dolente è in quest'ultimo senso, la cosa ci pare un poco preoccupante.

A nostro avviso, non è di principale importanza il problema di come riportare il movimento rivoluzionario al di dentro delle istanze degli sfruttati, come qualcosa che, per propria naturale collocazione deve starci comoda; donde poi la meraviglia del perché spesso le istanze degli sfruttati risultino del tutto contrarie alle diverse strategie disegnate dai rivoluzionari; quanto importante l'altro problema, come costruire un movimento che emerga dalle istanze stesse degli sfruttati e non sia localizzabile altrove e bisognoso di locomozione.

Se, come dice Luciano, "L'area del dissenso radicale non è occupata, in termini anche fisici, da nessuna organizzazione rivoluzionaria", ciò non deve farci concludere per l'ingovernabilità di questo dissenso, per suo bruto ribellismo, e per la necessaria operazione di pilotare questo dissenso verso il suo naturale sbocco nel gran mare del movimento operaio organizzato, quello che poi resta sotto l'egemonia sindacale e partitica. Questo dissenso non aspetta il nostro intervento in qualità di anarchici, anche se poi gli anarchici sono - come giustamente sottolinea Luciano - "l'espressione più genuina della rivolta spontanea e del progetto di autogestione della vita in ogni suo aspetto". Non aspetta proprio perché la sua rivolta è di natura spontanea e non ha bisogno che gli venga riconosciuta da coloro (gli anarchici) che si definiscono "l'espressione più genuina della rivolta spontanea". Per cui, se non si abbattono certi equivoci, questi continueranno a ritenersi i contrassegnati delle stimmate della spontaneità e dell'autogestione, mentre, nella realtà concreta, coloro che realizzano le condizioni della rivolta sono fasce consistenti di sfruttati che, con ogni probabilità, non hanno mai sentito parlare di anarchismo. È, ancora una volta, il classico problema della chiusura teorica.

Riteniamo che nessuno dei compagni possa accettare una conclusione di chiusura verso la problematica della ribellione spontanea, anche nei termini in cui è stata imposta dai fatti del Parco Lambro.

Ma battersi per eliminare gli equivoci significa fare chiarezza anche riguardo le prospettive del movimento anarchico e i modi di realizzarle. La ribellione non può essere fatta entrare a forza dentro schemi precostituiti, non può accettare di diventare gradevole al palato di questa o quella linea politica, è per definizione un fatto esplosivo, giovanile, multiforme, continuamente in movimento, capace di grandi modificazioni, dissacratorio, sgradevole, critico, radicale. Ma la sua nota più peculiare è la gioventù. La ribellione è fatto giovanile, elabora schemi d'azione che sono fatti per i giovani, che assumono significato all'interno della classe ma che restano patrimonio chiaramente comprensibile quasi esclusivamente per i giovani. La strategia organizzativa, spesso, è fenomeno teleologico, quindi senile, cauto, attento alle conseguenze, prudente, pesante, politico. Il contrasto emerge in piccoli spunti più che in chiare dichiarazioni. La ribellione non può essere fatta entrare all'interno di una strategia rivoluzionaria. Ecco la conclusione del discorso, e siccome siamo rivoluzionari e non ribellisti, siamo per la senilità e non per la gioventù. Conclusione sconcertante, che viene rigettata non appena emerge alla superficie, per cui siamo vecchi che vogliono apparire giovani e strateghi rivoluzionari (o che si reputano tali) che vogliono spingere in un senso o in un altro la carica di rivolta che individuano in certi strati di sfruttati.

La realtà è che l'esplosione di rabbia e di rivolta degli sfruttati, raggiunto un certo livello e in una certa situazione che convoglia questo livello su obiettivi fisici precisi, anche se politicamente approssimativi, diventa "gioia", la nota costante della rivoluzione, per come indicava, se non andiamo errati, lo stesso Bakunin. E la gioia è fatto qualitativo che travolge il rapporto quantitativo di crescita organizzativa, che impedisce il dipanarsi della tiepida vicenda dell'assommazione minoritaria all'interno di certe strutture portanti, siano pure sacrosantemente antiautoritarie e aliene da ogni desiderio di prevaricazione. E la gioia non è "una nuova pratica politica", ma è il cominciamento della rivoluzione, il fatto primigenio della rivolta, la decisione personale ed autonoma che le prospettive della collettività non possono segnare l'orizzonte costrittivo delle esigenze dell'individuo, anche quando si presentano come elementi del comunismo libertario.

Accostarsi al grave problema suggeritoci dai fatti del Parco Lambro non significa accettare in blocco qualsiasi elemento ribellistico, come viene presentato dalla struttura capitalistica, quindi con tutte le mistificazioni di rimbalzo e le devianze ineliminabili perché frutto di una situazione precisa; non significa consegnare tutto nelle mani di uno spontaneismo che, per bene che vada, impedirebbe una crescita rivoluzionaria sia pure embrionalmente omogenea. Al contrario, vogliamo sottolineare l'importanza di abbattere vecchie codificazioni per entrare direttamente nel problema, trasferire i nostri bagagli, dal chiuso delle nostre sedi all'aperto delle contraddizioni esacerbate dal dominio capitalista sulla vita umana, un viaggio dallo schematismo, chiaro ma impotente, alla confusione che se può apparire sgradevole è pur sempre la sede della realtà, quella sede dove le contraddizioni diventano operative, dove gli scontri di classe fanno emergere le conseguenze peggiori dello sfruttamento, dove le reazioni dei singoli si fondono in quel vago aspetto ribellistico che spesso siamo portati a condannare in blocco.

Suggeriamo un viaggio pericoloso ma necessario, un viaggio dalla senilità alla gioventù, che deve essere portato a termine senza i tradizionali bagagli, spesso pieni di polvere, senza per questo venire meno al principio fondamentale dell'anarchismo, riassumibile nella frase che la liberazione degli sfruttati deve essere opera degli sfruttati stessi. Né servi né padroni, ma nemmeno mosche cocchiere.

La redazione di "Anarchismo"

Nel presentare ai lettori il testo della tavola-rotonda sul tema "Questione giovanile e prospettive rivoluzionarie", esprimevamo la certezza che "essa non avrebbe mancato di sollevare osservazioni e critiche" e sottolineavamo ancora una volta: "Il dibattito è aperto e le pagine della rivista sono come sempre aperte ad ogni valido contributo". A tutt'oggi, invece, l'unico intervento pervenutoci in proposito è quello - sopra pubblicato - della redazione della rivista Anarchismo, che abbiamo ritenuto utile pubblicare integralmente nonostante la sua eccessiva lunghezza (tutta la prima parte è un riassunto semplicistico ed a volte tendenzioso del dibattito). Sorvoliamo inoltre sul tono malevolo che caratterizza alcuni brani dell'intervento della redazione di Anarchismo, e veniamo alla sostanza di alcune sue osservazioni.

Uno dei temi principali di dibattito emersi dal Festival del Parco Lambro e riflesso nella nostra tavola-rotonda è quello del rapporto minoranza rivoluzionaria/masse ribelli: si tratta, a nostro avviso, di individuare i modi più opportuni e le forme più efficaci per far conoscere ai giovani ribelli della società dei consumi (al Parco Lambro e altrove) il progetto di rivoluzione libertaria. Nessuna operazione di "recupero" da parte nostra - come invece sembrano intendere i compagni di Anarchismo - nessun tentativo di inglobare in una strategia precostituita i fermenti di ribellione espressi dai giovani. Non si tratta nemmeno, però, di "far propri i bisogni espressi da questi giovani proletari", quanto semmai di confrontarsi con loro per cercare di risolvere insieme anche i loro problemi, per portare fino alle estreme e logiche conseguenze la loro rabbia, la loro insoddisfazione. Intendiamo con ciò sottolineare la nostra convinzione che se, parallelamente alla rivolta non si sviluppa una progressiva presa di coscienza generalizzata, ben presto qualsiasi fiammata rivoluzionaria si spegne e lascia così spazio ai nuovi padroni - i burocrati della rivoluzione - che guidano le masse verso un nuovo sfruttamento. Ci sembra che i compagni di Anarchismo, invece, sottovalutino l'importanza del ruolo del movimento anarchico specifico in seno alle lotte autonome degli sfruttati e mitizzino invece lo spontaneismo; anche se, verso la fine del loro intervento, convengono con noi che sarebbe errato "accettare in blocco qualsiasi elemento ribellistico" e "consegnare tutto nelle mani di uno spontaneismo che, per bene che vada, impedirebbe una crescita rivoluzionaria sia pure embrionalmente omogenea".

Vi è poi una parte della lettera della redazione di Anarchismo che non ci trova per niente d'accordo. Laddove, infatti, si esalta "la gioventù" e si afferma che "la ribellione è di fatto giovanile, elabora schemi d'azione che sono fatti per i giovani" ecc., noi sentiamo di dover respingere queste affermazioni false e pericolose. False perché il contrasto tra "senilità" e "gioventù",, tra rivoluzionari (senili) e ribelli (giovanili), non trova alcun riscontro nella realtà: meraviglia, anzi, che proprio da parte di compagni nostri si dia nuovo fiato a questo tipico luogo comune della pubblicistica borghese, così abile nell'inventare contrasti tra le vecchie barbe e di giovani imberbi, pur di mistificare la realtà dell'anarchismo. Questa assurda mitizzazione della gioventù da parte dei compagni di Anarchismo la consideriamo anche pericolosa, perché, oltre a creare inutili equivoci intorno al nostro movimento (che certo soffre di non pochi problemi, ma sicuramente non di quello "generazionale"), riprende un tema che, estraneo alla storia ed al pensiero dell'anarchismo (e, più in genere dell'intero movimento di emancipazione sociale), ha caratterizzato (in Italia) il futurismo ed il primo movimento fascista. Riflettano i compagni di Anarchismo su questo punto e si ricordino bene che non a caso il mito "giovanilistico" è spesso stata una componente non secondaria dell'ideologia dei movimenti totalitari.

Noi della redazione di "A" (detto tra parentesi, siamo tutti giovani: età media sotto i trent'anni) riteniamo che il continuo rinnovamento non sia una prerogativa solo giovanile e che il progetto rivoluzionario anarchico possa esser compreso e fatto proprio dai giovani e dagli anziani nella stessa misura.

Per concludere queste nostre osservazioni - che non pretendono certo di aver esaurito la tematica in discussione - ci permettiamo di sorridere nel leggere l'invito della redazione di Anarchismo a "trasferire i nostri bagagli dal chiuso delle nostre sedi all'aperto delle contraddizioni esacerbate dal dominio capitalista sulla vita umana", ecc. Al Parco Lambro non eravamo certo in una nostra sede, e all'aperto (anche sotto i ripetuti acquazzoni) abbiamo vissuto davvero dal di dentro (non solo geograficamente) le contraddizioni espresse dai duecentomila giovani presenti.

La redazione di "A"