Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 47
aprile 1976


Rivista Anarchica Online

AL CINEMA
a cura di Rozac

MARCIA TRIONFALE, di Marco Bellocchio.

Questa volta l'operazione dissacrazione non è riuscita minimamente a Marco Bellocchio ed il film che si prefiggeva di condannare duramente l'istituzione esercito si lascia vedere, non permettendo allo spettatore nulla di più di una critica senza mordente e che non si addice affatto alla cinematografia alla quale ci aveva abituato Bellocchio. Recitato pessimamente da Franco Nero e Michele Placido - troppo caricati entrambi - e con perizia dalla giovane attrice francese Miou-Miou, la pellicola si perde troppo in spunti che nulla hanno a che fare con l'ottusità e la volgarità e la violenza della vita in caserma per dare libero sfogo ad una scontatissima storia d'amore nella quale la vicenda primigenia - la contestazione dell'esercito - sia vede via via ridotta a semplice palcoscenico invece di assurgere a protagonista principale. Così perdono significato gli atti di protesta dei militari che sembrano soltanto capaci di emettere peti oltraggiosi, perdono significato i tentativi di democratizzazione di una parte della truppa ridotta a tirarsi addosso il rancio, perdono significato i problemi sessuali che ogni giovane incontra andando sotto le armi - una prostituta ed un omosessuale sintetizzano lo squallore di quell'aspetto della vita militare - ed in questo continuo perdere di significati si perde il film, che in ben altro modo avrebbe dovuto essere condotto.

Dispiace trattare duramente un autore cinematografico caro ad una generazione - il suo I pungi in tasca ha fatto fremere le sale cinematografiche nel 1968 - ma occorre ribadire che Marcia Trionfale è un pessimo esempio di quello che si intende per accostamento di un regista politicamente e socialmente valido al consumismo: ancora una volta quest'ultimo ha avuto ragione del primo ed i troppi soldi hanno inaridito le idee dell'autore. Un vero peccato anche considerando che nello scorso anno Bellocchio ci aveva dato uno splendido film sulla condizione manicomiale italiana - Matti da slegare - pieno di rigore e di pulizia, estremamente rigoroso e duramente polemico nei confronti dell'istituzione sanitaria italiana, documentario dei migliori mai girati: un vero peccato, è proprio il caso di dire - e scusate se è una frase fatta - dalle stelle alle stalle.

QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO, di Milos Forman.

Mai come quest'anno i premi Oscar sono stati dati a ragione e la riprova è che questo splendido film, questa immane parabola sulla libertà dell'individuo è stata premiata con cinque statuette: sono certo che coloro che hanno assegnato il premio non ne hanno compreso appieno il valore, ma il fatto è che il film è stato riconosciuto - e per me a ragione - il migliore dell'anno in senso assoluto. Mai era accaduto che un film - almeno se non cogliamo tornare con la memoria alle pellicole di Vigo, Eisenstein, Drayer e pochi altri - mai era accaduto che un film coinvolgesse così appieno uno spettatore e soprattutto mai ciò era accaduto grazie ad una colonia di malati di mente rinchiusi in un manicomio nordamericano. La storia di Randall McMurphy e dei suoi amici folli, la storia della capo infermiere Hatchet e di Grande Capo, di Martini e di Skinner appaiono essere storie dei nostri giorni e di certo più d'uno si sentirà coinvolto dai rifiuti di McMurphy, dalla sua contestazione, dalla sua voglia di vivere, perché in essa si riconoscono troppe cose per poterle lasciare sopite in noi. Le teorie libertarie di Wilhelm Reich, Franco Basaglia, il Vietnam, l'hobo americano, il dropout, il mondo del 1968, le nuove istanze di un mondo stanco dei vecchi archetipi, la voglia di riscoprire che significa essere esseri umani e perché lo si deve essere in questo periodo terribile della storia dell'uomo balzano ai nostri occhi in ogni fotogramma e la lotta di McMurphy contro il sistema manicomiale nordamericano - lui che è rinchiuso là dentro perché ama menare le mani, bere, fare all'amore, ed essere padrone di se stesso, - diviene la lotta di ognuno di noi contro il sistema, sia esso un ufficio, una caserma, una famiglia autoritaria o qualsiasi altra cosa. A volte sembra di rivivere passi celebri della beat generation, a volte sembra di sfogliare le pagine di ribelli illustri Poe e Baudelaire, a volte addirittura si respira polvere da sparo nell'asettico soggiorno del manicomio nel quale McMurphy è rinchiuso, ma a poco a poco tutto si dissolve lasciando solo la figura dell'uomo che lotta per la propria libertà e per l'emancipazione dei propri simili, dell'uomo che combatte la sua battaglia con tanta caparbietà da fargli dimenticare le sofferenze a cui va incontro. Sarebbe troppo lungo e disdicevole narrare la trama del film perché il film ha si una trama, ma le chiavi di lettura di essa devono scattare repentinamente in ognuno di noi senza che sia un QUALCUNO a smuoverle: il meccanismo liberatorio che esso nasconde deve essere scoperto da ognuno di noi fotogramma dopo fotogramma per rendere lo spettacolo di vita ancora più bello e memorabile. Jack Nicholson - McMurphy - Louise Fletcher - l'infermiera - Willie Samson - Grande Capo - sono solo la punta di un iceberg recitativo che va ricordato in blocco perché protagonista di un film che poco ha dello spettacolo e molto ha del documento sociale. Dopo averlo visto qualcosa in voi si ribellerà e vi farà pensare: se ciò non accadrà vuol dire che siete irrimediabilmente normali.