Rivista Anarchica Online
La primavera delle Molotov
di L.L.
Ogni giorno abbiamo notizia di uno o più attentati: incendi, lanci di bottiglie molotov, aggressioni ad
industriali e a uomini politici, irruzioni e devastazioni di sedi politiche, ecc. Di fronte a questi fatti la
stampa di regime, la radio e la televisione hanno dato fiato alle trombe e hanno rispolverato la tesi della
"strategia della tensione". Brigatisti, nappisti, "autonomi" e neo-fascisti vengono tutti racchiusi nella
stessa definizione: provocatori.
La sinistra extraparlamentare (ma ormai il termine è superato e sarebbe più esatto definire aspirante-parlamentare) non si discosta da questa linea, anzi rincara la dose chiamando i propri aderenti alla
"vigilanza rivoluzionaria" per isolare i "provocatori".
La facilità con cui si definiscono provocatori questi atti è a dir poco sconcertante. È fuori di dubbio che
agli attentati compiuti da militanti rivoluzionari si sono sovrapposti (sicuramente ad arte) quelli di
elementi neo-fascisti. Ma questo non autorizza a fare di tutto e di tutti un solo fascio.
La necessità di distinguere tra attentato ed attentato è soprattutto un atto di chiarezza al quale, in quanto
rivoluzionari coscienti, non possiamo sottrarci. La risposta dura e violenta ai soprusi padronali, alle
angherie del potere rientra nella logica, nella pratica e soprattutto nelle tradizioni del movimento degli
sfruttati. È giusto far sapere a padroni, dirigenti, burocrati, poliziotti, magistrati, che devono rispondere
delle loro azioni non in un domani lontano, ma oggi e subito. Ciò non toglie che la risposta violenta deve
essere sempre adeguata alla gravità del fatto che l'ha originata non solo per motivi etici che sono
prioritari, ma anche perché gli sfruttato comprendano il significato del gesto esemplare, ne facciano
propria la sua essenza, la sua carica di rivolta.
Tutto questo ci porta a considerare i limiti della lotta armata, praticata oggi in Italia da piccoli gruppi
nel tentativo di "portare l'attacco al cuore dello stato". Questa strategia è destinata alla sconfitta, quanto
meno nel breve e nel medio periodo, perché la classe operaia a cui sono rivolti i messaggi delle azioni
esemplari è nella sua stragrande maggioranza sorda a questo tipo di richiamo. Il prevalere quasi
incontrastato della linea riformista delle centrali sindacali ha portato i suoi frutti. Così, di fronte ad una
classe operaia avviata sulla strada della cogestione, ad una sinistra che di rivoluzionario ha solo il nome,
ad una situazione sociale che restringe sempre più gli spazi rivoluzionari, è comprensibile che taluni
fuggano da questa realtà così deludente con atti di risposta violenta. Comprensibile, certo, ma non per
questo giustificabile.
La validità della strategia si valuta anche dal consenso che ottiene fra gli sfruttati. Questo non vuol certo
dire che solo l'opportunità deve guidare le nostre azioni, pur essendo un elemento di cui si deve tener
conto.
Purtroppo, checché se ne dica, la "teoria degli opposti estremismi" è passata, anche se con connotazioni
diverse. Mentre alcuni anni fa il potere attaccava la sinistra rivoluzionaria in quanto tale, oggi la
repressione viene condotta in nome della lotta ai "provocatori" che turbano la "democratica
convivenza". In ciò favorita dall'involuzione legalitaria della sinistra extraparlamentare "ufficiale".
Si tratta di un salto qualitativo che non bisogna sottovalutare. Chiunque si muova al di fuori di una
determinata logica è definito provocatore, soggettivo ed oggettivo secondo i casi, ma pur sempre
provocatore. È una logica aberrante, non ci stancheremo mai di ripeterlo, che rischia di restringere ancor
più ogni possibilità di azione anti-istituzionale.
Qui si apre un discorso difficile, certo controcorrente, che è necessario fare. La classe operaia, gli
sfruttati, non hanno ragione quando difendono le fabbriche dei padroni dagli attacchi, anche sbagliati,
dei "provocatori". Non si tratta di una "prova di responsabilità" ma di interclassismo. Certo i
responsabili sono i dirigenti sindacali, ma resta il fatto che gli operai hanno presidiato il luogo del loro
sfruttamento senza nemmeno mettere in discussione i rapporti di produzione e di proprietà all'interno
delle fabbriche.
Tutto questo non deve comunque scoraggiarci. Dobbiamo essere coscienti delle difficoltà che si
frappongono alla realizzazione del progetto di emancipazione sociale e valutarle nella loro giusta
dimensione per favorire e stimolare il rilancio delle lotte realmente autogestite dai lavoratori, dalle quali
si svilupperà e prenderà vigore il processo rivoluzionario.
|