Rivista Anarchica Online


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Tecnocrazia, ovvero la delega tecnocratica


La tecnocrazia si basa sulla gestione di desideri e bisogni, individuali e collettivi, da parte di esperti e sistemi tecnologici che monopolizzano i saperi-poteri tecnico-scientifici.
La parola tecnocrazia deriva etimologicamente da potere (krátos) e da tecnica (techné); per estensione, si riferisce ai tecnici in generale. È quindi del tutto aliena all'ideale democratico, nel quale i membri della comunità, coloro che formano il popolo (demos), partecipano alla presa di decisione e si responsabilizzano nella (auto)gestione delle conoscenze. L'idea fondamentale che accomuna le diverse tipologie di tecnocrazia è che la vita individuale e collettiva deve essere (etero)gestita da esperti, competenti nella varie scienze e tecniche, considerati i soli in grado di implementare “la” soluzione “migliore”. L'economia dovrebbe quindi essere gestita solo da economisti, le città disegnate esclusivamente da urbanisti, la salute curata unicamente da medici patentati, e così via. Come si decide chi sono gli esperti? La risposta tradizionale è che siano “di chiara fama”, che abbiano quindi un curriculum pubblicamente riconosciuto e valutato eccellente, ma di fatto l'appartenenza a una categoria di esperti è di solito determinata da gerarchie opache.
L'ideologia tecnocratica è multiforme, concettualmente inafferrabile e politicamente promiscua: non si presenta quasi mai in quanto tale, è capace di indossare le vesti ideologiche più varie. È un'ideologia adatta a tutte le stagioni.
L'unico movimento politico che si è definito tecnocratico in maniera esplicita vide la luce negli USA in seguito alla crisi finanziaria del 1929, la Grande Depressione. Un gruppo di ingegneri che facevano capo a Howard Scott promossero un sistema di ingegneria sociale radicale che battezzarono Tecnocrazia. L'obiettivo era sostituire le deliberazioni politiche ed economiche con procedimenti tecnici e protocolli per la presa di decisione presumibilmente scientifici, neutrali e oggettivi. Da una parte, il governo di tecnici esperti avrebbe sostituito i politici, considerati inefficaci e di parte. Dall'altra, il sistema monetario speculativo sarebbe stato sostituito con uno scambio di certificati energetici che rispondesse alle leggi della termodinamica.

“Liberarci dalla libertà”

La Tecnocrazia con la T maiuscola fallì, ma con la minuscola invece si diffuse e si è consolidata. La sua storia risale a molto prima dei tentativi statunitensi del XX secolo e la sua ombra si proietta fino all'epoca attuale governata dal digitale. Nel pensiero libertario del XX secolo è stata affrontata in particolare da Lewis Mumford, nella sua analisi delle Megamacchine; ma anche da Jacques Ellul e Ivan Illich.
Le tecnologie digitali egemoniche sono esempi palesi dell'avanzata del dominio tecnocratico perché agiscono come meccanismi di delega dei nostri desideri e delle capacità cognitive umane a macchine. O, per meglio dire, a procedure algoritmiche orientate al profitto e operate da macchine.
Amazon ci informa sui libri che vogliamo leggere, e che ancora non sapevamo esistessero. FaceBook si incarica di farci “rimanere in contatto con le persone della nostra vita”, come recita la sua homepage: cosa stanno facendo i nostri amici, dove e con chi? Cosa succede nel mondo, nel nostro mondo? Tinder e altri servizi analoghi si occupano di trovarci con chi andare a letto, iTunes conosce meglio di noi la musica che vogliamo ascoltare, TripAdvisor ci dice il ristorante dove vogliamo cenare, e così via.
La promessa di ogni delega tecnocratica è, in ultima istanza, di liberarci dalla libertà. La libertà è fatta di scelte. La tecnocrazia ci invita invece a non scegliere, ci blandisce con una possibilità di scelta illimitata, di fronte alla quale, disorientati e persi, ci arrendiamo al troppo: così è il sistema a decidere ciò che è meglio per noi. Per il nostro bene, naturalmente.
E tutto questo gratis! La libertà di non dover scegliere nulla, sottinteso di non dover rinunciare a nulla, a gratis! Ovvero, per il modico prezzo di offrire in dono ritualmente, in maniera ripetitiva e compulsiva, tutti i dettagli della nostra identità, tutti i particolari delle nostre relazioni sociali e gusti e preferenze a imprese private. Si occupano loro di lucrarci sopra, vendendoci pubblicità personalizzata grazie a metadati, e vendendo direttamente le nostre impronte digitali, singole o meglio aggregate ai profili di altri abitanti dei mondi digitali.

Ma la tecnologia non può essere neutra

Un tratto fondamentale della tecnocrazia è che si tratta di una tipologia d'azione politica che si presenta come apolitica. L'argomento chiave dei tecnocrati, sempre implicito, è che le tecnologie sono “neutrali”, figlie di una ricerca scientifica “oggettiva” e disinteressata da parte di esperti imparziali, super partes.
Non c'è alcun dubbio, e non ci stancheremo di ripeterlo: la tecnologia non è neutra. Accettare l'assunto della neutralità significa cadere nella trappola concettuale della tecnocrazia e ritrovarsi invischiati in discorsi privi di senso sull'uso “buono” o “cattivo” delle tecnologie. Fino agli assurdi logici, ovvero politici, secondo cui se i “buoni” avessero in mano le tecnologie utilizzate male dai “cattivi” oggi al potere, allora sì, potremmo star tranquilli! Il controesempio più banale ed efficace rimane quello della bomba atomica: poco importa a chi sia in mano, è una tecnologia militare pensata per distruggere. Lo stesso vale per le Megamacchine digitali. Quindi rendere Google pubblico, creare un Facebook alternativo, fare un Amazon senza sfruttamento sono proposte insensate, perché la taglia smisurata e l'ambizione egemonica di quei sistemi li rendono strutturalmente eterogestiti e orientati al dominio.
Perché la tecnologia non è e non può essere neutra? Perché le macchine e gli algoritmi che le fanno funzionare materializzano i valori e riproducono le ideologie dei loro creatori. Sono disegnate e costruite da esseri umani mossi da interessi economici, ideali politici, credenze personali, tutti elementi che s'incarnano nel loro funzionamento a livello di sistema. Questi elementi situati sono visibili nelle interfacce, nella disposizione dei bottoni, nelle funzioni a disposizione degli utenti, nella maniera in cui vengono presentate le informazioni. Le cifre e i colori non sono neutri: sono frutto di studi accurati, mirano a promuovere un certo tipo di rapporti, dando per scontato che di più, più in fretta e più a buon mercato sono i valori che motivano ogni azione. Più like, più in fretta, senza fatica!
Tutte le tecnologie che mediano interazioni complesse sono ideologicamente orientate, non c'è niente di sbagliato in questo, se non il fatto di negarlo. La ragione è semplice: le interazioni fra umani e macchine configurano relazioni di potere, e il potere non è neutro. Si può diffondere e gestire, ma di solito viene accumulato a scopi di dominio. Una volta strutturato in Megamacchine non si può semplicemente prenderlo in mano e gestirlo bene, perché al dominio ci si può sottrarre, e può essere abbattuto, ma il dominio non può essere riformato, né tanto meno usato bene.

Una reazione diffusa di fronte alle tecnologie del dominio, una bella tentazione soprattutto per chi detesta smanettare, è il luddismo. Appurato che le forme più diffuse di tecnologie digitali sono minacce per la libertà personale e collettiva, formidabili strumenti di oppressione nelle mani dei governi di tutti i colori e favoriscono pratiche di auto-delazione compulsiva; verificato che la gestione gerarchica di questi saperi-poteri tecnologici tende a creare sistemi tecnocratici di dominio, il luddista ritiene che non si debbano usare. Anzi, che vadano distrutte.

Aveva ragione Ivan Illich quando...

In realtà i luddisti possono essere sia tecnofobi sia tecnofili. I primi sono più consequenziali: non si trovano a loro agio nell'utilizzare le macchine, specialmente macchine digitali. Spesso magnificano un mitico mondo naturale che non è mai esistito, nel quale l'essere umano era libero dal giogo della macchina. Il loro mantra è «si stava meglio quando si stava peggio», oppure «una volta queste cose non succedevano», che ripetono riferendosi a tutte le disgrazie che la tecnologia non solo non ha sistemato, ma ha aggravato. Non hanno tutti i torti: le critiche di Ivan Illich sugli strumenti tecnologici industriali sono ancora valide. I sistemi tecnici quando crescono oltre una certa misura sono controproduttivi, e superano presto la soglia di inutilità per diventare nocivi. Le automobili in città sono un mezzo di trasporto lento, e sono sempre inquinanti e pericolose; così come l'Internet sociale assomiglia sempre di più a un sistema per farci sentire da soli insieme, ognuno collegato alla grande Rete in maniera individuale, senza contatti fisici con gli altri, lontano da una realtà invivibile.
Ma la tecnofobia luddista è incoerente nel suo desiderio di purezza naturale: la storia umana è una storia culturale ovvero di tecniche concretizzate in strumenti tecnologici. Il linguaggio è tecnica, l'arte è tecnica. Il problema è la pratica del dominio, non la Tecnica in sé, che non esiste più di quanto esista la Natura in sé. I più estremisti si spingono a propugnare la distruzione di tutti i sistemi tecnici, come gli anarco-primitivisti alla John Zerzan; vorrebbero cancellare non solo Internet, ma anche l'agricoltura, l'arte, il linguaggio, in quanto tecniche di dominio. Chi vorrebbe vivere in un mondo simile? Ne deriva che le posizioni luddiste più coerenti esaltano l'inviolabilità della Natura con spirito fondamentalista, e sono fanatiche in senso religioso, oppure si spingono a promuovere l'estinzione dell'essere umano quale unica soluzione alla catastrofe incombente.
I luddisti tecnofili hanno un atteggiamento più schizofrenico. Apprezzano molto le comodità e le possibilità offerte dai ritrovati tecnologici, in particolare da quegli strumenti personali che li mettono in contatto con gli altri. Ma rifiutano completamente di interessarsi a come funzionano quegli strumenti di socialità. Non sono interessati a capire, autogestire, plasmare le tecnologie perché delegare le difficoltà è più facile e meno faticoso. Esprimono una grande fiducia negli esperti, a cui fanno ricorso non appena qualcosa non funziona; con la loro inconsapevolezza gettano così i germi della tecnocrazia. Salvo poi lamentarsi amaramente di non capirci nulla di questi aggeggi infernali, e attaccare furiosamente quegli stessi esperti-sacerdoti quando si rendono conto che nessuno gestirà gli strumenti al loro posto e gratis, che la libertà costa più cara della dipendenza, e che in ogni caso gli esperti sono incapaci di risolvere i loro problemi una volta per tutte.

Verso forme conviviali di autogestione

La prassi forse più comune di tutte consiste nell'abbracciare consapevolmente la tecnocrazia, arrendendosi alla pratica della delega senza ritorno. Bombardati da messaggi contraddittori, disorientati dal caos informativo, viene quasi spontaneo pensare che si tratti di questioni talmente enormi da non poter essere risolte in maniera autonoma. La rete è globale e le tecnologie digitali sono più pervasive di altre. La patina tecnologica che tutto avvolge porta a credere che si tratti di un problema globale, che richiede risposte globali. Gestire in maniera autonoma queste conoscenze, raccontano i tecno-entusiasti, è troppo pericoloso, perché gli esseri umani sono per natura avidi ed egoisti, pronti a farsi la guerra: credono alla sentenza di Hobbes, homo homini lupus. Meglio delegare a qualcuno di capace, per il bene di tutti, per superare i particolarismi. I tecnolatri ritengono che sia necessario prevedere organismi o istituzioni, meglio se di carattere globale, transnazionale, per regolare tutta questa «roba tecnologica», e per garantire così a tutti i diritti civili, le libertà e naturalmente un adeguato livello di consumo.
La tecnocrazia è intrinsecamente scientista ed è difficile opporsi perché si viene immediatamente tacciati di oscurantismo, di opposizione al Progresso, di ingenuità. I tecnocrati desiderano regolamentare ogni aspetto della Rete; per poterlo fare, ritengono che il controllo sia la strada maestra.
Di fronte all'evidenza che le tecnologie non sono neutre, ma incarnano e configurano mondi, svanisce l'inevitabilità della delega tecnocratica, che si rivela per quello che è: delega politica a gerarchie egemoniche e autoritarie.
Se vogliamo pensare e costruire mondi differenti da questo, in cui ci relazioniamo in maniera autonoma con i sistemi tecnici, è necessario cominciare a osservare le nostre abitudini interattive e dismettere le pratiche di delega tecnocratica. Disertare la gestione tecnico-scientifica delle nostre vite in favore di forme conviviali di autogestione. I mondi digitali interconnessi non sono diversi da quelli analogici precedenti: rendono solo più evidente che la libertà è un cammino molteplice, in cui nulla può essere dato per scontato.

Ippolita
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